che possa dare il quadro dell'esistenza in comune; di conseguenza la comunità non esiste se non sotto forma di una fuga menzognera al riparo dell'essere-in-sé, della cosa, e gli incontri tra la gente diventano soprattutto quelli basati sul desiderio di appropriarsi dell'altro. Dopo aver abbandonato la sua filosofia dell'esistenza, Sartre tentò di prospettare una visione della comunità costruita continuamente in un progetto rivoluzionario e che senza mai arrivare ad una forma fissa (i residui delle sue antiche battaglie contro la «reificazione») conferisce tuttavia ai suoi partecipanti una nuova forma di identità. Sfortunatamente, a quanto sembra, si tratta ancora di un ritorno illusorio. Essendo la rivoluzione, per definizione, il processo di decomposizione delle forme istituzionalizzate della vita sociale, non può stabilirsi se non come modo permanente di vita e, anche se è vero che nel corso di questo processo gruppi attivi acquistano un forte sentimento di identificazione collettiva, è anche vero che non si tratta che di brevi periodi di euforia, inevitabilmente seguiti da amare delusioni durante la ristabilizzazione delle istituzioni. La rivoluzione concepita come un ritrovamento di spiriti affamati di un luogo sicuro di identificazione psicologica non è stata e non sarà mai che una chimera da adolescenti. Questo desiderio di appartenere ad una co- ·munità realmente vissuta nei rapporti diretti, questi sogni di una vita dove la gente comunica senza la mediazione delle istituzioni (la «comunicazione autentica» di Jaspers), sono stati descritti molte volte come reazionari per definì- «LA FIERA» DI JAN BRUEGEL IL LEVIATANO zione, come tentativi disperati di annullare la civiltà moderna e di rifugiarsi nei propri fantasmi, in una serena barbarie. Ora, reazionario o meno, questo desiderio è in noi più forte che mai e cerca di esprimersi sotto le maschere ideologiche più varie. D'altronde, per credere che l'aggettivo «reazionario» è non solo descrittivo (indicante un'idea di ritorno a forme antiche e sorpassate), ma che contiene un giudizio di valore peggiorativo, bisogna anche credere non solamente che c'è un progresso, ma che non c'è che il progresso: giacché questo significa che pensare a un ritorno, è pensare comunque a qualcosa di male. Dunque per impiegare la parola «reazionario» con questo sottinteso automaticamente aggiunto, bisogna ammettere una teoria globale del progresso, inevitabile e incessante; una teoria la cui certezza - ed è il meno che si possa dire - non è affatto incrollabile. Ed ecco un esempio semplice di questa confusione. Attaccandosi alla metafisica heideggeriana, Adorno associava questo desiderio di ritornare alle radici all'ideologia nazista del «sangue e suolo». Anche se ciò può essere vero, non è che un terzo della verità. Cui bisogna aggiungere altri due terzi: prima di tutto Adorno stesso, che cosa aveva da offrirci, salvo la condanna globale della civiltà industriale e burocratica che ci imprigiona nelle sue forme «reificate» e salvo l'elogio della cultura delle élites feudali? E poi (ed è la terza parte), se si riflette sul successo spettacolare - anche se breve - dell'ideologia nazista, non si è forse tentati di vedervi anche una rinascita mo15
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