Il Leviatano - anno I - n. 1 - 4 novembre 1979

LESZEK KOLAKO WSKI La distruzione del villaggio e la mobilità della nostra vita, non è solamente la perdita progressiva di quell'ambiente relativamente stabile e quasi naturale che è il vicinato, ma è anche la fine di quello spazio umano che prima costituiva per noi un sistema di riferimento a partire dal quale il nostro mondo si è costruito poco a poco; le nozioni di casa paterna, di luogo natale, della famiglia di molte generazioni, sono in via di rapida estinzione e con queste la nozione stessa dell'infanzia. Essendo dappertutto, non siamo in nessun luogo, il nostro spazio è puramente cartesiano, indifferenziato e infinito, senza punti privilegiati. È una perdita che forse non si lascia facilmente definire o afferrare dalle categorie della sociologia empirica ma non rimane, per questo, meno reale e realmente vissuta. Molte volte si sono descritti i nuovi quartieri delle grandi metropoli che, seppure ben pianificati e ragionevolmente forniti di tutto il necessario per una vita confortevole, sono tuttavia misteriosamente mcrti, indifferenti, incapaci di proteggere alcuna forma di c0munità o di spazio spirituale, e nei quali nulla e nessuno ha veramente radici. Vagando in un infinito geometrico senza sapere come definire noi stessi rispetto ad un ordine che ci oltrepassa, senza avere l'immagine di un tale ordine e senza le regole che ci assegnino il campo delle responsabilità «naturali» i nostri bisogni tendono a gonfiarsi all'infinito e i sentimenti soggettivi di penuria non hanno più rapporto con quello che già si possiede. E non essendo le risorse reali inesauribili, diventiamo spesso preda di una fame dolorosa in mezzo all'opulenza e la vera miseria, fisiologicamente u definita, che ci circonda o di cui siamo coscienti, non cambia la nostra condizione. La nostalgia «reazionaria» Eccoci dunque ancora in preda, tanto negli slogan politici che nelle speculazioni filosofiche, di questa stessa vana nostalgia del villaggio, nostalgia che ossessiona la civiltà occidentale da più di due secoli e cioè dall'inizio dell'urbanesimo moderno e soprattutto dell'industrializzazione. Già Vico - non senza ragioni recentemente scoperte e che hanno attirato l'attenzione degli storici - aveva descritto il declino periodico e inevitabile delle civiltà nei termini che dovevano ben presto diventare familiari tra i rousseauiani e i critici romantici della modernità: la scomparsa delle autorità e dei miti, la decomposizione della spontanea solidarietà tribale, l'assorbimento esclusivo di ciascuno nei propri interessi privati ecc. Siamo allora condannati a ripetere senza fine tutti questi pietosi clichés sulla «atomizzazione», sulla solitudine nella folla, sulla «meccanizzazione» della vita, sulla dissoluzione dei legami familiari, tribali, nazionali, sulla «depersonalizzazione» degli sradicati, la «reificazione» e la Gemeinschaft romunitlÌ]evaporata? Ebbene, pare di sì. Vi siamo condannati e reinventiamo formule nuove per rinfrescare un po' il vocabolario, caduto in desuetudine, di Jean-Jacques, dei romantici tedeschi, dei saint-simoniani, del giovane Marx. Ma la nostra vita spirituale si muove incessantemente intorno agli stessi sogni, ora per rianimare l'immaginazione arcadica, ora per respingerla o per negarla come fantasia puerile e reazionaria in un atto disperato di sfida. E la filosofia di cui ci siamo nutriti durante gli ultimi decenni, che cos'è se non la nevrosi - reale o immaginaria che importa - degli esiliati dal paradiso, rinnovati tentativi di affrontare una vita alla quale né le mitologie fondate né il senso della solidarietà nazionale o tribale offrono più un ordine intellegibile; una vita senza un luogo di identificazione in un «tutto» che ci oltrepassa? La prima metafisica di Heidegger sembra essere scaturita da questo desiderio: opporre all'uomo che vuole fuggire dalla libertà e dalla sua responsabilità e che si dissolve negli schemi già pronti del comodo anonimato, un uomo che cerca le sue radici nell'Essere ineffabile e che riafferma, con que~ta ricerca, la sua irriducibile esistenza. La prima metafisica di Sartre, al contrario, sembra essere l'accettazione rassegnata di un mondo che, ad eccezione dello slittamento volontariamente ingannevole nell'inautenticità, nell'universo delle cose, ci invita solamente a rimanere nella nostra vuota libertà, senza prospettive di radicamento o di identificazione con una comunità reale. Producendo ognuno il proprio tempo («temporalizzandosi») separatamente, partendo dalla propria libertà illimitata, impedisce il sorgere di un tempo intersoggettivo 4 NOVEMBRE 1979

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