Il Leviatano - anno I - n. 1 - 4 novembre 1979

conculsioni della 'rivoluzione culturale' (che altro non era che una guerra civile), arrivavano notizie confortanti, e cioè che la politica e la coscienza di classe decidevano di tutto («la politica al posto di comando») e risolvevano tutto: potevano produrre non solo un egualitarismo rigoroso, ma anche l'acciaio in piccoli fornetti casalinghi. Le nostre frange sindacali più accese, a loro volta, respingevano la «rigidità» della catena di montaggio, e promettevano un modo nuovo di fare l'automobile. E su tutto ciò si innestava il millenarismo cattolico, le cui avanguardie erano penetrate in tutti i partiti e in tutti i gruppi della sinistra parlamentare ed extraparlamentare portandovi la loro attesa messianica di un avvento imminente del regno, dove tutte le aspirazioni sarebbero state soddisfatte e dove sarebbero scorsi in abbondanza il latte e il miele. Si sarebbe anche potuto pensare, dicevamo, che questa ubriacatura fosse ormai finita. Dopotutto, la dura realtà della crisi sociale ed energetica dovrebbe richiamare persino gli ideologi ai problemi veri, cioè ai problemi del lavoro e della sua produttività, dei sacrifici da fare, del tessuto sociale sconvolto da ricomporre. E invece ci sono segni sicuri che alcuni non hanno affatto intenzione di cambiare strada. Ce ne ha dato la prova un recente numero di «Rinascita» (36), che dedica largo spazio alla «crisi della razionalità classica». «Rinascita» pubblica un ampio brano di un saggio di un filosofo, Aldo Gargani, il quale ci spiega che «quando gli schemi geometrici del tempo e dello spazio nella fisica classica erano invocati per determinare le funzioni fisiche dell'inerzia e dell'accelerazione, senza esserne a loro volta modificati, era all'opera un modello di razionalità e di gerarchia concettuale che è appropriato all'immagine di un potere. Si trattava, cioè, di legittimare una gerarchia di concetti mediante una distribuzione asimmetrica di poteri». Ai più giovani la scoperta di Gargani potrà forse apparire nuova. In realtà, si tratta di una musica assai vecchia. Il grande imputato è qui, an,;ora una volta, la scienza. Come osserva Luciano Gallino in un commento al saggio di Gargani, «rischiano di sembrare cedimenti alla moda le note che collegano direttamente il model:o di razionalità classico, e la logica formale che lo integra, alla struttura gerarchica delle società occidentali». Gallino aggiunge che l'equazione razionalità classica = dominio dei pochi sulle masse, ovvero disciplina della mente delle classi subordinate a fini di controllo sociale, è uno dei motivi guida della critica della società moderna elaborata dalla Scuola di Francoforte, ma è anche uno dei suoi lati più deboli. Dopotutto, sembra di ricordare che nei secoli andati le «masse» sono state disciplinate con ben altre idee e rappresentazioni, assai meno laiche e razionali del modello classico di razionalità. Ma, a parte queste sacrosante considerazioni, a noi interessa mettere in rilievo i presupposti 10 sociali e politici che tali posizioni sottendono, o quanto meno i risultati ai quali portano. Ce ne dà un saggio Claudio Napoleoni, il quale accetta integralmente le tesi di Gargani, e porta il discorso sul terreno che gli è più congeniale, quello economico-politico. Si tratta, dice Napoleoni, di superare anche il modello di razionalità tradizionalmente espresso dall'economia politica (e strettamente connesso alla razionalità classica), cioè «la teoria dell'amministrazione dei mezzi per il massimo conseguimento di fini, che si presuppongono dati». Questo sarebbe un modello aprioristico, valido forse per singoli settori del sistema economico, ma non per la totalità sociale. Occorrerebbe quindi superare questo modello, e giungere a una vera composizione fra mezzi e fini, fra bisogni e lavoro. In che cosa consista questa «composizione» Napoleoni lo spiega assai bene su «La Repubblica» del 22 settembre, dove, polemizzando con Modigliani a proposito delle difficoltà attuali, egli sostiene che si può benissimo sviluppare il prodotto nazionale senza aumentare il fabbisogno di energia. Si tratta, egli dice, «di realizzare finalmente l'utopia», cioè di concepire il prodotto e il reddito non come sono stati configurati dall'industria capitalistica negli ultimi due secoli, ovvero come produzione e possesso di beni materiali, bensì come produzione di cultura, di relazioni interpersonali di tipo non competitivo, di beni spirituali ecc. L'ideale di Napoleoni è certo generoso. Fa venire però un sospetto: che la critica della «razionalità classica», mentre porta a trascurare del tutto i problemi materiali, postuli un puro e semplice salto nell'assoluto. Per un materialista, bisogna ammetterlo, è un bel risultato. TERRORISMO LUCIO COLLETTI Un quadro veritiero PouTICAMENTE MOLTO ISTRUTTIVA - e anche coraggiosa - l'intervista di Piero Fasino, dirigente comunista di Torino, a Giampaolo Pansa, apparsa sulla «Repubblica» del 21 ottobre. Contiene la storia del modo in cui il PCI e la sinistra hanno reagito, nel corso degli anni, al terrorismo. E delle «spiegazioni» che ne hanno avanzato. Gli esordi del fenomeno, com'è noto, risalgono al 1972. Tre anni dopo, nel '75 (e già c'è stato, in mezzo, tra le altre cose, il rapimento del giudice Sossi), il PCI e la sinistra sono arroccati ancora nel rifiuto più intransigente della teoria 4 NOVEMBRE 1979

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