Fine secolo - 14-15 dicembre 1985
FINE SECOLO* SABATO 14 / DOMENICA 15 DICEMBRE 2 Il IL DIARIO ..DI CARC~:KE DI MAG;NAGm, LE . E'IABE DI NARIA, I.DISCORSI DI ALTRI , .. SUGLIANNI SETTANTA S trano, il destino dei decenni. Vengono dimenticati e tornano al .centro dell'at– tenzione secondo flussi imponderabili, ritmi e ragioni clie sfuggono a ogni previsione. . E' accaduto in modo clamoroso e sorprenden- . te agli anni Sessanta, per lungo tempo rimossi dalla memoria collettiva è considerati espres 0 sione di quanto di peggio una generazione po– tesse combinare sulla scena del mondo {disim-· pegno, consumismo, indifferenza, individuali-· smo...); e poi improvvisamente rivalutati,, sul- 1' onda di infiniti revival musicali, vestiari., comportamentali - e anche, in senso proprio, ideologici. Sicchè quello strano fenomeno per convenzione unanime definito riflusso ha fini– te per assumere gli anni Sessanta a simbolo di un proprio recupero di valori e libertà poi {ne– gli anni Settanta) calpestati. E gli anni Settanta? A tutti i contemporanei . (protagonisti e pubblico sugli spalti) erano ap– parsi confusi ma importanti - e a qualcuno, anzi, eccellenti perchè confusi. Poi improvvisa– mente - gli anni Settanta erano già finiti da un pezzo sotto i colpi di primi impieghi, ripensa– menti, pentimenti ed esecuzioni - qualcuno co– minciò a parlarne come di un lungo incubo, un brutto periodo di violenza e incoscienza. Del resto, il funerale degli anni Settanta fu solo la somma di troppi funerali. E fu facile per tanti dimenticare il travaglio e la ricchezza, le spe– ranze e le energie. Così esoréizzati, gli anni Settanta finirono pre– sto nel dimenticatoio, tra i rifiuti della storia. Periodiche iniziative giudiziarie ne riportavano in vita i linguaggi peggiori, quasi tutti pareva– no interessati a dimenticare. Gli anni Settanta terminarono prima ancora che il calendario li desse per spacciati; ma muore giovane chi è caro agli dei... Rimembri ancora? Quello che è poi successo - questo improvviso ritorno degli anni Settanta nei pensieri e nelle parole di molti - è più difficile da dire. Forse tutto è cominciato con.qualche iniµativa giu– diziaria più complessa di altre, che non poteva ridurre i delitti e i comportamenti inquisiti a "terrorismo" {o pre-terrorismo, o post-terrori– smo). O forse con i primi risorgenti segni di un'inquietudine giovanile che agli anni Settan– ta si riferiva {magari anche solo per criticarli o rifiutarli). O forse ancora, bisogna deporre le armi della ragione e arrendersi all'impondera– bile casualità dei flussi storici cui si accennava all'inizio. Magari per riconoscere che si ritorna seriamente e onestamente a riconsiderare - e . forse recuperare - valori di un'epoca quando l'affermazione dei valori opposti supera quello che si dice "il livello di guardia". Sta di fatto che degli anni Settanta si discute ormai molto: nelle autogestioni, sui giornali, in piccoli gruppi e persino {chi si rivede!) in as- -semblee. Come non mai è stato, forse; giacchè da dentro gli anni Settanta· tutto - scelte e com- •portamenti, mezzi e fini - appariva in qualche odo-"necessario" e perciò fin troppo sempli– ce. Non sembrava veramente il caso di stare troppo a pensarci su. Ora invece molti ricominciano a pensarci {o al– meno smettono di non pensarci programmati– camente più) e qualcuno comincia a ricordare (o almeno .smette di dimenticare). Ne vien fuo– ri un dibattito, e cioè una massa di parole - uti- di Marino SINIBALDI li, anche quando non necessarie -, di interventi.., -di ricostruzioni. Con qualche illusione di pre– sentare (o rappresentare) i Veri Anni Settanta; e però anche qualche disponibilità ad ascoltare le altrui verità e rappresentazioni. Sarà curioso vedere cosa provocherà questo ri– pensamento. Forse la liberazione di qualche detenuto - e sarebbe moltissimo; forse la libe– razione di qualcuno che detenuto non è - e sa– rebbe moltissimo. Per ora sarà utile segnalare alcuni dei materiali prodotti da questa riconsiderazione del percor- so di una generazione. · Gran pàrte del dibattito si svolge su giornali e riviste (e qui tocca· in genere il suo punto più basso). Ma va ricbrdato almeno "Linus", e non solo perchè il suo numero di novembre contiene vari interventi sul tema; ma perchè nei mesi scorsi "Linus" ha consegnato agli sto– rici un doculJ}ento capitale. Mi riferisco alla ormai celebre· lettera anti-'68 {e perciò, per estensione, anti-anili Settanta) di Nicoletta Giusti, quindicenne bolognese poi plurintervi– stata. Del suo ragionamento, che sembrava fatto apposta per scatenare ·ire e resuscitare ri– cordi, va citato almeno un passo, apparso par– ticolarmente infamante ai ragazzi del '68: "quelli che hanno fatto l'università in quel pe– riodo sono spesso asini a causa del voto politi– co e delle occupazioni delle sedi che hanno fa– vorito quelli senza voglia di studiare".· Crimi– nali forse sì; ma asini è troppo! Verrebbe da pensare, fatte fortunatamente le debite propor– zioni, a un telegramma di Ems stilato, che so, da Mario Capanna. E i primi vagiti del movi– mento dell'85 sono apparsi in effetti una smen– tita fin troppo rapida all'immagine che della sua generazione Nicoletta· dava (o le veniva data). Ma questi sono problemi del presente, cui il di– battito sugli. anni Settanta può solo marginal– mente contribuire; illuminand<;>qualche aspet– to, ma col rischio di confonderne vieppiù altri. E se c'è un problema che gli anni Settanta con– segnano intatto alle generazioni posteriori è proprio quello della memoria storica; è utile? è necessaria? è preziosa? o è inutile, dannosa, pa– ralizzante? A volte viene da pensare che sareb– be meglio lasciar perdere, lasciar andare, la– scia liberi noi e gli altri da ipoteche, ricordi, esperienze accumulate ...(tutta la corrente di pensiero che sostiene questa posizione si ispira al bel titolo/aforisma; di Sting: Jf you love so– mebody set them free). Molta della riflessione sugli anni Settanta pro– vjene da quella parte àella generazione che più duramente ha pagato errori collettivi. Sarebbe interessante affrontare il fenomeno della vasta produzione letteraria e ·paraletteraria che pro– viene da detenuti politici. E' (o è stato) il segno di un ripensamento, una riconsiderazione del proprio passato; ma ancor più -un tentativo di comunicazione che .cerca - dispeFatamente, in qualche caso - forme nuove, più adeguate alla complessità dei sentimenti in gioco. Già in passato l'esito di alcuni di questi tenta– tivi è stato interessante. Basterebbe ricordare il libro di Lapponi, L~oni e Morucci, L'idea fis– sa, le poesie di Piero Del Giudice, qualche rac– conto uscito qua e là su riviste, le storie illu– strate di Mario· Dalmaviva. La grande massa di produziòne poetica ha addirittura generato un concorso, con centinaia di partecipanti da tutta Italia, non solo detenuti per motivi politi– ci. Nella nuova collana "manifestolibri" stanno per apparire due testi provenienti da esperien– ze carcerarie. Il primo è di Alberto Magnaghi, si intitola Un'idea di libertà. San Vittore '79- Rebibbia '82 e contiene un'impegnata postfa– zione di Rossanda Rossanda; il secondo è una raccolta di "fiabe, quasi fiabe, sogni e raccon– ti.. di Giuliano Naria, si intitola / giardini di Atrebil .ed è introdotto da Chiara Gallino. La libertà è un origami ' La storia giudiziaria di Alberto Magnaghi è quasi banale nella sua tipicità: fondatore e diri– gente di Potere operaio, docente universitario· di Architettura, arrestato il 21 dicembre 1979 nel_l'ambito dell'istruttoria del "7 aprile". Se– gupno tre anpi di carcerazione preventiva, un processo basato su un colloquio con Fioroni che sarebbe avvenuto nel 1971, una cotidanna a sette anni di caréere. Magnaghi rimane in li– bertà provvisoria come altri imputati di quel processo: "il 7 aprile -ba scritto Rossana Ros– sanda - emana voluminose condanne e poi al– lenta la presa senza lasciarla". Il libro è il diario di quei tre anni di detenzio– ne. Un diario in senso stretto: ogni pagina, ogni annotazione porta in testa una data e un luogo (ed è così possibile seguire la trama di spostamenti, isolamenti, punizioni che segna– no la vita del detenuto Magnagbi). Ma un dia- . rio assolutamente personale e "interiore", pri– vo non solo di avvenimenti e nomi, ma anche di riferimentre rivendicazioni. Non c'è, in que– ste pagine, né terrore né sangue; uscendo dal carcere speciale Magnagbi ha un solo breve ac– cenno: "sugli orrori che avvengono là dentro non mi soffermo, perchè mi porterebbero fuori strada" .. La strada, il filo rosso del diario, è il tentativo di individuare e comunicare il "carcere puro", l'essenza dell'oppressione carceraria, lo spazio– tempo assolutamente vuoto, in cui Magnaghi vede una metafora di una condizione che si vive (si rischia di vivere, si vivrà) nella città te– lematica. In questa luce il detenuto Magnaghi osserva la lunghezza spossante delle giornate, "l'inafferrabilità del centro", "il panico del vuoto", la convivenza forzosa e l'isolamento reale. Dentro questa situazione, all'inizio in– comprensibile (l'annotazione del primo giorno a San Vittore dice: "Non so niente del carcere. Niente"), Magnaghi costruisce la sua idea di Ii– oertà. E' una strada dura, che appare in certi mo– menti singolarmente priva di sentimenti. Come ci fosse una immediata reazione di autodifesa di fronte al primo effetto dell'isolamento car– cerario: "In questo sotterrraneo, dopo alcuni giorni di isolamento, le emozioni sono ridotte allo stadio infantile, elementare, si è completa– mente privi di protezioni emotive". Questa au– todifesa provoca una relativa assenza di emo– zioni, una "freddezza" poche volte mitigata; come quando - Magnaghi è già a Rebibbia - apprende per caso che un suo disegno sui muri di ~an Vittore esiste ancora, ed è stato anzi da qualche mano ignota completato; e poi alla fine, nella ricchezza di sentimenti di quella "nuova comunità" che si crea col movimento di Rebibbia nell'estate dell'82. Il diario di Magnaghi è il resoconto di un ap– prendistato carcerario che ha un fine esplicito: quello di costituire un'autoanalisi della muta- zione indotta dalla detenzione, di dirigere e non subire la metamorfosi dell'io, di aiutarlo a vincere la lotta contro la logica _dell'annienta– inento che ispira il carcere (soprattutto il car– cere speciale). Questo cammino, che è in primo luogo indivi– duale, di difesa e continua ricostruzione della propria identità, conduce alla scoperta di un'u– manità diversa; scoperta di cui, dietro il laconi– co diario di Magnaghi, è possibile individuare le tappe. Agli estremi, due incontri con la co– munità dei detenuti: traumatico il primo, a San Vittore, nel giugno '80, in un carcere e un pe– riodo ancora pieno di "combattenti" ("Quan– do l'odio per il nemico è runico legame della comunità, essa gli è subaÌterna. Appendice po– vera ed invidiosa. Ci si muove come automi; e i rapporti sono sospesi, mi.seri, interessati, guar– dinghi. La comunità parla una lingua povera: infami, dignità, veri compagni, duri, ventri molli, regole mafiose; è un mondo vecchio che si perpetua con il suo linguaggio"). Ricco e sorprendente il secondo: è l'estate del 1982, na– sce il movimento di Rebibbia, quello della co– siddetta "area omogenea". La scrittura apo– dittica di Magnaghi si anima appena, ma non cela l'entusiasmo per quanto di enorme sta av– venendo: "Una piccola rivoluzione culturale. Agosto, settembre: questo carcere è cambiato. Si danno momenti in cui, per incanto, tensioni si coagulano rapidamente, emergono, mutano il flusso delle energie collettive; l'immaginazio– ne·e il desiderio cedono il passo al movimento reale, alla mutazione rapida dei comportamen- Il ponte di colori di Giuliano NARIA C'era una volta un paese sfortunato che era diviso da un grande fiume che era più profondo che largo e questo Fiume era di– spettoso perché chiunque cercasse di at– traversarlo, lui lo acchiappavà e lo portava nel fondo e lo lasciava Il al buio e a lungo. C'erano tanti che stavano da quella Parte che non potevano mai venire da questa Parte. Moltissimi non si rendevano conto di questa barriera/separazione che il Fiume rappresentava. Molti addirittura se erano da quella Parte urlavano e maledicevano quelli di questa Parte e quelli di questa Parte piangevano e diventavano tristi. Perché quelli di questa Parte, bisogna sa– pere, era più belli e più colorati di quelli dell'altra Parte, che erano quasi tutti grigi e sembravano dei gatti bigi tutti inceneriti, in– cispiti, incigliati, impigliati a sottrarsi le bucce di banana e a infilarsi degli spilloni
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