Fine secolo - 7-8 dicembre 1985

FIN SECOLO * SABATO 7 / DOMENICA 8 DICEMBRE L a clinica si chiamava Villa Margherita, ma Elsa l'aveva ribattezzata, in uno di quei momenti di lucidità spostata, «Villa Gherardesca». Era una clinica costosa nel quartiere 'Nomentano, somigliante, nella po– polazione, l'arredamento e le piante finte, a un albergo del terzo mondo. Doveva avere anzi qual~he speciale convenzione con la Li– bia, perchè.intere famiglie libiche soggiorna– vano nell'atrio o attraversavano i corridoi, con i loro pigiami grezzi, in contrasto con gli -ospitrifaliani, ben vestiti e magari sussiegosi. Le infermiere, giovani tutte, erano anch'esse assortite: romane e ciociare ma anche svizze– re, filippine, africane, e una suora polacca. A volte, quando introducevano corpulenti e in– timiditi pazienti arabi, appena arrivati, nelle camere loro assegnate, si sarebbe pensato piuttosto a una casa di appuntamenti. ·Elsa ebbe tre stanze diverse, e ogni volta il cambiamento le apparve come una cmdeltà e un peggioramento. Più a lungo stette in una stanza a·ppartata, con un balconcino stre~to che dava sul retro. Uno spettacolo mediocre di tettucci di ripostigli, rifiuti, e attrezzi di muratura, per chi guardava in basso -era il -secondo piano. Ma guardando davanti a.sè , dal letto, si vedevano-rami fioriti e lucidi di magnolie, e cedri e pini, agitati da voli di merli e passeri. Elsa non guardava fuori, però: alla sua vista i colori ormai sfuggivano, ed era come se non esistessero. Lo diceva come chi anche dai colori sia stato abbando– nato e tradito, dopo averli tanto amati. Qualche volta mostrava inavvertitamente, o perfino ammetteva, di percepire il canto degli uccelli, e di gioirne: ma subito aggiungeva -"poverini"- che erano anche loro vittime di un'illusione ingannevole. Contro la musica specialmente aveva uiiTermo rancore, e rifiu– tava di ascoltarne più una sola nota: «Ho ascoltato musica per tutta la vita, ed ecco come ne sono stata ripagata». In generale, le sembrava che tutte le cose più belle e pure cui era stata devota avessero, alla prova della sofferenza e della solitudine ·estrema, mostra– to la propria impotenza e futilità. Non vole– va che le si leggessé niente a<i alta voce, nè poesia, nè tantomeno suoi scritti ("per ca- di AdrianoSOFRI -~ rompere in pianto. Una volta che le dissi che le volevo bene, e in tanti gliene volevano, do– mandò: «Davvero?», e poi disse piangendo: «Per tutta la vita non ho desiderato çhe que– sto». Le le~gevamò alcune delle molte lettere che le arrivavano, per Io più da persone che si credevano autorizzate dal suo tentato sui– cidio a spiegarle èhe cos'è la vita, --o ad avvi– sarla di essere più soli e tristi di lei, e anche ad ammonirla sull'incombenza della giustizia divina: non poèhe acèludevano immagini sa– cre, della Madonna. Le leggevamo le lettere dei bambini, comiche e commoventi, e altre fra le più meritevoli, come una di Ul) vescovo dell'Italia centrale, che scriveva di aver rice– vuto molto dalla «Storia», e di aver poco da dare, e che fare il vescovo era un mestiere dif– ficile, e che leggere i suoi libri e sentirsi tenu– to a pregare per lei era tutt'uno. Viceversa, di qualunque cosa scrivessero i giornali allora non voleva sapere. Per interi giorni stava aabbattuta e derelitta, senza la forza di parlare e quasi nemmeno di lagnarsi: spesso; era l'effetto di sonniferi e al– tri farmaci deprimenti, che le davano perchè era il loro mestiere, o perchè non smaniasse troppo fastidiosamente, o per incapacità di capire e rispettare i suoi vaneggiamenti, e la sua scontrosità. Allora era più penoso veder– la, con la testa inerte, eim'espressione ottusa della bocca, anche se quasi mai mancò di ap– parire un rapido sorriso -l'avrebbero potuto scambiare per una contrazione, tanto era fu– gace- al suonò di una voce e al tocco di una mano amica. Quando si lamentava più in– controllatamente, diceva più spesso «mam– ma mia», e «perchè, perchè». Muoveva mq;– canicamente la mano su e giù lungo il len– zuolo; oppure sollevandola lentissimamente .. verso la bocca e il naso, con l'indice teso. In· quel periodo iniziale più grave, non poteva nè mangiare nè bere da sola. Verso il cibo oscillava fra ritorni di una sua golosità infan– tile, e un rifiutò totale, intransigente. Diceva allora di non voler mangiare più, e di volerne morire, come attraverso un processo di puri- · ficazione. Altre volte diceva più semplice~ mente di aver disgustò di ogni cibo. Fin dal– l'inizio però aveva dich,!arato di voler diven- tare asceticamente magra, e emedeva con an– sia se fosse dimagrita. Mi diceva ironicamen– te che non potevo capire quel suo desiderio di donna. Quel desiderio di magrezza crebbe dopo l'onta, che le fu inflitta, della rasatura dei capelli, per cui sorrideva compiaciuta a chi la paragonava a un monaco tibetano. Del IMAECORPO _ resto l'unico libro che aveva voluto con sè al– l'inizio del suo ricovero era il Tao te King, e. le sue pagine tormentate mostravano clie era per lei piuttosto un breviario. Diventò magra· ~-iità''). Qualunque cosa esistesse di bello e .di nobile, non poteva più esserlo per lei. Mozart era dunque un ingannatore? Ah n_o,mai: ma era anche lui ingannato. Naturalmente, ,se si fosse· ignorato, come qualche volta avvenne, questo insieme di enunciazioni assolute, e le si fosse recitata una poesia, o fatta ascoltare una canzone, Elsa ne sarebbe stata singolarmente presa e commossa, e poi avrebbe annuito alla do– manda suggestiva: «E' bello, non è vero?» Alla sua memoria venivano con più facilità versi di Dante, che recitava con una dimessa' naturalezza, e di Pascoli e Leopardi, ma an– che interi brani di «Piccole donne» o di Ada 1 Negri, ma soprattutto le cantilene e filastroc– che popolari, di cui era sapientissima. «Ma– groline o paffutelle, le donnine sono tutte belle». Altre èose, che aveva dimenticate, sta– va ad ascoltarle co~ un'attenzione meravi– gliata e tesa, come se le riconoscesse senza riuscire ad attribuirle. Nel primo periodo, era difficile capire se riconoscesse le stesse cita– zioni di cose scritte da lei, comé quando le di– cevo che il chiasso degli uccelli voleva dire «è uno scherzo·, è uno scherzo, è tutto uno scherzo». Aveva una più pronta facilità a commuover– si, e dapprincipio se ne vergognava, poi non ci badò più. Scoppiava in singhiozzi, e qual– che volta era la famosa risata di festa e di gioia con cui accoglieva una visita grata a infatti, pur conservando un malsano gònfio– re del ventre, e un seno pieno. Quanto ai capelli, che aveva avu!o precoce- . mente bianchi, dopo che erano stati nerissi– mi, e da anni-ormai teneva avvolti in un faz– zoletto, le cose andarono così. Alla vigilia dell'operazione per l'idrocefalo doveva essere rasata. Tutti paventavano quella circostanza, e la furia con cui Elsa si sarebbe opposta, La mattina designata andai in clinica più presto, ed ero là quando arrivò il barbiere, un uomo siciliano, bassissimo e di mezza età, con una pettinatura incredibilmente curata e lustra. Era stato evidentemente avvertito che la cliente era di riguardo e stravagante, e tutta- · via la sottovalutò, esordendo in tono gioviale e cattivante con frasi tipo: «Ade8$0 diamo una bella scorciatina alla cmoma della signo– ra». Elsa ringhiò che non si sarebbe dovuto lasciar entrare nella sua stanza uno zoticone di quella fatta, e che si rammaricava che non fossero più leèite le bastonate perchè gliene ·avrebbe volentieri assestate di i,ersona una quarantina, eccetera. Il disgraziato fu rapida- . rn_enteannichilito, e mi gùardava di sottecchi come per rassicurarsi che la signora fosse strana al punto di poter proferire senza con– seguenze pratiche improperi di quel calibro. Quella rabbia comunque faceva al nostro caso, aiutando a distrarre Elsa dalla malinco– nia della rasatura. Vi si rassegnò più facil– mente di come si era temuto, mostrandosi per~uasa di argomenti e_ scherzi -adesso asso- m1gherai alla Falconetti nella Giovanna d'Arco di Dreyer- dopo aver -gridato all'in– fermiera che mai avrebbe lasciato chè le toc– cassero un capello. Ma proprio quell'impre– vista arrendevolezza accentuò in un certo senso la pena della cosa, per il distacco deso– lato che rivelava, e a un certo punto Elsa dis– se anche, mentre le si chiedeva scusa di do– verla girare sull'altro fianco, (<tanto,io ormai sono una cosa, e si può fame tutto». Sembrò che l'umiliazione e la mortificazione di quella rasatura fossero accolte come una cerimonia di abbandono della propria identità, dél pro– prio pudore. Ma occorre aggiungere, perchè tutto è sempre un po' più complicato, che molti giorni dopo, quando ormai i capelli erano ricresciuti fino a formare una gradevo– le zazzeretta bianca lunga un dito, Elsa rac– contò con noncuranza e quasi con civetteria di aver desiderato da molto di tagliare a zero i capelli, come un monaco; e che anzi un cer– to parrucchiere di via dell'Oca lo sape.va, e non mancava di interpellarla ogni volta: «Al– lora, signora, quando li tagliamo questi ca– pelli?» Comunque, aggiunse Elsa, non era un parruccmere simpatico, e non sarebbe anda- ta da lui. . Nè allora, nè mai dopo, Elsa cmese di guar- . darsi in uno speccmo, per quanto ne so. Può darsi che ciò sia avvenuto con le infermiere, per la toilette mattutina. Ne dubito, perchè non ho mai visto speccm in giro, salvo quello del bagno, che era fisso. La mattina in cui fu rasata Elsa scoppiò per la prima volta, forse, in singmozzi, quando un'amica, che era arri– v,ata subito dopo, le lesse una poesia a lei de– dicata e affissa in manifesti anonimi in qual– che strada del centro. In ogni modo era una brutta poesia. · Quell'episodio della rasatura mi colpì più particolarmente, perchè la fotografia delfa «donna da tedeschi» rapata e irrisa dagli an– tifascistP, e -lefotografie degli internati rapati ad Auschwitz, avevano fatto oggetto in pas– sato di discussioni con Elsa sull'«oltraggio al pudore». La prima fotografia poi ha un'in– fluenza decisiva sulla catastrofe di Useppe nella «Storia», e sulla concezione. stessa di Ida e Useppe. Sta di fatto che quella volta, dopo l'invettiva iniziale, Elsa lasciò fare con una specie di ostentato silenzio, e un'espres– sione più che mai simile a quella di una bam– bina offesa e piena di biasimo. Il viso di Elsa mutava molto. In alcuni mo– menti era attonito o assente, ma altre volte assumeva una vivacità cattivante, e la fisio– nomia si faceva di nuovo piacevole e bella, grazie alla regolarità dei lineamenti. Le mani erano paffute e quasi infantili, e sempre in movimento. Un giorno, che le aveva gonfie, · disse: «Non sono mica così le mie mani». Quando aveva dodici anni un suo innamora– to sedicenne di nome P.Z. aveva composto per lei una poesia in cui si menzionavano le «mani diafane come la maga Alcina». Ora Elsa lesse su un giornale che alcune persone piangevano la morte dell'adorato nonno P.Z., e ne rimase sbigottita. «Per me era pas– sato un minuto, e quel sedicenne era diventa– to nonno». Da un certo punto in poi, e non solo quando provava dolori più forti,_deside– rava che le si tenessero le mani, e che si carez– zassero. Anche in questo il ritegno cadde, perchè all'inizio pochi avrebbero creduto che Elsa fusse disposta a-una tai intimità e confi– denza fisica, sia che Io attribuissero a una sua scontrosità intransigente, ·sia che vi avvertis– sero_anche un riparo contro il disinganno. La degenza rese praticamente inevitabile una di– mestichezza crescentç degli amici con il suo corpo, ed Elsa vi si acconciò fino a non ba– darvi più -o così sembrava: favori anche una confidenza diversa, .non fondata sulle neces– sità pratiche, ma sulla manifestazione d'affet- to. · Dopo una fase iniziale così dolorosa e dispe– rante, e pur con altri periodi di crisi, Elsa ri– prese a lungo energie e vivacità. La conversa– zione con l_ei tornò a essere piena di spirito. Elsa desiderò fortemente di morire,• ma si adoperò anche con enorme coraggio e pa– zienza per curarsi, per tornare a casa, soprat– tutto per riprendere a muovere dei passi. Trascorreva le màttine in una carrozzella,

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