Fine secolo - 28-29 settembre 1985

UN CARTEGGIO BANAI,ITA' DEL '-----------------------di Gershom SCHOLEM e Hannah ARENDT----------------------- A dieci anni dalla morte, avvenu– ta negli Usa nel dicembre del 1975, la.figura di Hannah Arendt è al centro di una rinnovata at– tenzione (ne hanno già parlato Maurizio Ciampa e Gabriella Caramore su Reporter di merco– ledì 25 settembre). A Napoli si è appena concluso un convegno di studi su cui riferirà, nel prossimo numero di Fine Se– colo, Fabrizia Ramondino. Intan– to pubblichiamo oggi uno scam– bio di lettere tra la Arendt e Ger– shom Scholem, il noto studioso della Kabbalah ebraica, amico di Walter Benjamin; la corri-spon– denzafu originata dalla pubblica– zione di· un testo di Hannah Arendt sul processo e la condan– na a morte, eseguita a Gerusa– lemme nel 1962, del criminale na– zista Eichmann. Il libro, pubbli– cato in Italia da Feltrinelli col ti- . tolo "La banalità del male", pro– vocò un ampio dibattito, e una controversia dai toni anche acce– si. Le tesi della Arendt sulla "nor– malità" di Eichmann, nè perverso nè sadico, e, alla lettera, "inco– sciente" di quello che stava facen– do, portavano all'individuazione di un nuovo universo morale dove il male aveva una dimensione ba– nale, più terrificante di ogni sadi– smo, che cancellava di colpo no– zioni essenziali come quelle di in– tenzione, premeditazione, vo- lontà. J Le due lettere sono qui tradotte per la prima volta in italiano. Quella di Scholem era stata tra– dotta dal tedesco e pubblicata su "Encounter" e, in ebraico, su "Davar'' nel gennaio 1964. La lettera di Hannah Arendt era sta– ta scritta in inglese. Il male è radicale Gerusalemme, 23 giugno 1963 Cara Hannah, sono già sei settimane che ho ricevuto il suo li– bro sul processo Eichmann. Se ho tardato a scriverle, è che mi è mancato finora il tempo di dedicarmi a uno studio serio della sua opera. Non ho approfondito, lo dico subito, la que– stione dell'esattezza materiale e storica delle sue diverse affermazioni. Nonostante ciò, sulla scorta del suo modo di affrontare gli aspetti del problema che mi sono familiari, temo che il suo libro non sia esente da errori e deforma– zioni. Ma non dubito che altri critici, e saran– no numerosi, si occuperanno di questa que– stione dell'esattezza materiale e, ad ogni buon conto, essa non è al centro della critica che io vorrei presentare qui. Il suo libro si articola intorno a due poli: gli Ebrei e il loro comportamento al momento della catastrofe, e la responsabilità di Adolf Ei– chmann. Ho consacrato, come lei sa, una buo- ~~ na parte del mio tempo a riflettere sul caso de– gli Ebrei e ho studiato una notevole quantità di documenti sulla questione. Ho piena co– scienza, come gli altri spettatori degli avveni– menti, della complessità e della serietà del pro– blema, della sua vastità e della sua ambiguità. So che certi aspetti della storia ebraica (per più di quarant'anni non ho avuto altro oggetto di preoccupazione) sorpassano la nostra com– prensione: da una parte un'applicazione quasi demoniaca alle cose di questo mondo; dall'al– tra una incertezza di fondo per orientarsi in questo mondo, incertezza che fa contrasto con la sicurezza del credente, alla quale, purtrop– po, il suo libro fa così poco riferimento. C'è stata della debolezza, anche, ma una debolezza alleata a tanto eroismo che non è facile distri– carli; la miseria e la sete di potere non ne sono assenti. Ma queste cose sono sempre esistite e sarebbe ben straordinario che non si fossero manifestate al momento della catastrofe. Era così nel 1931, quando la generazione della ca– tastrofe era ai suoi inizi, ed é così aJ nostro tempo. Una discussione a questo riguardo è, a mio parere, legittima e ineluttabile, per quanto la nostra generazione non si'a in grado di emet– tere un giudizio storico. Ci manca la distanza • : /:( ,,··;~),W che, sola, può consentire di essere oggettivi, e non può essere altrimenti. Non possiamo peraltro lasciare da parte questi problemi. La nuova gioventù di Israele ci pone una domanda: perchè si sono lasciati massa– crare? Questa domanda mi sembra profonda– mente giustificata: e io non le trovo una rispo– sta facile. Per ogni momento critico e decisivo, il suo libro non parla che della debolezza della posizione degli Ebrei nel mondo. Sono pronto a riconoscere questa debolezza; ma lei v'insiste tanto che per me la sua esposizione cessa d'es- ·sere oggettiva e assume delle risonanze male– vole. Il problema è ben reale, lo ammetto: allo– ra perchè il suo libro ci lascia un sentimento così profondo di amarezza e di vergogna, non a causa della compilazione ma della compila– trice? Com'è che la sua versione degli avveni– menti sembra così spesso frappor~ tra noi e quegli avvenimenti sui quali, a ragione, lei ri– chiama la nostra attenzione con insistenza? La mia risposta a questa domanda, nella misura in cui ne ho una, non oso tacerla, proprio in ragione del profondo rispetto che le porto: essa tocca la radice del nostro disaccordo. Ciò che rimprovero al suo libro, è la sua insensibi– lità, è il tono spesso quasi sarcastico e malevo- lo che impiega per trattare i soggetti che tocca– no la nostra vita nel suo punto più sensibile. C'è, nella tradizione ebraica, un concetto diffi– cile da definire e tuttavia ben concreto, che noi chiamiamo Ahavat /srael, «l'amore del popolo ebreo». In lei, cara Hannah, come in molti in– tellettuali usciti dalla sinistra tedesca, ne ritro– vo ben poche tracce. Un dibattito éome quello che lei tenta di instaurare nel suo libro mi sem– bra reclamare - mi perdonerà queste espressio– ni - le procedure più tradizionali, le più circo– spette, le più esigenti, precisamente a causa dei sentimenti suscitati dal soggetto. Questo sog– getto è la distruzione di un terzo del nostro po– polo, e io la considero come una figlia del no– stro popolo, una figlia a pieno titolo e nient'al– tro. Ecco perchè non provo simpatia per que– sto tono che è ben espresso dalla parola inglese jlippancy (disinvoltura), che lei impiega così spesso lungo tutto l'arco del suo libro. Esso è oltremodo inadatto e sconveniente a trattare un simile soggetto. In circostanze .come queste, non ci sarebbe stato lo spazio per ciò che non saprei definire se non con la mode– sta parola tedesca, Herzenstakt, il tatto del cuore? Lei può farsi beffe di questa parola: io spero che non lo faccia, perchè parlo seriamen– te. Fra i tanti esempi in cui mi sono imbattuto nel suo libro, non senza dolore, nessuno espri- . me il mio pensiero meglio della sua citazione (estratta senza commento da una fonte nazi– sta!) sul traffic o, nel g hetto di Varsavia, dei bracciali con la stella.di David, o della frase ri– ferita a Leo Baeck "che era visto sia dagli Ebrei che dai non ebrei come il «Fiihrer ebreo» ..." L'uso del termine nazista in questo contesto è fortemente rivelatore. Lei non par– la, che so, del "capo ebreo", ciò che sarebbe stato insieme appropriato e immune dalla spa– ventosa connotazione della parola tedesca; lei dice esattamente ciò che è più falso e più insul– tante. Leo Baeck, che entrambi abbiamo cono– sciuto, non è mai stato, per nessuno di cui ab– bia conoscenza, un "Fiihrer" nel senso che lei qui insinua. Ho letto anch'io il libro di Adler su Theresienstadt. /H.G.Ad/er, Theresienstadt 1941-1945, Tiibingen 1955. ndr/ E' un libro sul quale ci sarebbe molto da dire. Ma non ho avuto l'impressione che l'autore, che parla con grande severità di gente su cui ho ascoltato racconti molto diversi, abbia mai parlato di Baeck in questo modo, direttamente o indiret– tamente. Sulla storia delle sofferenze del no– stro popolo grava bensì un certo numero di personaggi discutibili che meritano, o che han– no ricevuto, il giusto castigo: come avrebbe potuto essere altrimenti in una tragedia che si è compiuta su una così terribile scala? Cionono– stante, parlare di tutto ciò in un tono così sconveniente va nella direzione di quei tedeschi -che il suo libro condanna con più eloquenza di quanta ne impieghi per deplorare la sorte del suo popolo; non è il modo adeguato di affron– tare il teatro di questa tragedia. Nel suo modo di trattare il problema di sapere come gli Ebrei hanno reagito nelle circostanze ·estreme alle quali nè lei nè io siamo stati espo– sti, io scorgo spesso, in luogo di un giudizio equilibrato, una sorta di tendenza demagogica all'esagerazione. Chi fra noi potrebbe dire oggi qualj decisioni avrebbero dovuto prendere in quei frangenti i notabili della comunità ebraica - con qualunque nome lei voglia chiamarli? Io non ho fatto meno letture di lei su queste que– stioni, e tuttavia non ho ancora certezze; ma la sua analisi degli avvenimenti non mi assicura che la sua certezza abbia fondamenti migliori della mia incertezza. C'erano per esempio gli Judenriite, e fra i loro membri alcuni erano dei mostri, altri dei santi. Ho letto molto sulle due specie. C'era anche fra loro molta gente che non era diversa da noi, che è stata costretta a prendere decisioni terribili in circostanze che non possiamo riprodurre nè ricostruire. E io non ho la presunzione di giudicare. Io non c'ero. •Ci fu, certo, a Theresienstadt, come potrebbe-

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