Diario - anno VII - n. 9 - febbraio 1991

Diario 9 P.G. Bellocchio, Chi perde ha sempre torto. A. Berardinelli, Calvino moralista. F. Rabelais, I dadi della giustizia. BibliotecaGino Bianco

Diario Rivista di Piergiorgio Bellocchio e Alfonso Berardinelli Anno VII, n. 9, febbraio 1991 Sommario P.G. Bellocchio, Chi perde ha sempre torto. Il processo contro Lotta Continua per l'omicidio Calabresi 3 Qualche voce di vecchio. Testi di G. Caproni,E. Rossi, G. Manzù, M. Luzi, N. Bobbio 29 A. Berardinelli, Calvino moralista. Ovvero, restare sani dopo la fine del mondo 37 L'ultimo Barthes e le noie della «modernità» (p.g.b.) 59 FrançoisRabelais, I dadi della giustizia 65 Redazione: c/o Piergiorgio Bellocchio, via Poggiali 41, 29100 Piacenza. Tel. 0523/23849. Alfonso Berardinelli, via Dall'Ongaro 83, 00152 Roma. Questo numero: lire 8.000. Abbonamento a 4 numeri: ordinario lire 30.000; sostenitore lire 40.000; benemerito, da 50.000 a 100.000 lire. Per l'estero, lire 50.000. Arretrati: lire 8.000 cad. Versamenti sul c.c.p. n. 10697290 intestato a "'Diario,., via Poggiali 41. 29100 Piacenza. Chi si abbona precisi sempre da quale numero intende far decorrere l'abbonamento: se dall'ultimo o da quello di prossima uscita. Amministrazione: Editrice Vicolo del Pavone Soc. Coop. a r. l., via Romagnosi 80, 29100 Piacenza. Tel. 0523/22777. Trimestrale. Autorizzazione del Tribunale di Piacenza n, 352 del 6/6/1985. Direttore responsabile: Piergiorgio Bellocchio. Stampa: Editr. Vicolo del Pavone. Non contiene pubblicità. Spedi~ione in abbonamento postale, gruppo IV - 70% - 1/1991. Biblioteca Gino Bianco

Per quasi sei anni, dall'uscita del primo numero (giugno '85), abbiamo mantenuto inalterati i prezzi di copertina e d'abbonamento. Ciò è stato reso possibile anche dalla generosità di non pochi amici che, scegliendo la forma dell'abbonamento sostenitore o benemerito, ci hanno permesso di colmare il disavanzo tra costi e ricavi. Ma questo non basta più. Il notevole aumento dei costi di stampa, carta, postali ecc. ci costringe ad adeguare le tariffe. Da questo numero la rivista costa 8.000 lire la copia e l'abbonamento ordinario passa da 20.000 a 30.000 lire (sostenitore 40.000, benemerito sempre da 50.000 a 100.000, per l'estero 50.000). Ci auguriamo di mantenere i nuovi prezzi, se non per i prossimi sei anni, il più a lungo possibile. Ma ciò avverrà solo a patto che i lettori ci conservino la loro fiducia, ci sostengano, e soprattutto ci aiutino a far conoscere la rivista. Biblioteca Gino Bianco

CHI PERDE HA SEMPRE TORTO IL PROCESSO CONTRO « LOTTA CONTINUA» PER L'OMICIDIO CALABRESI Il forte spes·so commette mgmstlZla, poi grida come se fosse lui l'offeso. Il debole subisce, e deve chiedere anche perdono. (Ecclesiastico, 13, 3) Come la malattia e la miseria, anche la cosiddetta giustizia è una sventura che tendiamo irresistibilmente a rimuovere dalla coscienza, salvo che ci colpisca personalmente, o colpisca persone che amiamo, valori in cui crediamo. E anche quando tocchi proprio a noi, preferiamo distrarcene, chiudere gli occhi sulla nostra disgrazia, anziché fronteggiarla (ammesso che esista un modo efficace di farlo). L'incriminazione, il processo, la condanna contro Sofri, Bompressi e Pietrostefani mi ·riguardano direttamente, al di là della stima per Sofri (di Bompressi e Pietrostefani ho una conoscenza troppo scarsa), soprattutto perché il bersaglio, come risultò più che evidente fin dal momento degli arresti, era Lotta Continua. E dato che Lotta Continua era stata la componente che meglio aveva saputo esprimere le ragioni del movimento di contestazione nato nel 168 1 la formazione meno dogmatica e burocratica, quella in cui era stata più viva l'istanza etica, con la messa sotto accusa e la condanna di Lotta Continua si portava a compimento e concludeva come meglio non si sarebbe potuto desiderare il decennale processo di criminalizzazione (corollario della sconfitta politica) dell'intero movimento. Per di più, la operazione poliziesco-giudiziaria s'era mossa e si sviluppava secondo procedure cosl abnormi e sospette, da allarmare qualunque cittadino di qualsivoglia orientamento cui stesse a cuore semplicemente la legalità. Che la cosa mi riguardasse personalmente, coinvolgendo idee e sentimenti, quando pure avessi voluto nascondermelo, me ne avvertiva il particolare tipo di depressione in cui caddi non appena 3 Biblioteca Gino Bianco

ebbi notizia degli arresti. Una depressione che conosco bene e che ho avuto fin troppe occasioni di provare in questi anni seguiti alla sconfitta deHa « nuova sinistra ». Perché il peggio non è la sconfitta: è fa falsificazione della verità e la perdita della memoria imposte dal vincitore. Il peggio non sono le vendette che il potere si prende, ma che queste vendette passino sotto il nome di giustizia. Il peggio sono la dispersione, lo scoraggia,mento, il disarmo (morale ancor prima che politico) degli sconfitti, e di conseguenza i cedimenti, le viltà, i tradimenti. Non alludo ai «pentiti», né principalmente agli opportunisti passati molto presto dalla parte dei vincitori. Il peggio è che la resa, il compromesso, il collaborazionismo, seppure in modi e misure molto diversi, sono stati generali. L'immagine del potere e le sue regole s'impongono anche per fa mancata opposizione di chi un tempo era contro ma ora lo è molto meno. I bisogni materiali, intellettuali e psicologici, una volta cadute le prospettive e le speranze di cambiamento, vengono soddisfatti dai valori del potere. I primi a farne le s,pese, e nel modo più disastroso, sono i gruppi e gli individui economicamente più deboli, psichicamente più fragili, culturalmente più sprovveduti. Lanfranco Bolis, uno dei leader di Lotta Continua, durante un dibattito televisivo di due anni fa, esasperato dalla petulanza con cui il conduttore Gawronsky insisteva sul rapporto tra Lotta Continua e terrorismo, all'ennesima provocazione sbotta: « Ma è possibile che tutto quel che vi interessa di Lotta Continua sia quanto era violenta ecc.? » E conclude: « Volevamo fare la rivoluzione, e a un certo punto abbiamo capito che non ce l'avremmo fatta. E allora ci siamo sciolti, ciascuno di noi s'è inserito in qualche modo. E dunque, che fastidio vi diamo? Noi abbiamo ricevuto molto meno di quanto abbiamo dato». In queste schiette parole c'è tutta l'onestà di Bolis: mi era caro vent'anni fa, sono lieto che non sia cambiato. Bolis non ha fatto carriera, campa con un modesto stipendio d'impiegato. Neanche Sofri ha fatto carriera, né Guido Viale, né Mauro Rostagno, né tanti altri (come invece avrebbero ,potuto). Comunque, « ciascuno di noi s'è inserito in qualche modo». Ma c'è a chi è andata peggio. Persone anche come Leonardo Marino. Sulla rivoluzione avevano puntato più di Bolis, di Sofri, Viale, Bobbio ecc. Un intellettuale se la cava sempre, magari male ma se la cava. Non mi Bibl1oteca Gino Bianco

riferisco tanto al lavoro. Parlo del resto, del sogno di eguaglianza, del superamento della divisione. Per tantissimi proletari e sottoproletari, che ci avevano puntato tutto e che per una breve stagione avevano avuto anche la viva esperienza dentro e fuori la fabbrica di un reale potere, di una nuova dignità e di ciò che dobbiamo pur chiamare fraternità, per costoro la sconfitta è stata ben altrimenti amara e catastrofica che per Sofri, Viale, Rostagno, Bolis, Bobbio ecc. (per non parlare di uno come me, abbastanza vecchio e disincantato •per non crederci quasi affatto, nella possibHità di una svolta rivoluzionaria, scegliendo peraltro H « come se »). Un intellettuale razionalizza, si fa una ragione, sposta i suoi interessi su un altro settore, studia: la cultura è una grande consolazione. Ma ·per un Marino è stato come perdere l'unica chance. In breve, dopo la sconfitta, gli intellettuali rientrano nella borghesia; un Marino ripiomba nella condizione del proletario o sottoproletario, la fine della fraternità significa il ritorno alla schiavitù. Le cose cominciano subito ad andargli male. Fallisce nei lavori che tenta, fa un matrimonio sbagliato, si dà al furto, accatta e ricatta. « Inserirsi in qualche modo» non gli riesce. E' un uomo alla deriva, senza bussola. E quando viene preso con le mani nel sacco, e sa che l'attende fa galera (e ci sono debiti da pagare, la famiglia da mantenere), cerca scampo, gioca confusamente qualche carta; intuisce (gli si fa capire) che può ancora .farcela, solo che deve giocare una carta molto grossa. Preso in mezzo tra carabinieri e preti, senatori e avv.ocati del Pci e magistrati ambiziosi e spregiudicati, non è difficile immaginare cosa può essere successo. Gli si offre il modo di uscire d'un colpo da tutti i suoi guai, non solo ma facendola anche da ,protagonista. Che questa brutta fine l'abbia fatta solo Marino, nonostante il riflusso, la crisi, la delusione, l'avvilimento, lo sconforto di tanti proletari, mi conferma nella mia antica stima per la classe operaia. Non ho la pretesa di aver spiegato in poche righe il « mistero » Marino. Solo mi sembra che il suo caso vada visto nel quadro accennato qui sopra. Inoltre, a differenza di Sofri (che pure lo conosce, mentre io non l'ho mai incontrato), non mi aspetto che Marino subirà nuove conversioni, di segno opposto a quella che l'avrebbe colpito in una caserma dei carabinieri (strano luogo per i miracoli), cioè che si deciderà a ritirare le sue accuse e a dire la verità; a meno Biblioteca Gino Bianco

che non si senta abbandonato dai suoi attuali protettori. D'altra parte, Marino è probabi 1 lmente convinto di essere nella verità. Dobbiamo prendere atto che in questi anni s'è stabilita una nuova «verità». Una «verità» globale, su ,passato, presente, futuro. Per quanto riguarda il '68, questa «verità» sentenzia: il movimento di contestazione giovanile è stato puramente e semplicemente la matrice, il terreno di cultura .del terrorismo; ovvero, H terrorismo è il frutto, naturale e inevitabile, di quel seme. Questa opinione, questa « verità », condivisa dalla grande maggioranza da almeno un decennio, non ha smesso di ricevere continuo conforto e ghiotte conferme dalla crisi del comunismo su scala mondiale: Cina, Vietnam, Cambogia, Afghanistan, Cuba, Nicaragua, Urss, Europa dell'Est ... Mentre la demonizzazione di Stalin veniva estesa a Lenin e poi a Marx, e ancora a Robespierre, Rousseau (e bisognerà pur arrivare ai Levellers, a Spartaco, Tiberio e Caio Gracco, Mosé ... : ad Antigone, come vedremo, si è già arrivati), si procedeva di pari passo, tanto a livello storiografico che pubblicistico e ormai propagandistico, alla tiabi'1itazione progressiva del fascismo ... Recentemente è stata tentata la criminalizzazione della Resistenza: operazione non nuova, perché già praticata vittoriosamente dal dopoguerra fino alla soglia degli anni Sessanta, ribaltata negli ahni successivi ma non liquidata, tanto che ora riemerge più velenosa e arrogante di prima. Come il vincitore scrive la storia, cosl fabbrica ·l'opinione. Questa opinione, questa « doxa », questa « verità » - '68 uguale terrorismo - è il risultato di quasi vent'anni di sforzo congiunto dell'intero schieramento politico istituzionale, dal Msi al Pci, e di tutti i media (stampa di partito e « indipendente », tv di stato e privata). Chi non è aUineato con questa « verità »? Oltre qualche isolato galantuomo, presente in tutti i partiti, abbiamo Democrazia proletaria, una parte dei Verdi e dei Radicali; tra i media: « il Manifesto». Numericamente, il 10% circa dell'elettorato, che però, quanto a mezzi, in termini di potere effettivo, conta meno dell'l % . Provate a pensare ai 50.000 lettori del « Manifesto », da una parte, e dall'altra: i 700.000 del «Corriere», più i 700.000 della « Repubbli6 Biblioteca Gino Bianco

ca», più i 500.000 della « Stampa», più i 500.000 di «Panorama» ecc., più i milioni di « Gente », « Famiglia cristiana » ecc., più i milioni e milioni di teleutenti ... Ovviamente, non tutti i lettori del «Corriere», della «Repubblica», di « Famiglia cristiana», non tutti i telespettatori di Rai 1, 2, 3, Rete 4, Canale 5 ecc. sono vittime passive della pappa ideologica che tali media impongono, ma il quadro dei rapporti di forza resta impressionante. E' perfino ridicolo parlare di rapporti: semplicemente, in gergo sportivo, « non c'è partita ». E', ancora, il caso di precisare, per obiettività, che non tutti i giornalisti e collaboratori in genere si sono comportati come servi del potere? Ma quanto può influire sull'opinione della grande maggioranza dei lettori della « Stampa » l'indipendenza e l'onestà di giudizio di Norberto Bobbio? sui lettori della «Repubblica», i saltuari soprassalti di sincerità di Bocca? sui lettori dell' « Espresso», 1 le opinioni di Fortini o Lerner ...? Nulla, praticamente: la anomalia che rappresentano viene subito sommersa e cancellata nella gran massa di pappa. Porto un esempio concreto. Commentando sul « Corriere » (29-3-90) il programma televisivo di Sergio Zavoli La notte della Repubblica, dedicato agli anni del terrorismo, Giuliano Zincone sottolineava come la « minaccia totale » del terrorismo fosse stata un'« invenzione » del potere, un « pretesto » per rafforzarsi e governare peggio e più impunemente di prima. « Il programma di Zavoli - concludeva Zincane - dimostra quanto fosse friabile quella minaccia, e futile quel pretesto ». Ma a chi l'avrebbe «dimostrato»? chi poteva convincere oltre i pochi che lo erano già e non avevano bisogno di alcuna « dimostrazione »? Zincone preferiva sorvolare sullo scopo di quel programma, che non era già di arrivare alle sue conclusioni, ma di « dimostrare » semmai il contrario. Zincone aveva un bel richiamare il lettore all'evidenza che quei Moretti, Bonisoli, Fenzi, Balzarani in carne e ossa intervistati da Zavoli, cosi modesti intellettualmente e caratterialmente fragili, cosi comuni, normali, cosl simili a noi, non potevano essere « i mostri, i guerrieri fantasticati dai mass-media, gli ideologi astuti, i pazzi, i dementi, le donne e gli uomini di fronte ai quali le istituzioni italiane (l'esercito, il parlamento) hanno fatto finta di t-remare, hanno giurato che la democrazia poteva dav7 Biblioteca Gino Bianco

vero soccombere» ... Ma, a dispetto cli questa evidenza, la quasi totalità del subisso di ,politici, giornalisti, niagistrati, poliziotti, sindacalisti, « esperti » chiamati da Zavoli a testimoniare appartenevano al fronte degli allarmisti, quelli che sostennero a suo tempo e non hanno mai smesso di sostenere, neanche in quella trasmissione, che il pericolo delle Brigate Rosse era tremendo, che le sorti della ·repubblica erano appese a un filo ... Per non parlare poi del tono di Zavoli, grave come sempre, luttuoso e fatale, quale che sia l'argomento ... Anche quella trasmissione, che secondo Zincone avrebbe dovuto servire a correggere la verità di comodo, credo l'abbia invece confermata. Quanto a1l'articolo di Zincone, il suo. effetto è stato quello di una goccia nel mare. Per chi non i'avesse letto o l'avesse dimenticato, ritengo utile riportare quanto scritto da Eugenio Scalfari, a caldo, nei giorni immediatamente successiviall'arresto di Sofri ( « la Repubblica », 2-8-88). Si tratta deH'ultima parte di un ampio articolo il cui contenuto è indicato nel titolo: Falcone, Gava, Sofri - tre casi esemplari. Dopo aver detto la sua su Falcone, « un magistrato integerrimo ed efficiente », e su Gava, « un uomo ,politico abile e discutibile», Scalfari conclude su Sofri, « un estremista ravveduto e ammalato da sempre di decadentismo tardo-dannunziano »: 8 Adriano Sofri. Già Lotta continua. Già estremista nelle idee e negli atti. Amante del« bcau geste ». Leader di esaltati e di esaltandi. Anticomunista viscerale fin dai suoi verd'anni perché il Pci « aveva tradito la rivoluzione ». Poi rinsavito e approdato a simpatie socia1iste è tra i fondatori di « Reporter», giornale finanziato con denari socialisti. Il percorso esistenziale di Sofri è un classico d'una certa gioventù « bruciata verde » e non reca stupore: di percorsi simili ne abbiamo ormai conosciuti pa.recchi. Sul danno che hanno cagionato al {Ytlesea,l movimento cui .appartennero, alle stesse idee che propugnavano, alla classe sociale in nome della quale - e senz'averne ricevuto alcun mandato - pretendevano di agire, si è fatta chiarezza da tempo e non c'è dunque ragione di ritornarci. Queste Antigonri da tre soldi non possono che ispira<retristezza. Ma ora Sofri è accusato di un assassinio. Consumato gelidaBiblioteca Gino Bianco

mente, in forza di quella demonizzazione «oggettiva» dell'avversario che è stata uno dei frutti più tossici d'una cultura marxista mal digerita. Che atteggiamento si deve prendere nei suoi confronti? Per noi, come impone la Costituzione, Sofrì è innocente fino a sentenza. Ha diritto al rispetto di tutte Ie garanzie in suo favore. Il giudice dirà, il collegio giudicante vaglierà le prove, i difensori faranno l'opera loro. Se ha commesso il delitto che gli viene imputato, meglio farebbe a confessarlo lui stesso se vuole resta,r fedele a quella cultura del ~ beau geste » che ne ha finora caratterizzat~ i comportamenti. Ma non si dica che i1 tempo trascorso cancella la responsabilità, né che un'ubriacatura di massa giustifica il delitto. Tra il partecipare a cortei di piazza e uccidere a sangue freddo c'è di mezzo un oceano. Se Adriano Sofri risultasse colpevole, saranno lui e la sua coscienza a presentarsi, da soli, dinanzi alla legge. La legge di Socrate, la legge della città, che alla lunga la vince su quella di Antigone. Il pezzo si presterebbe a molte considerazioni. Che cosa non avrebbe fatto Kraus di una scrittura cosi vanitosa, arrogante e vigliacca! A me, che non sono Kraus, basta sottolineare un paio di cose, del resto più che evidenti. Nonostante la precisazione che Sofri deve considerarsi « innocente fino a sentenza», da tutto il brano trasuda, trabocca il desiderio spasmodico che Sofri sia colpevole: desiderio che diventa volontà, volontà che si traduce in certezza. Intanto, la responsabilità morale e politica di. Sofri in ordine a quell'omicidio è data per dimostrata. Che Lotta Continua sia stata una sciagura per l'Italia, per la classe operaia, e per i suoi stessi militanti, traviati da cattivi maestri come Sofri, su ciò « si è fatta chiarezza da tempo e non c'è dunque ragione di ritornarci». Ma ora - finalmente! - c'è .hl delitto, l'assassinio « consumato gelidamente », logica conseguenza di « una cultura marxista mal digerita» e di una prassi criminale. E' ciò che Scalfari e i suoi pari aspettavano da tempo per chiudere definitivamente la questione. Se i ringraziamenti a Pomarici non sono esplicitati, va da sé che Pomarici e gli a:ltri autori dell'anomala istruttoria ne abbiano tratto conforto e incoraggiamento a proseguire imperterriti nella loro arbitraria costruzione. Scontato l'appoggio della destra, ecco arrivare, e con la massima sollecitudine, quello della sinistra per bocca del suo più prestigioso portavoce. Però tutto questo - l'atteggiamento di Scalfari, del « fronte laico», del Pci verso il '68, nonché l'odio personale per Sofri - non 9 Biblioteca Gino Bianco

è una novità e, per dirla con Scalfari, « non reca stupore». M'aveva sorpreso un poco semmai la recisa condanna di Antigone. Non solo dell'« Antigone da tre soldi», che ,sarebbe Sofri, ma proprio della Antigone classica. Beninteso, non ho mai dubitato che Scalfari fosse dalla parte di Creante, mi stupiva che l'ammettesse, e anzi lo proclamasse orgogliosamente. Tanto meglio per la chiarezza, se non ci fosse H sospetto che Scalfari non sappia di che cosa sta parlando. Perché questo abile e fortunato imprenditore con la fissa di essére anche un maitre à penser, una guida morale, un uomo di cultura, indulge negli ultimi tempi al vezzo delle reminiscenze liceali, abituandoci a ripetuti, preoccupanti spropositi. Che abbia equivocato di un'Antigone terrorista ante litteram? Il sospetto di gravi lacune di base o a1meno di un mancato ripasso della materia si raifforza con 1a chiam.ata in causa, dopo Antigone, di Socrate. Perché la legge della città che alla lunga la vincerebbe su Antigone (per la verità è il contrario: la legge della città la vince su Antigone non « aHa lunga » ma a breve; « alla lunga» c'è da sperare che vinca la legge di Antigone) non può essere anche la legge di Socrate. La figura di Socrate è molto più prossima ad Antigone che a Creante. E' vero che per la cultura « da tre soldi» di Scalfari, Antigone è la ribelle che disubbidisce alla legge, mentre Socrate accetta la pena. Ma se la legge della città l'ha condannato a morte è perché il suo insegnamento era ritenuto altamente pericoloso: Socrate era un « contestatore » dei valori tradizionali deHa città, un «corruttore», un « cattivo maestro». Dopo aver scelto Creonte contro Antigone, Scalfari dovrebbe schierarsi con Anita e non con Socrate. Ciò che nel suo immaginario Scalfari apprezza di Socrate è evidentemente che abbia compiuto il « beau geste » di bere fa cicuta, sottomettendosi alla sentenza, giusta o ingiusta che fosse. Che è quanto dovrebbe fare Sofri: confessare le colpe di cui è accusato e autoeliminarsi. Non credo che '1a verità di comodo « '68 = terrorismo» sia più d1ffusa e radicata nella magistratura che in altri ordini e categorie. Se dico che nove giudici su dieci condividono quell'opinione, la stessa proporzione vale suppergiù per i politici, i giornalisti, gli inse10 Biblioteca Gino Bianco

gnanti, i tassisti, gli avvocati, i barbieri, i bancari, i baristi, gli industriali, i pizzicagnoli ecc. « Un giudice è un uomo come un altro »: quante volte abbiamo sentito questa giaculatoria sdrammatizzante per provvedimenti arbitrari, sentenze inique, errori giudiziari, abusi, casi di corruzione e altri comportamenti illeciti o non ortodossi in cui fossero coinvolti dei giudici ... « Un giudice è un uomo come tutti ». Fin troppo! Per la precisione: come tutti quelii della sua classe, che è la classe media dominante, della quale rappresenta gli interessi, le idee, i sentimenti, le nevrosi. Solo che esistono delle regole che andrebbero rispettate. Come all'ingegnere competono i calcoli e al medico la diagnosi e la cura delle malattie, cosl al giudice in materia penale compete di stabilire le responsabilità personali, configurare i reati, determinare le pene. Ma mentre un ingegnere, un pilota d'aereo, un medico, qua-le che sia la loro ideologia, sono obbligati al rispetto di leggi oggettive, le decisioni del giudice godono d'una larghissima discrezionalità. L'inosservanza delle regole da parte dell'ingegnere, del pilota, del medico possono provocare il crollo dell'edificio, la caduta dell'aereo, la morte del paziente: i danni, spesso gravissimi, prodotti dagli errori e trasgressioni dei giudici sono sempre opinabili, mai oggettivabili, non quantificabili, e naturalmente non punibHi. Eppure anche per il giudice esistono alcune poche regole fondamentali: una ddle quaili,che ha sempre avuto valore in qualunque ordinamento giuridico, in ogni tempo e luogo, una regola che conoscono anche i bambini, e che nessuno oserebbe contestare, prescrive: in dubio pro reo, nei casi dubbi si deve assolvere. So bene che il dubbio può anche essere paralizzante; e che in molti casi il dubbio fa comodo, è la scusa per lavarsene le mani, è la• scappatoià per non colpire interessi forti, personaggi importanti; so bene come un'abile difesa riesca a ingigantire vizi puramente formali e dubbi accessori fino a oscurare l'evidenza e capovolgere la verità ... Ma il caso -in questione non è di quelli in cui il dubbio riguardi dettagli o sfumature; non è un caso ambiguo, con delle ombre; non si tratta di quel genere di dubbi che potrebbero tormentare persone . ultrascrupolose, coscienze particolarmente delicate ... Qui il dubbio è totale, sostanziale, clamoroso, ed è già una bella forzatura parlare di dubbio. I giudici si sono•comportati come persone che in una stanza buia abbiano preteso di vedere cose che non era assoli.1tamente 11 Biblioteca Gino Bianco

possibile vedere. Sono sicuro che se al posto di Sofri ci fosse stato un cittadino qualunque (non dico qualcuno che conta, ripeto: un cittadino qualunque, senza la connotazione politica e culturale di Sofri), gli stessi elementi che i giudici hanno ritenuto probanti per l'incriminazione e la condanna sarebbero apparsi agli stessi giudici del tut• to insufficienti non solo per 1a condanna ma anche per il rinvio a giudizio. Con la stessa materia si può fabbricare un proscioglimento in istruttoria cosl come una condanna a vent'anni di galera. Qualcuno ha detto: sarebbe bastato che Sofri fosse diventato deputato, come nell'uldmo decennio gli è stato più volte offerto e come hanno fatto altri ex leader della ~ nuova sinistra». Lo penso anch'io. Ma mi colpisce di più il fatto che non gli sarebbe successo niente di male se fosse stato un cittadino qualunque. Quando il grande giurista cattolico e liberale A.C. Jemolo, descrivendo nelle bellissime Jettere al figlio che si trovava in America il grave clima di restaurazione dominante nell'Italia del '48, parlava delle « branche più fradice, quelle che hanno fatto più schifo sotto il fascismo - università, magistratura, giornalismo», che tornavano a imperversare peggio di prima, e portava a esempio sentenze scandafose, sbagliava o esagerava solo in una cosa: nell'attribuire a mera viltà, servilismo, abiezione morale il comportamento di quei poteri (« Siamo affezionati al nostro vomito! »). I professori universitari, i giornalisti e i magistrati s'erano schierati col fascismo e poi con la Dc perché ci credevano, perché il fascismo e la Dc rappresentavano i loro valori e garantivano il loro status sociale e economico. Valori e interessi che sono oggi rappresentati, oltre che dall'eterna Dc, da tutti i ,partiti, dal capitale, dai sindacati, dalla scuola, dal « Corriere », dalla «Repubblica», da «Gente», dalla tv pubblica e privata ... Per cui si può parlare per.fino di « buona fede ». Nel senso che erano in buona fede i magistrati che mandavano al rogo Je streghe, non perché ignorassero che non avevano fatto alcunché di male, ma perché s·inceramente convinti che avessero commercio col diavolo. Erano in buona fede i magistrati che tutelavano i proprietari di schiavi, perché sinceramente convinti che gli schiavi fossero esseri infe12 Biblioteca Gino Bianco

riori, poco diversi dagli animali. In buona fede i magistrati che spedivano sulla sedia elettrica gli anarchici senza alcuna prova che avessero commesso i delitti di cui erano accusati, perché per la loro cultura anarchico era sinonimo di terrorista, incendiario, assassino. Quanto alle migliaia di anni di carcere inflitti agli antifascisti, i magistrati non sentivano alcun bisogno di provare concreti atti di sovversione, bastando ampiamente a giustificare la carcerazione il delitto di pensiero. In buona fede anche loro, cosl come i magistrati che facevano fucilare Schirru e Sbardellotto per aver avuto l'intenzione di attentare alla vita del Duce ... Eccetera, eccetera. Mi scuso di aver portato esempi cosl gravi per il caso di Sofri e compagni, che per fortuna è molto meno tragico. Mi premeva mostrare la similarità del meccanismo. Il pregiudizio, l'ideologia continuano a prevalere sulle tegole, hanno il potere di sospendere le garanzie, dispensano l'accusa dall'onere della prova. Forse occorre precisare un punto. Non voglio credere che Pomarici e i suoi collaboratori abbiano inteso fin dall'inizio costruire un'accusa temeraria per puro odio politico e distorta ambizione. Non voglio credere a una macchinazionemontata a freddo. Quando la storia è cominciata (non sapremo mai come, anche se sarebbe importantissimo conoscere la verità sui retroscena), voglio concedere a Pomarici che credesse in buona fede che le cose potessero essere andate più o meno secondo la versione di Marino; che si trattasse insomma di un'ipotesi verosimile. E '1a prospettiva di risolvere finalmente un èaso cosl importante, dopo tanti anni e tanti insuccessi, e a favore d'una vittima illustre· ed emblematica, uno di quei « solerti e fedeli servitori dello Stato » che pare abbiano molto più diritto degli arltri ad avere comunque giustizia, era un'opportunità che non capita tutti i giorni. Pomarici non poteva nascondersi che la « confessione » di Marino non bastava, ma contava durante la fase istruttoria di ottenere i riscontri e le conferme necessarie. Contava anzitutto ·sul fatto che Sofri o Bompressi o Pietrostefani crollassero o almeno cadessero in gravi contraddizioni. Insieme a Pomarici, ci contavano la Procura Biblioteca Gino Bianco

di Milano, carabinieri e polizia, la vedova e i figli di Calabresi, i politici, la stampa ... Ci contava un sacco di gente. Purtroppo per Pomarici, non è successo niente del genere (le contraddizioni semmai sono state di Marino). Si contava che dall'esterno arrivasse qualche testimonianza che avvalorasse il « teorema»: purtroppo per Pomarici, nessuno s'è fatto vivo. Che nel clima generale di questi anni, e nel clima specifico creato intorno al caso, Pomarici non abbia trovato un cane che gli venisse in soccorso, non un pentito bisognoso di sconti, che non sia spuntato nessuno a caccia di pubblicità, neanche un mitomane ..., mi pare un dato da non trascurare. Dopo essermi compiaciuto che una classe operaia sconfitta, delusa e smarrita abbia prodotto un solo Marino, forse dovrei complimentare l'intero popolo italiano, conformista fin che si vuole ma non ancora del tutto degradato e incarognito ... Pomarici s'è comportato come quel giocatore che « sente » · arrivare il suo momento di fortuna (è stato Pomarici a sostenere nel corso di questo processo il valore probatorio delle « sensazioni di pelle »). Purr avendo in mano -solouna coppia, fa una forte ,puntata. Per renderla credibile, « maschera » (finge di avere) un ~ris e chiede due carte: può centrare i1 l ,poker, il full, il tris, o almeno la doppia coppia. Ma resta con la· coppia di partenza. E' cosl che ,si trova l'accusa, alla fine della fase istruttoria. Potrebbe ritirarsi dal gioco, se non ci fosse di mezw quella grossa puntata, che non impegna il solo Pomarici, ma la Procura, i ca,rabinièri, l'opinione pubblica. Diventa obbligatorio bluffare, anzi barare. Non s'è trovata la minima prova? Poco importa, basta invertire le parti. Non tocca più aU'accusa di provare fa colpevolezza degli imputati, sono gli imputati che devono provare la loro innocenza. Quando, per fare un solo esempio di quelia che è stata la ,strategia del processo, vedevo Sofri impegnarsi a fondo per dimostrare che quel 13 maggio 1972 a Pisa non c'era stato un solo momento in cui si fosse trovato a tu per tu con Marino, mentre il 20 successivo a Massa probabilmente Marino non era neppure presente, mi venivano i. brividi. Invece di provare che l'ordine di uccidere Calabresi fu dato, l'accusa e la Corte hanno ritenuto più che sufficiente che quell'ordine poteva esser stato dato, che non si poteva escludere, dal momento che la difesa non era riuscita a ·portare la prova certa che non poteva esser stato dato! (Per tacere 14 Biblioteca Gino Bianco

di Bompressi: in mancanza di un alibi di ferro, che accertasse indiscutibilmente che quel 17 maggio di diciotto anni prima si trovava da tutt'altra parte e in presenza di testimoni, non potendosi escludere che abbia ammazzato Calabresi, si dà per dimostrato che ha effettivamente ammazzato Calabresi!). Ma io ritengo che se pure si fosse riusciti a provare- che quel 13 maggio non era stato materialmente possibile che Sofri avesse comunicato alcunché a Marino, neanche questo sarebbe bastato. L'accusa avrebbe ribattuto che, evidentemente, quell'ordine fu dato in un'altra occasione. Perché quell'ordine fu dato, dal momento che lo dice Marino, e Marino è la verità. E quanto più Marino si confonde, si contraddice, cambia versione, tanto più ciò lo rende umano, genuino, e rafforza la ,sua credibilità. ,(Dov'ero e che cosa facevo quel 17 maggio 1972? Confesso di non saperlo. Ho anche trovato la mia agenda di quell'anno ma non m'è stata di nessun aiuto. Non dovendo timbrare cartellini o firmare registri di presenza, non ho prove. E quand'anche, per un caso miracoloso, scoprissi dov'ero e che cosa facevo, dovrei provarlo con testimoni. Dovrei trovare delle persone capaci di rkordarsi di avemii visto a una certa ora di un certo giorno di diciotto anni fa! E se anche testimoniassero a mio favore, la Corte non gH crederebbe. Purtroppo non ho un alibi. Se qualcuno mi accusasse di aver commesso con lui un delitto, la mia colpevolezza sarebbe provata.) Una volta Vittorio Foa mi riferl di un incontro suo e di altri giovani antifascisti con Benedetto Croce avvenuto nell'immediato dopoguerra. Dopo aver ascoltato per un po' i loro racconti di confino, prigionia, clandestinità, guerriglia, il vecchio filosofo, per tutto commento,. disse: « Insomma, vi siete divertiti ... » Non credo che la battuta, apparentemente cinica, mirasse a svalutare la fede e il coraggio di quei combattenti. Preferisco pensare che esprimesse soprattutto il rimpianto del vecchio per la giovinezza, dell'uomo· di studi per l'azione. E mi piace escludere da questa invidia alcun malanimo. Colui che si era consapevolmente autorepresso quando aveva deciso di rendere produttiva la sua esistenza, ne conosceva bene il prezzo: ciò cui aveva rinunciato era in un certo senso rappresentato da quei Biblioteca Gino Bianco

giovani che avevano combattuto, erano finiti in carcere, avevano rischiato la morte (che era toccata a tanti loro compagni), e che proprio facendo dono di sé si erano anche « divertiti ». Perché « fede » e «,passione», come ricorda un celebre volume crociano, si associano ad « avventura ». Del resto, credo che nei pochi atti di esplicita opposizione politica d'una vita assorbita dagli studi - per esempio, l'intervento in Senato contro i Patti Lateranensi - mentre si esponeva a maggiori rischi, Croce abbia provato una soddisfazione morale e fi. sica affatto diversa da quella del lavoro speculativo, e insomma si sia anche «divertito». Ma quanti filistei, senza fa statura intellettuale di Croce e autorepressi per motivi infinitamente più mediocri, non hanno pronunciato o pensato quella stessa battuta con odio e livore, come una rabbiosa censura, una definitiva condanna! E, dandosi l'opportunità, non ne hanno approfittato per vendicarsi di chi secondo loro s'era « divertito » troppo! Quale rivincita per i' pavidi e i conformisti poter gettar,e fa macchia dell'illegalità e della criminalità su azioni libere e generose, quale occasione per «riabilitarsi» (ecco una parola che ha svolto una funzione strategica in tutto il processo contro Lotta Continua) e elevare il loro meschino egoismo a virtù! E' vero che Sofri e compagni si sono anche divertiti negli anni in cui militavano in Lotta Continua. Si sono divertiti vivendo in modo scomodissimo e pericoloso alla giornata, spendendosi interamente per la causa, estranei a ogni idea di guadagno, carriera, famiglia, promozione sodale. Si sono divertiti molto più che negli anni successivi, perché erano migliori di quel che sono diventati. Anch'io, mentre riconosco la fragiHtà di certi presupposti teorici e di molte analisi su cui si fondava l'azione politica del movimento, non posso non rimpiangere quello che ero in quegli anni: più disinteressato, più disposto a ,rinunciare a certi privilegi, più pronto ai -rischi,più fraterno, insomma un uomo moralmente migliore di quel che sono oggi. « Divertir,si », beninteso, non è qui sinonimo di svagars,i,distrarsi. E' un modo facile e leggero per dire che eravamo più felici (o meno infelici), perché c'era un maggior accordo tra 1 le nostre idee e i nostri comportamenti. 16 Biblioteca Gino Bianco

Nel corso del processo, Sofri ha dichiarato che la campagna giornalistica di Lotta Continua contro Calabresi era stata « orribile ». L'ha detto sulla base delle nuove idee (riformiste) e sentimenti (umanitari) che professa da oltre un decennio. L'ha espresso con la sbrigatività di chi vuole sgomberare il campo da elemènti e problemi estranei al processo. Ma non siamo tutti d'accordo (anche se tutti, in un modo o nell'altro, siamò cambiati da allora). Quella campagna tocco toni senz'altro eccessivi, ed è vero che personalizzando in Calabresi il nemico c'era il rischio ·di farne un bersaglio (ma si ricordi che in quegli anni niente era più lontano dal movimento dell'idea di omicidio politico. L'unica fo11madi violenza praticata, oltre quella verbale, era collettiva, di massa, soprattutto come autodifesa dagli attacchi dei neo-fascisti ·e della polizia. Bisogna attendere il '76 per registrate il primo omicidio intenzionale « di sinistra », dopo anni e anni di stragi « di destra»). D'altra parte, solo personalizzando l'accusa si poteva ottenere il risultato che Lotta Continua e milioni di italiani volevano: provocare la querela di Calabresi per far luce sul caso Pinelli. In questa battaglia Lotta Continua interpretava non solo i legittimi desideri del movimento e delle classi popolari ma anche della borghesia avanzata. Si può pensare quel che si vuole di quella borghesia, che in parte ha anche meritato l'etichetta « radical chic» spregiosamente affibbiatale da Montanelli, ma è un fatto che tra la fine dei Sessanta e i primi Settanta essa si vergognava della classe politica che fa rapptesentava, della magistratura, della polizia, della sua stampa. Il « Corriere », dove la pagina giudiziaria era gestita spudoratamente da un certo Zicari, uomo della Questura e probabilmente dei Servizi ,segreti, faceva schifo. Quella borghesia aveva· capito subito la manovra di depistaggio delle indagini sulla strage di Piazza Fontana, e considerava la morte di Pinelli uno scandalo. L'ostinata campagna di Lotta Continua, non «orribile» ma altamente meritoria, per stanare Calabresi e la Questura milanese e costringerli al processo, ottenne il risultato voluto. Il processo ci fu, e il caso Pinelli venne riaperto. La querela di Calabresi si rivelò un boomerang: il processo smentl la tesi uffidale del suicidio di Pinelli e confermò le denunce di Lotta Continua che polizia e Questura avevano ripetutamente e gravemente mentito per coprire le proprie responsabilità. Si prospettava chiaramente l'assoluzione di 17 Biblioteca Gino Bianco

Lotta Continua. Giudice eta il dott. Biotti, un vecchio magistrato alieno daHa politica e di idee più che moderate se il Tribunale l'aveva designato a dirigere un processo del genere: che non avrebbe chiesto di meglio che condannare Lotta Continua, ma abbastanza galantuomo da prendere atto, con sorpresa, di fronte alle risultanze processuali, che la cosa era impossibile. Essendo buon amico deH'avv. Lener, patrono di Calabresi, il dott. Biotti pare abbia sentito lo scrupolo di accennargli H suo imbarazzo ( « anticipando » cosl il suo orientamento o convincimento, ciò che non è consentito). Vera o falsa che fosse la circostanza, Lener chiese la ricusazione dell'amico, ciò che avrebbe avuto l'effetto di annullare un processo che aveva preso una brutta piega per il suo assistito. Biotti negò disperatamente cli aver detto quanto Lener gli attribuiva (c'era solo la parola dell'uno contro la parola dell'altro), ma la Corte d'Appello credette a Lener, Biotti fu ricusato e il processo s'interruppe. Tutto da rifare. Nelle more Cailabresi fu ucciso e quel processo non si .fece più. Ricordo questi fatti per i giovani che non li conoscono e per chi se n'è dimenticato. L'episodio è un ennesimo esempio di che cosa sia, di fatto, per il potere il rispetto dell'indipendenza dei giudici, su cui spreca tante chiacchiere. E' un rispetto che vale fin tanto che le decisioni sono a suo favore, come sempre o quasi. Ma quando, rarissimamente, si profili una sconfitta, non attende neppure la decisione, toglie di mezzo il giudice, sposta la sede, avoca, dirotta, sottetra, annulla, insabbia, inquina, ne fa di tutti i colori per impedire la propria sconfitta. E sono proprio costoro, i signori che rappresentano il potere, ad accusarci di non accettare serenamente la sconfitta (che a differenza di loro non abbiamo i mezzi di impedire), a deplorare le nostre polemiche, a scandalizzarsi se alziamo un po' la voce perché secondo loro faremmo opera di intimidazione ... E' mai successo che la nostra parte abbia ottenuto la ricusazione di un giudice? E' mai successo che abbiamo anche solo osato chiederla? C'è un'altra cosa che viene· fuori dall'episodio. In quegli anni poteva anche accadere che un normalissimo magistrato sentisse il dovere di dar ragione a dei giovanotti abbastanza sprovveduti e privi di protezioni che si battevano per la verità e la giustizia. Questi giovanotti avevano ottenuto lo straordinario risultato di aprire delle brecce nello schieramento del potere, la loro voce contribuiva a cor18 Biblioteca Gino Bianco

reggere la cosiddetta opinione. Il prefetto Mazza nel suo famoso Rapporto aveva ottimi motivi di alla1:marsi. Non stava succedendo nessuna ·rivoluzione, ma cose molto più semplici: per esempio, qualche giudice nelle cause di lavoro sentenziava a favore dell'operaio contro il padrone. Cioè si cominciava finalmente a fare un po' di giustizia. Una parte della borghesia, e quindi anche una parte dei giudici, si era spostata a sinistra, a fianco degli studenti e degli operai. C'era un embrione di contropotere, di controinformazione. Il prefetto Mazza aveva ottimi motivi per sconsigliare vivamente la celebrazione del processo di Piazza Fontana a Milano. Non però per motiv•i di ordine pubblico, come diceva. Non perché ci fosse un cHma di violenza e il timore di disordi:ni. Milano era diventata i:naHidabile perché c'era effettivamente il pericolo che quel processo fosse fatto sul serio ... Avendone potestà, prescriverei di aggiungere senz'altro agli esami obbligatori per addottorarsi in giurisprudenza un esame consistente nel mandare a memoria certi capitoli su leggi, processi, magistrati, avvocati e affini, contenuti in celebri opere letterarie (nonché, beninteso, a edificazfone degli studenti di medicina, passi aventi per argomento i medici; e similmente per gli studenti di filosofia, e per ogni tipo di laurea). Penso a Manzoni, a Dickens e tanti altri. Ma anzitutto a Rabelais. La satira della dottrina giuridica e della prassi giudiziaria, sempre in.flessibilmente oltraggiosa, ricorre frequentissima nel suo capolavoro, senza l'eccezione di un solo fugace cenno di rispetto. M'è sembrato doveroso offrirne una modesta scelta ai lettori che non ne fossero a conoscenza nell'ultima patte del presente fascicolo. Il secondo dei due episodi riguarda il caso di un giudice che decideva i processi ai dadi, finendo paradossalmente per rendere sempre sentenze eque. La conclusione di Rabelais è che in questo modo Dio abbia voluto premiare un giudice, che era tanto umile e onesto da dubitare radicalmente della propria saggezza e della propria imparzialità, per non padare della sacrosanta diffidenza verso codici, leggi, procedure e quant'altro, assimilati a strumenti diabo19 Biblioteca Gino Bianco

lici. Ma anche escludendo l'intervento divino, se si considerano « l'iniquità e la corruttela di coloro che amministrano la giustizia » - sono sempre parole di Rabelais - « un processo definito in base alla sorte dei dadi non sarà mai deciso peggio di quanto lo sarebbe passando per le loro mani intrise di sangue e di passioni perverse». Tornando al processo contro Sofri, Bompressi e Pietrostefani, se la loro sorte fosse stata affidata ai dadi, gli imputati avrebbero avuto almeno il 50% di probabilità di essere assolti. Laddove l'assurda procedura che ha impegnato tante persone, per tanto tempo e riempito tante carte poteva essere tota1mente risparmiata, dal momento che la condanna era scritta già nei mandati di cattura. (Né il problema riguarda solo la giustizia. Qualche tempo fa un vecchio amico, che non credo abbia mai letto Rabelais ma che ha una cospicua esperienza di pubblica amministrazione, mi diceva che per qualunque nomina che dipenda dai partiti l'unico criterio giusto, il meno indecente e pericoloso, gli sembrava ormai quello dell'estrazione a sorte. Qualunque persona che senza volerlo fosse chiamata a reggere un ministero, un assessorato, un qualsivoglia ente pubblico, non potrebbe far peggio di quanto si faccia oggi. Difficilmente l'eletto, chiunque fosse, potrebbe essere più incompetente degli appartenenti a quella razza o genìa che da quasi mezzo secolo occupa quei posti, e per diventare altrettanto corrotto gli occorrerebbe un po' di tempo, durante il quale le cose procederebbero con una certa pulizia...) Quando fu abrogata la formula dell'assolu?ione « per insufficienza di prove», il provvedimento fu salutato come una conquista di civiltà. Se l'imputato va considerato innocente finché penda il giudizio e « perde l'innocenza» solo dopo una sentenza di condanna pas·sata in giudicato, a ben maggior ragione deve esser riconosciuto del tutto innocente l'imputato che .venga assolto: mentre l'« insufficienza di prove » lo bollava come « sospetto ». L'abolizione di quella formula equivoca e infamante ribadiva inoltre il sacrosanto principio per cui in mancanza di prove, di prove sufficienti, di obiettiva certezza, si deve assolvere. E senza riserve (come invece quella for20 Biblioteca Gino Bianco

mula consentiva). Sbagliavamo. Conseguenza dell'aver tolto di mezzo la formula, è che ora si può condannare anche in caso di insufficienza di prove. Quella che sembrava una garanzia si rivela una prepotenza. A questo punto ripristiniamo subito la vecchia formula, incivile e lesiva fin che si vuole, ma che almeno, in mancanza di prove, assicurava l'assoluzione. Lo stesso discorso temo valga anche per la libertà provvisoria. Che oggi, anche per reati gravissimi come l'omicidio, l'imputato possa restare a piede libero fino a che la condanna non sia diventata definitiva, rappresenta un progresso rispetto alla prassi precedente della carcerazione preventiva. Ma a mano a mano che la telenovela si avviava all'epilogo, e nei giorni di attesa della sentenza, mi sono chiesto più volte se non sarebbe quasi stato meglio, nell'interesse della gius-tiziae degli imputati, che Sofri e compagni si fossero presentati al processo in stato di detenzione, o che almeno la condanna producesse l'effetto deHa loro automatica carcerazione. In queste condizioni e con queste conseguenze, avrebbe la giuria pronunciato quelle condanne? Perché, non dobbiamo illuderci, il cosiddetto uomo della strada, categoria in cui rientriamo tutti, compresi i giurati e i magistrati di carr-iera, ragiona pres,sappoco ,in questi termini: sono stati condannati, ma non si trovano forse in libertà? Sofri sta a casa sua, in famiglia, viaggia, fa quel che gli pare, protesta, tiene conferenze, scrive libri: di che si lamenta? Ventidue anni sono tanti, ma per ora sono soltanto sulla carta: ci sarà l'Appello, la Cassazione, cose che vanno per le lunghe, intanto sono liberi ... Se il diritto alla libertà fino alla condanna definitiva ha come conseguenza pratica la « facilità » della condanna, ecco un altro bell',istituto di civiltà che si traduce in barbarie. Torno a chiedermi se non era più serio che giudici e giurati si trovassero di fronte alla responsabilità di decidere per la libertà o per la carcera2Jionedegli imputati con effetto immediato. Questi nuovi strumenti cosi moderni, questi giocattoli cosi progrediti sembrano fatti apposta per lo sport preferito dagli italiani: il rinvio, lo scaricabarile. Cerco di mettermi nei panni (nella testa e nelle trippe) di un giurato o di un giudice: anche se soggettivamente ho molti dubbi, anche se oggettivamente non ci sono prove di responsabilità degli imputati, con questa sentenza facciamo contento il dottor Pomarici e 21 Biblioteca Gino Bianco

l'intera Procura (assolvendo, ci scapiterebbe la loro reputazione, la loro immagine), i Carabinieri (id.), la famiglia Calabresi (una vedova e due orfanri che aspettano giustizia da diciotto anni!); premiamo un povero diavolo, che forse non dice la verità ma che comunque s'è pentito del suo turbolento, delittuoso passato e ora esibisce buoni sentimenti e sembra tornato il bravo ragazzo di paese timorato di Dio e dell'Autorità che era prima di incontrare quegli intellettuali esaltati e senza scrupoli che l'hanno illuso e traviato (naturalmente, mai lo assumerei nella mia fabbrica, nel mio negozio, mai e poi mai gli affitterei un mio appartamento, mai gli presterei una lira, mai lo riceverei in casa mia, non mi fiderei di lui neanche per farmi portare la valigia, ma se si tratta di incastrare Sofri e compagni è un teste credibile, attendibile, la sua parola è sacra); accogliamo l'alto messaggio del presidente Cossiga che proprio in questi giorni, in occasione del Primo Maggio, rievocando non a caso i misfatti dei « cattivi maestri», ha voluto ammonirci, mentre ci accingevamo a emettere la sentenza, al dovere di colpire severamente; tranquHlizziamo la buona stampa e tutta la gente perbene; gratifichiamo il Pci e Scalfati ... Di fronte a tanti benefici, a un cosl vasto consenso, a una soddisfazione cosl generale che la nostra sentenza produce, il fatto che tre ex ragazzacci siano condannati senza alcuna prova diventa irrilevante. Intanto perché, quand'anche fossero innocenti di questo reato (ma, a parole, l'hanno in un certo senso auspicato, provocato e infine approvato), hanno fatto un sacco di guai, sono moralmente e politicamente responsabili del terrorismo (quanti morti!), hanno sprecato la loro intelligenza correndo dietro a utopie irragionevoli, contro natura e sanguinarie, e corrotto migliaia e migliaia di giovani ... D'altronde, mica li mettiamo in galera, è una condanna puramente nominale ... Se poi avremo sbagliato, ci penserà la Corte d'Appello a rimediare (non c'è proprio per questo., la Corte d'Appello?). Intanto gli imputati sono liberi, liberi anche di protestare e perfino di insultarci ... Di che si lamentano? Sembra che a prendere suilserio il processo sia stato il solo Sofri. Non poteva che andargli ma·Ie.A nessuno piace che gli si ricordino i suoi doveri, neanche se ha l'abitudine di osservarli. Figuriamoci quando ha tutte le intenzioni di fare molti st,rappi alle regole ... Mai pretendere serietà e rigore da chi non è disposto: finisce che questi 22 Biblioteca Gino Bianco

si scocciano e ti castigano. L'atteggiamento collaborativo di Sofri, la sua disponibilità totale, la sua presenza costante, la sua insospettata intelligenza giuridica (lui che non ha fatto studi di legge), hanno dato enormemente fast•idio.Pomarici non ha saputo trattenersi dal definirlo « antipatico ». Chi non accetta il ruolo assegnatogli non può che essere antipatico. La scelta di Sofri di rinunciare al 11icorsoin Appello non è certo la più conveniente per lui, ma si capisce bene che non abbia più voglia di impegnarsi seriamente in qualcosa che per gli altri è solo un gioco. Una delle obiezioni che ho dovuto sentire più spesso suona pressappoco cosl: Ma perché ti indigni e ti scaldi tanto? Sofoi e compagni non sono i primi né saranno gli ultimi cittadini italiani condannati senza alcuna prova, sulla base di semplici ipotesi o suggestioni. A Sofri e compagni non è andata peggio che a tanti altri. Semmai meglio, perché hanno aV'l.ltofior d'avvocati e l'attenzione della stampa. Mentre la maggior parte delle altre vittime di sentenze arbitrarie scontano prima di tutto la colpa della loro marginalità sociale, quasi mai godono di una assistenza lega:le efficace, e infine la loro tragedia sri consuma nell'indifferenza generale. Ne sono convinto. E quando all',inizio ho detto che considero la giustizia una sventura, né più né meno deHamalattia e della miseria, proprio questo intendevo. Siamo vili e preferiamo non ,affliggerci con le afflizioni altrui. Ma è curioso che, per una volta che apriamo bocca (beninteso, perché 1a sventura è toccata a noi, ai nostri amici, perché la condanna colpisce i nostri valori, la nostra storia), ci si obietti che non ci è lecito protestare, dal momento che in tanti altri casi abbiamo taciuto. Per non tacere, per protestare in tutte le occasioni che lo richiederebbero, bisognerebbe non occuparsi d'altro, dedicare fa vita alla piaga della giustizia, come altri si votano alla lotta contro la droga, l'alcolismo, fa caccia ... Lo scandalo è che tacciano invece coloro per i quali la giustizia è l'occupazione prima.ria, il loro mestiere, il settore di specifica competenza e ciò di cui campano. Sono vile, dicevo ... Però vile mi sembra eccessivo: vile, vigliacco è chi se la prende coi deboli, chi abusa della sua forza, eh.i 23 Biblioteca Gino Bianco

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