donne chiesa mondo - n. 63 - dicembre 2017

DONNE CHIESA MONDO 24 DONNE CHIESA MONDO 25 co poliziotto della scena, si staglia come una fiamma una donna: pel- le nera, testa rasata, giacca di pelle, da cui pare fiorire una camicia rossa che la avvolge dai polsi al collo come una sciarpa. È anche questa la foto di uno scontro. I tre hanno i modi e gli abiti dei suprematisti bianchi, e la donna sembra volerli fermare con la sua semplice presenza, semplicemente sbarrando loro il passaggio. Esattamente come fa la madre araba. E questo è il legame fra due situazioni così diverse e così lontane: due donne affrontano il loro nemico, difendono la propria vita e la propria libertà semplicemente schierando il proprio corpo. E i loro corpi raccontano quello che sentono in questo momento. La madre usa se stessa per fare da schermo ai bambini. Spinge per distrarre l’uomo con il mitra, per intercettarne forse lo sguardo; il bu- sto è orgoglioso, combattivo, ma dalla vita in giù tutti i sui muscoli sembrano arretrare. La sua intera figura si tira indietro, si piega, si fa convessa, dominata, a dispetto del coraggio, dalla paura. La giovane donna di colore è invece tutta in avanti, il busto teso in fuori, le spalle larghe, il pugno verso l’alto che trascina nella ten- sione il volto fino al mento alto. Una specie di lancia umana. Grida. Non sentiamo questi suoni, ma possiamo immaginarli dalla bocca aperta, dalla posizione del volto. La sua furia impatta, tuttavia, su una scena ferma: la curiosità distaccata dei passanti, lo sguardo passi- vo del poliziotto e l’espressione svuotata dei tre uomini. Nessuno dei tre la guarda negli occhi. È imbarazzo, incredulità, fastidio, quello che traspare da tutti que- sti volti maschili? Non lo sapremo da questa immagine. Come non sapremo cosa farà infine il soldato, di fronte alla madre. Ma, forse, a questo punto, non ci interessa nemmeno saperlo. ha puntato alla altezza del loro volto la bocca della canna del suo mitra. Il gruppo galleggia in una terra senza identità, quel vuoto dei luo- ghi di guerra, un alto muro grigio scrostato, un prato di terra brucia- ta, l’acciaio delle staccionate dei posti di blocco. È probabilmente la Palestina ma potrebbe essere ovunque nel mondo dove un conflitto è in corso — uomini armati, giganteschi nelle loro armature, di fronte a una esile umanità di deboli membra di bambini, e donne senza altro nelle mani che le mani dei suoi figli a occhi sgranati. La foto coglie un unico momento, quello in cui l’aggressione è ini- ziata ma non è ancora precipitata, nulla è stato ancora deciso dal fa- to. Cosa succederà ora fra tutti loro? La donna pregherà, urlerà, chie- derà pietà? I bambini urleranno, come pare inizi a fare il maschietto, stretto alla sorella, o perderanno la voce travolti dal terrore, come pa- re stia succedendo alla bambina? E il soldato di cui non vediamo il volto, sentirà queste voci, alzerà gli occhi per incontrare quelli della madre, cercherà di dire una parola per calmare le paure o griderà più di loro? O addirittura sparerà? Stiamo guardando, davvero, gli ultimi secondi di tre vite indifese, innocenti? Non si riesce a questo punto che a distogliere gli occhi e abbassare la foto. Vi torneremo. L’altra immagine ci porta invece al centro di una moderna situa- zione urbana. Spazio pienissimo, al posto del vuoto di quel posto di blocco dell’altra foto. Siamo in mezzo a una strada, di un’area certa- mente non benestante, dal marciapiede occhieggiano una pizzeria, un caffè, un portoncino senza pretese, e curiosi vestiti con quei panni della uniformità cittadina, felpe, jeans, grembiuli di lavoro. In mezzo alla strada tre uomini, bianchi di camicia e di pelle, tre copie l’uno dell’altro, con gli stessi occhiali e la stessa rasatura alta dei capelli. In questo ambiente quasi in bianco e nero, fuso nel grigio di quella che è di sicuro una città inglese, come si riconosce dalla giubba dell’uni-

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