donne chiesa mondo - n. 42 - gennaio 2016

donne chiesa mondo women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne Nell’amicizia tra donna e uomo Meccaniche divine di M ARCO V ANNINI U na diffusa opinione vuole che l’amicizia tra uomo e don- na non sia possibile se non intercorre (o non sia intercor- sa) tra loro anche una relazione sessuale. Un’amicizia so- lo spirituale sarebbe dunque qualcosa di artificioso, di inganne- vole prima di tutto nei confronti di se stessi. Questa opinione presuppone che la pienezza dell’amore tra uomo e donna si ma- nifesti nel rapporto sessuale, verso il quale tenderebbe inesorabil- mente l’amore stesso come a suo compimento, e, in questo senso l’amicizia sarebbe solo una fase inferiore, più povera e modesta. La diffusione di questa opinione dipende dal predominio di quella che Platone nel Convito chiama la Venere Pandemia, cioè volgare, nel duplice senso della parola in italiano: ampiamente diffusa tra il popolo e anche lontana dall’eleganza di ciò che è nobile. Ma la Venere Pandemia esiste, non dobbiamo negarlo, in quanto è vero che una corrente erotica passa necessariamente nei rapporti tra uomo e donna. Questo demone, mediatore tra l’uo- mo e Dio, incessantemente richiama verso la bellezza e spinge a ricercare l’unione con essa, e la prima forma con cui ciò si mani- festa è, appunto, il desiderio sessuale. Perciò in tutti è diffusa la Venere Pandemia, che, si badi bene, è una dea e come tale va onorata. Ovvero, fuori dal mito, dobbiamo riconoscere che al fondo della natura umana esiste, insopprimibile, Eros, l’amore, che è innanzitutto desiderio di unione con un corpo. Questo onesto riconoscimento è il punto di partenza per comprendere quel mistero dell’amore che Diotima, sacerdotessa di Mantinea, rivela a Socrate. Perché il desiderio sessuale è solo la prima e più comune manifestazione della potenza del demone, che muta for- ma e diventa più ricco e più gioioso col crescere. Sottolineiamo questo punto. Come notava Simone Weil, solo un’epoca misera- bile come la nostra può prendere sul serio Freud, l’anti-Platone per eccellenza, e la sua concezione per cui l’eros sessuale è pri- mario, rispetto al quale sono diminuzioni le altre forme di amore. In realtà, quando l’amore è forte, esso si muove di grado in grado verso il più, e lascia il meno, come dice la mistica medie- vale Margherita Porete, ripetendo, senza affatto saperlo, l’inse- gnamento impartito a Socrate da Diotima, a testimonianza che davvero le donne hanno “intelletto d’amore”. Così anche Agosti- no, nelle sue Confessioni , ricordando la giovinezza, ora che è grande e che sa cosa davvero sia l’Amore, che è Dio, riconosce che stava allora cercando l’amore: non sapeva cosa fosse, non sa- peva amare, ma era l’amore che stava amando. Amare amabam perché è l’amore che si ama davvero: l’amore è il soggetto che ama, l’oggetto amato e, insieme, l’atto stesso di amare. La creatu- ra, con la finitezza, è ciò che risveglia in noi quella “divina follia” con la quale giungono all’uomo tutti i doni più belli da parte di Dio: allora la Venere Pandemia cede il posto alla Venere Urania, che conduce l’uomo verso il cielo. L’amicizia non è una forma imperfetta di eros, ma, al contrario, il suo grado più alto. Meister Eckhart scrive che l’amore per una creatura è in realtà amore di se stessi e da questo amore non si ricava che amarezza, giacché tutte le creature sono un nulla, dal momento che ricevo- no tutto il loro essere da Dio, e il contatto con il nulla non fa al- tro che male. L’amore per una creatura è un miracolo, di cui non c’è niente di più bello ma neanche di più straziante, perché met- te davanti la finitezza, la molteplicità, e così la lontananza dall’Uno, in cui, solo, è la pace. In questo senso, scrive sempre Eckhart, dove entra la creatura, esce Dio. L’amore che ha un perché non è puro, in quanto dove c’è il perché c’è l’utile, co- munque configurato. L’amore puro è senza perché. Infatti l’ani- ma ha due occhi: uno guarda la creatura, e la ama con un amore carico di tenerezza e compassione proprio per la sua finitezza; l’altro guarda l’eterno, l’Uno, e nell’Uno ama tutte le creature di un amore che non è più per i corpi, ma per le anime che cerca di rendere migliori, così come viene reso migliore da questo amore. Questo vale indipendentemente dal sesso. L’amicizia non è qualcosa che si deve cercare, chiedere o sperare: è una virtù, e come tale la si esercita e basta, come scrive Simone Weil. L’ami- cizia non è uno stato d’animo che va e viene, non è un sentimen- to, ma riguarda quello che i mistici chiamano il fondo dell’ani- ma, ben più profondo dei mutevoli sentimenti, inaccessibile a tutto, fuori che a Dio nella sua nuda essenza. Riguarda non l’anima, ma lo spirito, è lì non v’è più maschio o femmina, come scrive Paolo, dove non ha più peso il sesso. D’altra parte però non v’è dubbio che l’essere umano sia ses- suato, e sesso significa divisione ( sexus da secare ): siamo maschi e femmine e per natura cerchiamo quella metà che ci manca, senza la quale si resta non psicologicamente pacificati, carichi di in- comprensione e risentimento. Perciò è in un’amica che un uomo trova il perfetto completamento, così come una donna lo trova in un amico: certo, una corrente di Eros c’è, e deve esserci, perché lo spirito non può essere perfetto se prima il corpo e l’anima non sono perfetti, insegna ancora Eckhart, riferendosi a ciò che poi i tedeschi (come Goethe e Nietzsche) hanno chiamato Vergeistig- ung , spiritualizzazione, o Sublimation , ma in un senso opposto a quello in cui lo usa Freud (che lo ha rubato a Nietzsche): non mistificazione dell’istinto sessuale, ma suo inveramento. Proprio nell’amicizia, dunque, ricca dell’eros tra uomo e don- na, più che mai si manifesta la grazia di quel «sentimento popo- lare che nasce da meccaniche divine», come dice una canzone dei nostri giorni, l’Amore «che muove il sole e l’altre stelle». Ne possiamo addurre testimonianze infinite: dall’antichità a oggi, la storia ne è piena. Da quelle celebri come Chiara e Francesco, Te- resa d’Avila e Giovanni della Croce, Giovanna di Chantal e Francesco di Sales, a quelle di intellettuali come Madame Guyon e François de Fénelon, Adrienne von Speyr e Hans Urs von Bal- thasar o Raïssa e Jacques Maritain, che furono anche moglie e marito. Non si tratta dunque di qualcosa che vale solo per reli- giosi e religiose, santi e intellettuali. Valga l’esempio di due no- stri contemporanei: il domenicano Antonio Lupi e la giovane Tilde Manzotti, in cui epistolario ( Amare infinitamente. Epistolario 1938-1939 , a cura di Elena Cammarata, San Leolino, Editore Féeria, 2014, pagine 90, euro 12) che mostra, ancora una volta, la bellezza e la profondità dell’amicizia tra uomo e donna. Il modo di Paola La santa del mese raccontata da Carla Mosca Giornalista della Rai molto nota, Carla Mosca si è occupata a lungo di cronaca giudiziaria. Con Mario Moretti e Rossana Rossanda ha scritto Brigate rosse. Una storia italiana (Mondadori, 2007). Paola romana (dipinto fiorentino del Trecento) A chi ne conosce la vita e le opere piace pensare con qualche fondata ragione che la Vulgata si debba anche a lei S orte curiosa quella di Pao- la, santa di certo celebrata per le molte virtù, sempre però con l’aria di collocar- la un passo indietro ri- spetto a qualcuno. Due uomini, in specie. Nel calendario dei santi, in- fatti, il 26 gennaio, capita di incon- trarla incorniciata come vedova. Condizione che in genere, a meno di uxoricidio, più passiva non po- trebbe apparire: quasi che, prematu- ramente defungendo, fosse stato proprio l’amato marito a conferirle rilievo. Qualità di cui Paola, peral- tro, era di suo largamente provvista. Nata a Roma nel 347, appartene- va a una famiglia cristiana di smisu- rata ricchezza e altissimo lignaggio. Le era stata impartita un’educazione assai raffinata. Quindicenne aveva sposato Tossozio, ricco, colto, anche lui nato in una famiglia di quelle che contano. Pagano, ma molto tol- lerante nei confronti della religione cristiana, sicché Paola poté praticare la sua fede con tutta la passione senza che l’armonia coniugale ne venisse turbata. Quattro figlie (Pao- lina, Eustochio, Blesilla e Ruffina), e da ultimo un maschio che ebbe lo stesso nome del padre. Un’istintiva capacità di armoniz- zare gli opposti la distingueva dalle altre matrone romane del suo rango. Viveva infatti la sua condizione so- ciale senza rinunciare ad alcuno dei simboli che essa comportava, e anzi esplicitamente li apprezzava. Tutta- via, pur nell’uso frivolo dell’immen- sa ricchezza, nulla mai le impedì di prestare un’attenzione caritatevole, fattiva e costante agli ultimi. Né mai le piacque misurare potere e presti- gio bistrattando ancelle e famigli, odiosa abitudine assai diffusa fra le matrone romane che, per questo, erano state oggetto di pesanti ironie da parte di Giovenale. Donna complessa, insomma, che però non si limitava a proteggere gli umili mentre di buon grado rispon- deva agli allettamenti del mondo. Nel profondo di Paola sempre più si andava agitando la tentazione di guardare a un oltre, un desiderio di mortificazione e ascetismo, l’aspira- zione a una vita di rinunce. Pulsioni indistinte, ma non troppo, che la in- ducevano ad alzare continuamente lo sguardo verso l’Aventino, dove nel suo splendido palazzo l’aristo- cratica Marcella (anche lei futura trattenerlo a Roma, affidandogli de- licate traduzioni di testi biblici e l’incarico di rispondere in sua vece a molti dei quesiti sapienziali che gli venivano sottoposti. Le fortune di Girolamo, e il prestigio delle re- sponsabilità affidategli, suscitarono moltissime invidie. E proprio in quel periodo Marcella lo convinse a diventare direttore spirituale del ce- nobio: elargendo la sua sapienza, avrebbe rafforzato le fondamenta dell’istruzione religiosa delle pie donne. Allieva perfetta, Paola ap- prese rapidamente l’ebraico e più di altre riusciva ad arricchire spirito e mente destreggiandosi fra le disser- tazioni bibliche del filologo. Con lei all’Aventino era già Eustochio, che l’avrebbe seguita in tutte le peregri- nazioni, e presto le raggiunse Blesil- la, vedova dopo appena pochi mesi di matrimonio, che a tal punto volle emulare la madre nella passione e nella pratica dell’ascesi che ben pre- sto, consunta, finì per morirne. Intanto a Roma la fama di Giro- lamo andava appannandosi e così le sue fortune. Del resto, per tutta la vita egli fu oggetto di polemiche dottrinali, e di suo ne ingaggiava di ogni sorta sui temi a lui cari, con insistenza e talvolta con furia. Alla morte del papa, capì che senza la sua protezione vivere a Roma gli sa- rebbe stato davvero difficile e decise di tornare in Oriente. Paola sembra- va non aspettare altro: se lo poteva permettere e quindi partì. Ancora una volta arbitra di se stessa, deter- minata come sempre. Partì con la fedele Eustochio, naturalmente. Netta e immediata la decisione di stabilirsi a Betlemme, dove avrebbe vissuto per un ventennio, per poi morirvi a 59 anni. Né volle assecon- dare Girolamo quando — logorato dalle dispute dottrinali, dalle calun- santa) aveva creato un cenacolo di vedove e di vergini di alto lignag- gio. Per Paola fu dunque naturale rifugiarsi da Marcella quando, a 33 anni, le fu inflitta la perdita dell’amato Tossozio. Del suo lace- rante dolore apprendiamo da Giro- lamo, da considerarsi il suo vero biografo, avendo pronunciato in morte di lei, nel 406, un’orazione funebre fra le più appassionate e particolareggiate che sia dato di leg- gere. A tal punto soffriva per la morte di lei che poté comporre l’elogio solo mesi più tardi, facendo- si forza soprattutto per consolare Eustochio, unica figlia sopravvissuta alla madre. «Quando il marito le venne a mancare lo pianse fino qua- si a morirne lei stessa» scrive Giro- lamo, per poi aggiungere la singola- re osservazione che «il modo con cui dopo si diede a servire il Signo- re dava l’impressione di aver deside- rato la sua morte». Già, il modo. Il modo di Paola. L’unico che conosceva, l’unico che volle conoscere, era l’eccesso: quel misto di follia, passione ed elargi- zione di sé nella cui assenza, o cal- colata misura, non può raggiungersi santità alcuna. Narra ancora Girola- mo che Paola distribuì ai poveri enormi quantità delle sue ricchezze e che di questo i parenti le facevano colpa: in tal modo defraudava i fi- gli. Ma lei non sentiva ragioni e ri- spondeva che lasciava loro un’eredi- tà ben più importante: la misericor- dia di Cristo. Paola aveva conosciuto Girolamo proprio nel cenacolo di Marcella dove, preceduto dalla fama di gran- de biblista, il monaco era giunto da Costantinopoli nel 382, in occasione del sinodo convocato da Damaso. Al termine del sinodo il papa volle Francesco di Sales e Giovanna di Chantal nie sul suo lavoro di traduttore delle Scritture e dalla minaccia di rimane- re senza casa — decise di lasciare Betlemme. Pur devota, Paola fu ir- removibile nell’impedirglielo. Donna complessa, si è detto. E infatti, pur perennemente proiettata in un mondo altro, era dotata anche di concretezza e senso pratico. Im- mediatamente fece partire la costru- zione di due monasteri, ciascuno con relativa chiesa, uno femminile e uno maschile. Qui poté stabilirsi Girolamo con il suo stuolo di colla- boratori. Qui, sostenuto economica- mente da Paola, poté dedicarsi in modo sistematico e continuativo agli studi biblici, cosa impossibile se si fosse rimesso in viaggio come aveva minacciato. Qui, sotto la pro- tezione di Paola — perché di questo si trattò — tradusse la Scrittura in lingua latina, sulla base dei testi ori- ginali in greco ed ebraico. Così è stato possibile che la Bibbia giun- gesse fino a noi in una versione splendida. A chi conosce la vita e le opere di Paola piace pensare, con qualche fondata ragione, che la Vulgata si debba in parte anche a lei. Lei che un ruolo di primo piano ebbe nella vita di lui: per la protezione che ac- cordò al suo protettore; per la fer- mezza con cui diresse il suo diretto- re spirituale (mantenendovelo ben saldo) verso il grande compito a cui era stato chiamato.

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