donne chiesa mondo - n. 40 - novembre 2015
L’OSSERVATORE ROMANO novembre 2015 numero 40 Sua madre confrontava tutte queste cose nel suo cuore donne chiesa mondo Il lungo cammino delle donne africane In Africa la bipolarità maschio-femmina si vive in un rapporto di tensione dialettica tuttora irrisolta: nella concezione africana, a parte qualche eccezione incoraggiante, la donna sembra, per alcuni versi, contare poco. Metaforicamente viene vista come “una goccia d’acqua della pioggia” che non sa dove va a cadere. Per le africane le tre parole che Benedetto XVI aveva usato per pensare al futuro del continente nell’esortazione apostolica Africae munus — cioè giustizia, riconciliazione e pace — non sono ancora una realtà. Troppe sono le tradizioni familiari che non ammettono la parità fra donne e uomini, troppe le situazioni conflittuali nelle quali le donne sono le vittime predestinate della violenza. Soprattutto là dove lo stupro viene usato come vera e propria arma di guerra. Ma proprio in un panorama così desolante emerge la forza delle donne africane, capaci — anche con poche forze e pochissimi mezzi — di combattere per difendere i deboli. Questo perché la donna africana rappresenta un modello di coraggio, intelligenza, sopportazione e responsabilità: benché socialmente relegate al terzo posto, dopo gli uomini e i bambini, le donne africane sono sempre le prime al lavoro e le ultime al riposo. Esse traggono dalla fede la forza per affrontare tragedie spaventose, per farsi mediatrici di pace, per opporsi all’ingiustizia e allo sfruttamento, per assumere ruoli importanti nella Chiesa. Ma sono anche capaci di parlare con ironia e saggezza africane, perché fortemente radicate in una cultura che, volente o nolente, deve riconoscere la loro forza, indispensabile alla sopravvivenza e al progresso delle società del continente. Le donne africane possono andare avanti prendendo il meglio delle due culture nelle quali vivono: quella tradizionale che, se pure per vari versi le mortifica, riconosce loro valore sociale e religioso, e quella cristiana, che difende la loro parità e il loro diritto a essere riconosciute con dignità. Occorre, quindi, rimuovere dalla mentalità delle ragazze il complesso di inferiorità che le blocca psicologicamente, e nel contempo istruirle e abituarle a contare più sul loro cervello perché il Vangelo di libertà e la conformità con Cristo annullano ogni discriminazione tra gli esseri umani (cfr. Galati 3, 28). Ciò che gli uomini hanno codificato nel passato oggi potrebbe cambiare, perché i tempi lo esigono, e aprire così la possibilità per una testimonianza forte nel mondo. Dopo queste considerazioni, possiamo suggerire e auspicare che la donna africana assuma pienamente la sua condizione naturale senza cercare di atteggiarsi da uomo, e anche l’uomo, nel contempo, deve fare la stessa cosa: proprio perché essere maschio o femmina sta nell’essenza stessa dell’essere umano, abbandonare la propria natura di donna è alla morte, alla morte dell’umano. Bisogna inoltre promuovere in Africa quella cultura del rispetto e della reciprocità che si dà unicamente laddove due esseri esistono pienamente, cioè dove si dà l’alterità. Ci si deve impegnare quindi per difendere e promuovere i diritti e la dignità della donna africana. ( rita mboshu kongo ) La sentinella di Bukavu Clotilde Bikafuluka e la sua fondazione che accoglie e cura le donne stuprate Subito dopo la professione temporanea mi sono ammalata Per questo non mi è stato permesso di prendere i voti perpetui donne chiesa mondo Clotilde Bikafuluka (nelle due fotografie sopra) insieme alle donne e ai bambini che accoglie di S ANDRA I SETTA Al tempo in cui Gesù operava il miracolo sull’emorroissa, la condizione femminile non era molto differente da quella attuale nella Repubblica Democratica del Congo, dove a una religiosa affetta da gravi emor- ragie non è consentito prendere i voti per- petui: «Una donna malata è considerata un fardello inutile, una croce. Per accedere al monastero la vocazione passa in secon- do piano, contano solo la salute e la forza fisica, la forza lavoro che una monaca de- ve avere per allevare il bestiame e per le altre mansioni di fatica». Chi racconta è Clotilde Bikafuluka, laica consacrata, nata nel piccolo villaggio di Bunyakiri, un an- golo del sud est del Congo, dove ha tro- vato il grande universo di Dio. Di lei mi aveva parlato Denis Mukwe- ge, noto come il medico che “ripara” le donne vittime di stupro collettivo, una delle orribili piaghe che dal 1996 affligge il Paese africano. Mukwege allora mi disse che grazie all’aiuto di donne come Clotil- de ha potuto condurre la sua lotta contro le violences sexuelles et basées sur le genre fi- no a creare la Cité de la Joie de la Fonda- tion Panzi a Bukavu, l’ospedale in cui ha operato quarantamila donne devastate dal- le violenze per poi accoglierle nell’annesso centro di assistenza e di riabilitazione. Queste donne, molte delle quali sono reli- giose, mettono a repentaglio la loro vita, prelevando le vittime di nascosto e rice- vendo minacce per l’aiuto che danno. Sfi- dando il rischio di esporsi pubblicamente, Clotilde ha accettato di partecipare al se- minario internazionale organizzato da «donne chiesa mondo», svoltosi in Vatica- no a fine maggio 2015. Clotilde era inti- morita di aller au Vatican , lei da sempre vissuta nei villaggi congolesi ma il suo de- siderio di rencontrer le Pape era fortissimo, emorragia uterina. Intanto, nell’ottobre del 1996 era iniziata la guerra — detta «di liberazione», in realtà di invasione del Congo da parte del Rwanda — e in questo periodo è avvenuto l’incontro con padre Simone Vavassori, missionario saveriano che ha segnato profondamente la mia vita. Si è fatto carico della mia salute ed è stato lui a farmi conoscere Denis Mukwege all’ospedale locale dove mi aveva condotta per farmi curare. Tutti i giorni padre Si- mone mi dava un dollaro per comprare le medicine prescritte da Mukwege. Sono stata ammalata per sei anni e per questo motivo le suore non mi hanno permesso di prendere i voti perpetui. Secondo loro, la mia invalidità non mi rendeva degna di diventare monaca perché non potevo svol- gere lavori di fatica. La legge della soprav- vivenza in Africa è molto crudele, talora si accanisce ingiustamente, anche contro una vocazione di fede come è successo a me. Dio ha posto sul mio cammino padre Si- mone, grazie a lui sono guarita e la mia vocazione si è infine realizzata. Che ruolo ha avuto padre Simone nella tua scelta di consacrare la vita alle vittime di stupro? È la fede a farmi dire che è stato padre Simone a guarirmi. Non posso non vedere i segni evangelici che si sono mostrati nel corso della mia malattia e poi della mia guarigione. Padre Simone aveva fatto ve- nire dall’Italia tre medici, tre francescani, padre Emilio e altri due per operare le donne. Mi hanno operata il giorno in cui padre Simone è morto: il giorno dopo ero guarita. Cinquanta giorni dopo la sua morte, padre Simone in sogno mi ha do- mandato di continuare il suo lavoro a Bu- nyakiri in aiuto delle vittime di stupro e mi ha dettato tutto quello che lui aveva fatto, di buono e di cattivo, chiedendomi di portare lo scritto alla casa provinciale di Bunyakiri. Ho scritto dalle due alle cin- que del mattino: quella notte padre Simo- ne mi ha eletta sua erede spirituale. D’al- tronde mi trovavo insieme a lui quando ho vissuto quella tragica esperienza che ha determinato il mio arruolamento per la causa delle donne vittime di violenze. Un venerdì in cui padre Simone e io, come di consueto, andavamo a Bunyakiri per pre- parare la messa della domenica percorren- do il parco nazionale di Kahuzi-bwega ci trovammo davanti una scena terribile: cor- pi senza vita che giacevano per terra, teste decapitate appese agli alberi, donne con gli organi intimi mutilati. Poi, arrivati alla parrocchia di Bunyakiri, un’anziana ottan- tacinquenne ci venne incontro avvolta da una nuvola di mosche. Provai repulsione e avrei voluto scappare, ma la donna mi dis- se: «Figlia mia, vieni a vedere che cosa mi hanno fatto». Mi feci forza, la feci spo- gliare e vidi l’orrore. Era massacrata, le mosche addensate su masse di sangue pu- rulento che continuava a fuoriuscire. Un numero indefinito di carnefici si era acca- nito su quel corpo, morì dopo due giorni. Quel giorno si è aperta una ferita profon- da, non solo in me ma in tutte le donne, insieme dobbiamo urlare rabbia e dolore. Le persone che vedono ciò che continuo a fare senza posa mi chiedono se anch’io so- no stata violentata; la mia risposta è diret- ta e semplice: il dolore fisico è meno cru- dele di quello morale. Ciò che ho visto e che continuo a vivere accanto a queste donne per me è più di una violenza ses- suale. Chi di noi resisterebbe a un’espe- rienza del genere? La pratica delle violen- ze sessuali va oltre la nostra comprensio- ne, poiché da alcuni viene utilizzata come arma da guerra, da altri come un commer- cio. Quello che ho visto è lo stupro che anch’io ho subito: quarantaquattro bambi- ne alle quali è stato strappato l’utero, cor- de con cui sono state strozzate le donne vendute come cimeli. E poi hai fondato la Fsv, Fondation Simone Vavassori... Per onorare la memoria di padre Simo- ne ho deciso di consacrare la mia vita al servizio dei sopravvissuti alle violenze ses- suali e delle persone indifese. Ora sono una consacrata della Fraternità di suore di santa Dorotea di Cemmo. L’arcivescovo Munzihrwa, assassinato nel 1996 dalle truppe dell’Alliance des Forces démocrati- conseguenza più devastante dello stupro di massa è la demolizione della famiglia, perché la donna stuprata è vissuta dai fa- miliari come un oltraggio e respinta. Tut- tavia siamo riusciti a riconciliare quasi set- tecento nuclei familiari. Altre donne ripu- diate dai mariti, circa centocinquanta, so- no ospitate nelle strutture della fondazio- ne e centoventicinque ragazze madri sono state educate tramite l’alfabetizzazione e la formazione ad attività che producono reddito. Della nostra “famiglia” fanno par- te anche gli orfani di guerra, più di quat- trocento, di cui quasi la metà sono figli di donne stuprate, il più piccolo ha sei mesi. Questi orfani sono affidati alle cure di an- ziani perché avvertano il calore umano, al- tri sono seguiti dal centro Sos, altri ancora nelle case di accoglienza a Bukavu e Go- ma. Li assistiamo e cerchiamo di dare loro una formazione scolastica. Sviluppiamo anche una rete di assistenza multisettoriale (assistenza olistica) per le vittime: medica, psicosociale, giuridica, socioeconomica e/o scolastica. Il reinserimento socioeconomi- co è il bisogno più grande. Alcune donne, rifiutate dai mariti, non fanno altro che gi- rovagare in mancanza di un’occupazione, altre cadono nella prostituzione, altre an- cora praticano le unioni libere per soppe- rire ai bisogni primari. E così si assiste a casi di gravidanze indesiderate, aborti e diffusione di infezioni sessualmente tra- smissibili e Hiv. Siamo partiti dal nulla. La Fao, ad esempio, ci ha donato semi e macchine macinatrici del manioc per rica- vare la farina. Abbiamo ricevuto vecchie macchine Singer e insegniamo alle donne a cucire. Altre attività in cui indirizziamo le vittime per il reinserimento sono quelle di parrucchiere, lavoro a maglia, arte culi- naria, allevamento e agricoltura, campi scuola di agricoltura. La tua fede ti costringe a essere concreta ed esigente: è importante far sentire la tua voce. Il mondo è governato da leadership economiche, che sono quelle che scatena- no le guerre, che vendono armi in cambio delle nostre materie prime: il coltan e la cassiterite per fabbricare computer e cellu- lari sono macchiati del nostro sangue. La leadership morale spetta alla Chiesa, che deve impegnarsi, denunciando tutti i casi di violenze alla giustizia. Il compito della Chiesa è quello della pressione morale sui governi coinvolti nel conflitto, affinché cessi questo imbarbarimento dell’uomo. A questo punto Clotilde mi mostra un progetto che mi lascia interdetta per la precisione e la perizia della stesura. Anno per anno e mese per mese, voce per voce, voleva raccontargli la sofferenza della sua gente e della sua terra. Subito dopo il convegno incontro que- sta giovane donna dal passo deciso, armo- nioso come il sorriso; solo lo sguardo a tratti corre lontano e tradisce il pianto an- tico di generazioni di donne. Indossa un abito colorato che ha confezionato da so- la, espressamente per il colloque ; i soldi per comprare la stoffa se li è procurati donan- do il sangue. Colpisce la spontaneità con cui parla di sé, senza quelle reticenze a cui noi siamo abituate. Procediamo con ordi- ne, le dico: vuoi raccontarci la tua storia? «Sono nata il 18 agosto 1972 a Bunyaki- ri. Siamo nove fratelli, cinque ragazze e quattro maschi. Mio padre era direttore della scuola cattolica: è stato lui a costrui- re la cappella dei cristiani su una parte del proprio terreno. È morto quando avevo quattro anni, così mia madre ha cresciuto tutti i nove figli da sola. Ci ha fatto stu- diare tutti, e i miei fratelli sono tutti spo- sati. Da lei ho appreso la legge dell’amo- re. Il suo esempio mi ha fatto comprende- re che nella donna la famiglia trova quella forza straordinaria per sopportare e supe- rare gli ostacoli. Qual è stata la reazione di tua madre quando le hai parlato della tua vocazione? «È una grande gioia per me — mi ha risposto mia madre — avere una fi- glia che si mette al servi- zio del Signore». Ho fre- quentato la scuola prima- ria di Bunyakiri, ma dopo la morte di papà ho la- sciato gli studi. Sono quindi entrata nel conven- to delle Figlie della Re- surrezione nel 1987, dove ho fatto la professione di fede temporanea, fino al 1995. Mi occupavo dell’al- levamento del bestiame e facevo una scuola di me- ditazione. Subito dopo la professione temporanea mi sono ammalata di ques pour la Libération du Congo, diceva che so- no una sentinella, qui a Bukavu. Mi rendo conto che anche la nostra fonda- zione, di cui sono la coor- dinatrice, è una goccia nel mare, poiché la violenza continua a dilagare nella parte orientale del Congo. La Fsv è ora operativa in tre province dell’est del Paese, cioè il Sud Kivu, il Nord Kivu e il Maniema. Non ci risparmiamo: i da- ti nazionali di casi di stu- pri negli ultimi cinque an- ni riferiscono che è stata fornita assistenza a quasi centomila donne soprav- vissute alla violenza, e noi della Fsv ne abbiamo assi- stito più di seimila. La Materie prime come il coltan e la cassiterite per fabbricare pc e cellulari sono macchiati del nostro sangue sono registrati gli acquisti e le spese effet- tuati per la fondazione, i risultati raggiun- ti e quelli in sospeso. Il bilancio annuale è incredibile: Clotilde riesce a far funzionare il suo centro con cifre per noi irrisorie. È evidente però che ora le uscite hanno su- perato le entrate, che i lavori delle piccole abitazioni sono abbandonati e che diventa sempre più difficile provvedere al fabbiso- gno.
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