donne chiesa mondo - n. 37 - luglio 2015

I donne chiesa mondo luglio 2015 Mary Madeline Todd è una religiosa domenicana della Congregazione di Santa Cecilia a Nashville, Tennessee, negli Stati Uniti. Dopo il diploma magistrale in letteratura, ha conseguito il dottorato in sacra teologia presso la Pontificia università San Tommaso d’Aquino a Roma. Tra le sue pubblicazioni, «Two Women and the Lord; the Prophetic Vocation of Women in the Church and the World», in «Promise and Challenge» (a cura di Mary Rice Hasson, Huntington, Our Sunday Visi- tor, 2015). È professore assi- stente di teologia all’Aquinas College di Nashville. Dall’assenza alla presenza di M ARY M ADELINE T ODD l cuore umano non può sentirsi appagato senza amore, senza unione con le persone care. Come nell’eucaristia, anche nella famiglia non possiamo sperimentare la gioia della comunione se non c’è prima la presenza, una presenza reale e solida. Non è un segreto che oggi la famiglia deve affrontare molte sfide importanti. Spesso guardiamo ai problemi e proponiamo soluzioni dall’esterno, ovvero dal punto di vista dell’economia, delle strutture legali e sociali o dei cambiamenti culturali, che sono fattori esterni importanti per il benessere umano; ma il rafforzamento della vita familiare inizia dall’interno, dal punto di vista della persona e dal desiderio innato di ognuno di amare e di essere amato. Dalla prospettiva personale vediamo che non stiamo solo cercando di affrontare problemi sociali, ma che c’è anche una ferita interna profonda che deve essere guarita, nel cuore e nell’anima stessa della famiglia e della vita familiare. Alla presenza di Gesù Cristo con noi nella Chiesa, che ci parla attraverso la Parola e dimora con noi nell’eucaristia, possiamo riscoprire quella presenza che guarisce le ferite dell’assenza. Imparare a discernere la sua presenza ed essere presenti per lui ci apre, a sua volta, alla presenza degli altri. Oggi viviamo una crisi derivante dal fatto che, sebbene desideriamo la presenza di un’altra persona con cui poter condividere la vita e noi stessi, troviamo invece assenza. L’assenza più ovvia è quella fisica delle persone tra di loro. Il lavoro è una parte integrante della vocazione umana, ma può diventare una via di fuga dalle fatiche, spesso più ardue, di costruire rapporti. Il lavoro dovrebbe essere al servizio della vita familiare e non a suo detrimento. Purtroppo, nel mondo molte famiglie vengono separate da circostanze che sono al di fuori del loro controllo, come la guerra e il terrorismo, che le costringono a fuggire dalle loro case, oppure la povertà, che le pone in condizione di accettare qualsiasi tipo di lavoro ovunque per poter sopravvivere. Siamo chiamati a pregare e a lavorare per una società più giusta, una società che, anche in tempi di crisi, dia la priorità alla famiglia e al suo bisogno di unità. Tra coloro che le circostanze della vita rendono liberi di scegliere come trascorrere il proprio tempo c’è un’assenza forse ancor più dolorosa perché è stata scelta. L’illusione che avere o sperimentare di più possa colmare il vuoto interiore spinge le persone a cercare beni, esperienze o piaceri. Queste ricerche di per sé non hanno la capacità di realizzare i desideri più profondi del cuore umano. Specialmente nelle società opulente, sono in tanti a cercare di possedere e di fare sempre più, solo per ritrovarsi sempre più insoddisfatti. Una volta, passando davanti a una casa splendida con giardini rigogliosi, ho fatto a una mia amica un qualche commento a proposito. «Conosco la proprietaria — mi ha risposto con gli occhi colmi di tristezza — la cederebbe volentieri per poter avere indietro suo marito e la famiglia che sperava di farvi crescere». Quando ci si allontana delle persone più vicine, coloro il cui amore è una ricchezza autentica, il senso di isolamento può rendere il vuoto opprimente. Il problema dell’assenza non è soltanto fisico, ma anche spirituale. Pur stando con qualcuno, possiamo essere chiusi al dono dell’altra persona. Nel dramma di Karol Wojtyła Raggi di paternità , Adam, il personaggio centrale, si trova in mezzo a una folla di lavoratori alla fine di una giornata di fatiche. È in mezzo a tante persone, ma si sente completamente solo. Ha rifiutato sia la paternità di Dio, sia quella propria, considerando tali relazioni una zavorra alla sua libertà. Sperimenta un risveglio quando si rende conto che, a partire dall’interno della famiglia, è stato lui a scegliere il suo isolamento, e che non è tanto solo quanto chiuso. È stata la sua paura di affidarsi a un’altra persona e di accettare la responsabilità per un’altra persona l’origine della sua scelta di essere assente dalla comunità. Si rende conto che può scegliere di rischiare l’amore, di permettere a se stesso di essere il “mio” di qualcun altro e di accettare qualcun altro come “mio”. Di recente mi sono fermata a mangiare con un’amica in un ristorante molto affollato all’ora di pranzo. A ogni tavolo c’erano persone sedute assieme; erano in presenza le une delle altre senza dirsi una parola. Tutte controllavano i loro messaggi sui telefonini o la posta elettronica, oppure navigavano in rete. Era un’icona di “assenza reale”, ovvero dell’incapacità di essere attenti al dono dell’altro. Essa isola la persona e la lascia sola nella prigione dell’individualismo. Nell’icona della Trinità di Rublev vediamo l’esatto contrario di questa assenza reale. Le tre persone divine sono sedute al tavolo, guardandosi in faccia. Le teste chine del Figlio e dello Spirito, che sono rivolte verso il Padre, esprimono un’attenta riverenza per colui che è come loro, ma anche personalmente unico. La loro apertura reciproca non li rinchiude in se stessi. Li apre a una comunione condivisa con chi guarda l’immagine. Il quarto posto a tavola è sul lato dello spettatore, che è invitato non soltanto a condividere il pasto, ma anche a entrare in maniera più intima nella presenza dei tre e a partecipare alla gioia della comunione di vita. È possibile riscoprire il dono della presenza reale in famiglia, ma occorre un modo di pensare e di agire intenzionale e contro- culturale. La presenza presuppone la scelta di essere con l’altro. Questa scelta è, di per sé, un’amorevole affermazione dell’altro. La scelta di stare con una persona dice: «Sei degno del mio tempo. Stare con te è bello perché tu sei bello». Tuttavia, più in profondità, la scelta di essere attenti all’altro mentre siamo insieme esprime un amore preferenziale. Dice: «Sei la persona più importante per me in questo momento. Sei più importante di questo affare, di questa telefonata, di questa e-mail». Il susseguirsi di tanti di questi momenti, col passare del tempo diventa per la persona una garanzia d’amore, la base di un vincolo profondo di comunione. Dopo questa scelta che esprime una preferenza per l’altra persona, la presenza è poi mediata dallo sguardo. Quando Dio ha creato il mondo, il suo sguardo ha rispecchiato e comunicato la bontà di tutto ciò che aveva fatto. Dopo aver creato la persona umana, uomo e donna a immagine divina, lo sguardo di Dio ha suggerito l’affermazione che erano cosa molto buona. Il primo sguardo che si sono rivolti Adamo ed Eva era pieno di meraviglia e di stupore, uno sguardo che gioiva nel vedere un altro con cui poter condividere la propria vita in un incontro pienamente personale. Hans Urs von Balthasar scrive spesso dello sguardo della madre che comunica al figlio la bontà della sua persona, risvegliando il bambino alla realtà di essere amato. Nella famiglia ogni persona è invitata a guardare all’altro, a trasmettere con uno sguardo di ammirazione e affetto la bellezza che si vede nell’altro. È fondamentale al fine di essere presente l’uno all’altro. Oltre che alla vista, la presenza si affida all’udito, e più che all’udito, all’ascolto. L’iconografia tradizionale rispecchia l’importanza di vedere e sentire. Le persone dipinte nelle icone hanno occhi e orecchie grandi, ma la bocca di solito è piccola. Questa raffigurazione è un’istruzione per la preghiera attenta. Invita chi prega a guardare e ad ascoltare, ma a parlare molto poco. Questo atteggiamento è certamente fondamentale per la preghiera, ma lo è anche per una presenza attenta agli altri. Le persone che vivono in città affollate sono spesso quelle più sole. Circondate da tanti, sono alla presenza attenta di nessuno. Ciò può facilmente accadere persino in famiglia. L’attivismo della vita moderna può assorbire così tanto del nostro tempo e della nostra attenzione, da lasciarne molto poco per le persone a casa. L’onnipresenza del rumore e la sovrabbondanza di parole possono renderci sordi alla voce degli altri. Corriamo il pericolo di diventare estranei che vivono sotto lo stesso tetto. Guardare e ascoltare sono i primi elementi dell’ospitalità, dell’accoglienza e del dono della presenza reale. La verità di questa dinamica è evidente nella visita di Gesù in casa di Marta e di Maria a Betania, così come viene narrata nel vangelo di Luca. Marta lavora diligentemente per mostrare ospitalità a Gesù. Prepara un pranzo che potrebbe offrire un’opportunità di comunione della mente e del cuore ma lo prepara con grande distrazione dello spirito. Il problema non è la sua azione, ma piuttosto il suo spirito di attivismo. Concentrandosi troppo sul lavoro che sta svolgendo, ha perso di vista la relazione che è il motivo del suo lavoro. Maria, d’altro canto, comprende il primato della relazione con l’ospite. È consapevole che guardare e ascoltare sono necessari se vuole essere presente a Gesù. È questa la prima ospitalità, il dono di attenzione amorevole per l’altro. Questa attenzione amorevole può motivare l’azione. La vita familiare è piena di atti di servizio, ma, affinché questi gesti comunichino l’amore che li origina, occorre prima essere presenti gli uni agli altri. La presenza rivela amore, e la presenza duratura rivela amore immutato. È ciò che ci ha insegnato Cristo con i doni dell’eucaristia e dello Spirito Santo. Prima di ritornare al Padre, ha assicurato ai suoi discepoli: «Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» ( Matteo , 28, 20). Il desiderio di Dio di essere con noi, espresso nella maniera più piena dalla sua incarnazione, dal suo venire tra noi come uno di noi, permane. In lui e nella sua fedeltà c’è il primo e più profondo rimedio all’assenza reale. Egli è realmente presente, infinitamente attento, scegliendo incessantemente di essere con noi e in noi. Non è mai troppo indaffarato per sentirci, per ascoltare i desideri del nostro cuore, che solo lui può realizzare. Gesù c’incontra negli eventi comuni della nostra vita quotidiana così come incontra la donna di Samaria, seduto accanto al pozzo, riconoscendo la nostra sete d’amore e offrendoci di placarla. Ci offre, come ha fatto con lei, il dono di acqua viva che sgorga da dentro. Ci insegna a rendere culto in Spirito e in verità, a riconoscere che ogni momento può essere un punto d’incontro con colui che ha sete del nostro amore come noi abbiamo sete del suo. Ci manda a condividere con le persone che amiamo l’invito a incontrarlo a loro volta. Ci rende testimoni del potere salvifico della sua presenza. Gesù c’incontra come ha incontrato i discepoli scoraggiati sulla strada di Emmaus. Avvia con noi una conversazione, profondamente interessato alle nostre speranze e ai nostri sogni, alle nostre delusioni e ai nostri dubbi. Partecipa al nostro dispiacere e con la sua parola getta luce sulle nostre domande. Cammina con noi sulle strade che percorriamo e si siede a tavola con noi, facendosi riconoscere per mezzo della frazione del pane. In sua presenza, apprendiamo di essere amati. Questo amore, incondizionato e incessante, ci dà la pace per accogliere gli altri, la libertà interiore per scegliere di essere presenti per loro, uno sguardo nuovo per guardarli in maniera amorevole e la pazienza di ascoltarli con cuore attento. Oggi, lo sforzo di essere presenti agli altri è una sfida più grande che mai. Abbondano le opportunità di partecipare a eventi e attività, di accedere a informazioni da tutto il mondo e all’intrattenimento su richiesta. Per quanto queste opportunità possano essere rinvigorenti, una così vasta gamma di possibilità può creare l’illusione di tempo illimitato e di impegno infinito. Possiamo dimenticare i limiti della nostra umanità. Sì, possiamo avere centinaia di “amici” attraverso i social network, ma riusciamo a conoscere in profondità solo poche persone. Nel perseguire questa molteplicità di legami superficiali, rischiamo di non avere relazioni profonde. Talvolta ci risvegliamo al bisogno di resistere consapevolmente alla superficialità che ci mantiene a galla nella vita. Possiamo anche cadere preda delle pubblicità del consumismo, che promettono gratificazioni istantanee dei nostri sensi e delle nostre emozioni. Se ci soffermiamo a riflettere sulle nostre esperienze, scopriremo che per conoscere noi stessi e gli altri in profondità serve la pazienza necessaria per crescere nella conoscenza e nell’amore nel tempo. La riscoperta della ricchezza dell’amore, che la famiglia possiede in comunione, presuppone un nuovo impegno alla presenza reale. Invita a scegliere di trascorrere del tempo con l’altro. Esorta ognuno a essere attento, ad ascoltare e a rallegrarsi nell’altro, la cui differenza è un arricchimento e non una minaccia. Alla presenza del santissimo sacramento, siamo seduti ai piedi del maestro che può aiutarci a imparare come stare fermi alla presenza dell’altro, e quindi come essere attenti alla bellezza di ogni altra persona. Scopriamo in Cristo, presente a noi nell’eucaristia, e dentro di noi attraverso il suo Spirito che alberga in noi, la verità che l’amore è presenza persistente. Nella sua dottrina sociale, la Chiesa afferma ripetutamente che la società è forte solo nella misura in cui lo è la famiglia. La famiglia è forte solo nella misura in cui lo è l’amore che unisce ciascuno agli altri. L’amore in seno alla famiglia è forte solo nella misura in cui lo è l’impegno a essere realmente presenti, e in tal modo di amarci gli uni gli altri come siamo stati amati per primi. l’autrice Andrej Rublev, «Trinità»

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