donne chiesa mondo - n. 36 - giugno 2015

donne chiesa mondo women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne Invecchiare bene Quell’abbraccio quasi materno Una versione più ampia di questo articolo esce su «La Rivista del Clero italiano». di L UCIANO M ANICARDI I l Nunc dimittis è il breve inno che la Chiesa fa pregare a compieta, alla fine del giorno, come ultime parole di fede prima di entrare in quel sonno che è simbolo della morte. È anche il canto della sera della vita, pronunciato da un Simeone ormai prossimo alla morte, ed è per noi memo- ria dell’«ora della nostra morte», come recita l’Ave Maria. Si tratta dunque di un atto, pregare il Nunc dimittis , che rientra nell’ormai scomparsa arte di prepararsi a morire. E prepararsi, se mai ci si può preparare a quell’evento della morte che sempre ci contraddice e sorprende, nella fede. La grandezza di Simeone è nella sua umiltà. Nella semplicità dei suoi occhi che vedono la salvezza nella carne di un neonato, di una nuova vita da poco sbocciata, nella tenerezza del suo ab- braccio al piccolo, nella disponibilità a fare spazio ad altri, nella prontezza a farsi da parte, a cedere il passo, a lasciare il posto, a diminuire perché altri cresca. Contento che altri cresca. Proprio come Giovanni Battista: «Lo sposo è colui al quale appartiene la sposa; ma l’amico dello sposo, che è presente e l’ascolta, esulta di gioia alla voce dello sposo. Ora questa mia gioia è piena. Lui deve crescere; io, invece, diminuire» ( Giovanni , 3, 30). Nessuna traccia di quella gelosia spesso tipica degli anziani nei confronti di chi viene dopo di loro, nessun sospetto e diffidenza, nessuna invidia, ma la gratitudine, la gioia serena e pacata. Si- meone è invecchiato bene. «C’era un uomo a Gerusalemme di nome Simeone». Così ini- zia il nostro breve racconto. Anzi, il testo inizia con quell’«ed ec- co» che nel terzo vangelo introduce spesso una rivelazione, esprimendo l’invito a fare attenzione, a guardare con attenzione per vedere nell’opacità del quotidiano lo straordinario di Dio. Ovvero, per fare ciò che sa fare Simeone, il quale riconosce nel bambino il messia di Israele, la salvezza di Dio. «C’era un uomo a Gerusalemme». Chi era quest’uomo? Il suo nome, Simeone, rinvia all’ascolto, shamà in ebraico. E l’ascolto di cui Simeone si è mostrato capace per tutta la vita è stato senz’altro anzitutto l’ascolto delle Scritture. Le profezie di Isaia echeggiano nelle pa- role dell’anziano: «Tutti i confini della terra vedranno la salvezza del nostro Dio» ( Isaia , 52, 10); «Si rivelerà la gloria del Signore e ogni carne la vedrà» ( Isaia , 40, 5); «Io ti renderò luce delle genti perché tu porti la mia salvezza fino all’estremità della ter- ra» ( Isaia , 49, 6). Questi, ma anche diversi altri testi veterotesta- mentari stanno dietro le parole di Simeone e dicono di una fede forgiata negli anni sulle Scritture fino a scolpire nel cuore di Si- meone una speranza salda, una fede solida. Che non si lascia mettere in scacco nemmeno dalla morte. L’ascolto delle Scritture poi per Simeone è stato ascolto che ha creato un ponte con la vita, con la sua vita, è stato un ascolto che gli ha consentito di sentire la promessa profetica delle Scrit- ture, la promessa di Dio come rivolta a sé: lui stesso vedrà la sal- vezza di Dio. Isaia diceva che ogni carne vedrà la salvezza di Dio, ma perché la veda ogni carne, la deve vedere quella carne che io stesso sono. E Simeone vede, vede perché ha ascoltato. Si- meone ascolta, ma ascolta con fiducia, egli crede che ciò che la Scrittura dice è parola di Dio rivolta a sé: egli crede alla promes- sa di Dio. Ecco l’ascolto efficace: l’ascolto che crede. E suscitan- do fede, crea un corpo e una mente aperti, accoglienti, ospitali. Ciò che ha consentito a Simeone di invecchiare bene è stato an- zitutto l’ascolto, la capacità di fare spazio alla parola e alla pre- senza di un Altro, ma anche di altri. Tanto che alla fine della vita egli riesce ad accogliere anche fisicamente, nelle sue braccia, il bambino in cui riconosce la salvezza di Dio. La capacità di ascolto si manifesta in capacità di accoglienza. E così è l’intero suo corpo che viene scolpito dall’ascolto e diviene non geloso, non timoroso, non angosciato, non ripiegato su di sé, ma acco- gliente, capace di ospitalità. Non sulla difensiva, ma aperto all’altro. Di Simeone si sottolineano gli occhi e le braccia: i suoi occhi anziani sono ancora capaci dello stupore di chi guardando vede nell’altro non un rivale, non una minaccia, non uno che prende il suo posto e gli toglie spazio e libertà, non un nemico, ma un sa- cramento della salvezza. Noi siamo salvati attraverso gli altri, grazie agli altri. Spesso gli altri sono per noi motivo di lamento e di stanchezza e di frustrazione, ma in verità, la salvezza ci rag- giunge attraverso gli altri. Noi vediamo la salvezza grazie agli al- tri. Il suo sguardo di anziano non è sospettoso, diffidente, pau- roso, ma tenero. Ha saputo sviluppare quella dote di tenerezza che è così preziosa e rara. Soprattutto nei maschi. E questo si manifesta anche in quell’abbraccio quasi materno con cui egli ac- coglie il bambino, quasi cullandolo, con dolcezza. Il corpo di Simeone non è rigido, chiuso, respingente, ma lu- minoso, caldo, accogliente. Cercando di immaginare Simeone vien da pensare alla figura del kalógheros della tradizione orienta- le, l’anziano “bello”, scavato e plasmato da una vita di obbedien- za, di fede. Un corpo che è Vangelo, che è narrazione evangeli- ca. Non è un evangelizzatore, ma un uomo divenuto Vangelo. Un po’ come Francesco di Assisi, di cui si dice che era non tam- quam orans , sed oratio factus («non come uno che prega, ma dive- nuto preghiera»). Il quarto voto Carola Susani racconta la santa del mese, Paola Frassinetti P aola Frassinetti nacque il 3 mar- zo 1809, a Genova, nel quartie- re di Portoria. Come scrive Ro- sa Rosetto, Portoria era quasi campagna allora, con villette e case contadine. Suo padre, Giovanni Bat- tista, aveva un negozio di stoffe. Sua ma- dre, Angela Viale, aveva messo al mondo dieci figli. Di questi ne erano sopravvissuti cinque. Alla morte della mamma, Paola — unica femmina tra quattro fratelli — aveva nove anni. Di sicuro è stata proprio Angela a fare della religiosità l’aria della casa, il pa- ne quotidiano dei suoi figli. Giuseppe, Francesco e Paola che erano più grandi raccolsero il testimone direttamente da lei, gli altri dai fratelli: i quattro maschi furo- no sacerdoti e Paola fondò una congrega- zione. Finché Angela era viva, Paola stava con lei, l’aiutava, cuciva, lavorava a maglia; si dilettava già in piccole tenzoni con se stessa, come vincere la paura del buio o almeno attraversarlo senza che nessuno si accorgesse di quanto per lei era duro. I progetti di un’educazione fuori casa non si concretizzarono, e Paola ebbe come inse- gnanti madre, padre e fratelli, fu capace di concentrarsi tanto da imparare il più pos- sibile da ognuno. Era ostinata, quando le toccava un lavoro nuovo pensava: «Chi ha fatto questo lavoro aveva due mani, due occhi come me». Alla morte di Angela, la zia Anna, che abitava in casa con loro, la manda a con- trollare la donna che deve vestire la salma: per Paola, come per tanti scrittori dell’Ot- tocento, stare davanti al corpo morto di una persona amata è un’esperienza scon- volgente e atroce. Paola impegna un’intera vita per capovolgerla, perché la morte non vinca. A nove anni accudisce il padre e i fratelli. Comincia il suo ciclo di capovolgi- menti, del suo destino fa una scelta: si sveglia prima di tutti e sveglia i fratelli, ma per essere sicura di riuscirci dorme ve- stita, con il bustino stretto. Del sacrificio, fa la sua forza; della sua fragilità, uno slancio. Paola desidera farsi suora, e la tensione con il padre che non le accorda il permes- so dura a lungo, fra irrigidimenti e con- cessioni. Quando suo fratello Giuseppe prende la cura di San Pietro di Quinto al mare, chiede al padre di mandargli Paola come aiuto. Lei ha ventidue anni, una vita interiore vivacissima e ora scopre tutt’in- sieme lo slancio attivo — che sarà per lei sempre verso l’educazione — e l’amicizia: dev’essere stata un’euforia. Sono le ragazze a cercarla, figlie di con- tadini e marinai. Marianna Danero, che sarà sua amica e consorella, dice che a in- contrarla provò un «contento che non si può spiegare». Insieme passeggiavano fra ulivi e vigne. Un gruppo di ragazze pove- re si raccoglie attorno a Paola e attraverso successi e fallimenti, rinunce e ricostruzio- ni, con l’aiuto di don Giuseppe e di don Luigi Sturla mette su un istituto per l’edu- cazione delle ragazze povere. Erano senza soldi, in molte, Paola com- presa, fragili fisicamente e, a parte Paola, senza formazione. Era il 1834, presero in affitto “la casina”, padre Bresciani pagò l’affitto. Nel 1835, don Luca Passi — pro- motore dell’Opera di santa Dorotea e san Raffaele, che aveva per scopo l’educazione dei ragazzi e delle ragazze — coinvolse Paola, e così le sorelle insieme ai voti di povertà, castità e obbedienza, fecero voto anche di sostenere l’Opera di santa Doro- tea. Dopo il colera, la crisi di sfiducia del- le compagne e del paese, il padre che da- vanti all’istituto cacciava le ragazze gri- dando «Paolina è pazza», la pace rinnova- ta e approfondita con lui, il rifiorire dell’opera, nel 1841 Paola parte per Roma. All’inizio — sono in tre, lei e due com- pagne — alloggiano in un locale piccolo e sporco sopra le scuderie dei principi Tor- lonia. La povertà, l’incertezza della sussi- stenza sono vissute da Paola come uno sprone, una provocazione a immaginare. Nel 1842 fonda la prima scuola a Santa Maria Maggiore, poi ne nascono in altre parrocchie e a Macerata. Ha il sostegno di Gregorio XVI , il sostegno e l’amicizia di Pio IX . Prende in carico il conservatorio a Sant’Onofrio al Gianicolo. Nel 1849, a conclusione della breve vita della Repubblica romana, mentre il Papa è fuggito a Gaeta, le truppe francesi e i vo- lontari della Repubblica si scontrano a Roma. Uno dei campi di battaglia è pro- prio lì, vicino a Sant’Onofrio. I repubbli- cani malconci e assetati chiedono aiuto, le suore prendono l’acqua dal pozzo per lo- ro, nutrono i combattenti, curano i feriti. I repubblicani riconoscono a Paola e alle sue suore un’ampiezza, una generosità che non avevano previsto, così le rispettano in modo anche po’ teatrale: fanno loro il sa- luto militare. Mentre Paola era ancora in vita, ci fu la fondazione di case di Santa Dorotea in Brasile e in Portogallo. Nel 1876 venne colpita da una paralisi. Ci mise un mese per riprendersi e, recuperate in parte le ca- pacità motorie, ricominciò a darsi da fare, spendendosi senza tregua, e di se stessa diceva: «Io sono il Giona dell’istituto». Morì nel 1882, e nel 1984 è stata canoniz- zata da Giovanni Paolo II . Carola Susani è nata nel 1965 in Veneto e a quattro anni si è trasferita con la famiglia in Sicilia. Ora vive a Roma. Nel 1995 è uscito il suo primo romanzo Il libro di Teresa (Giunti). Ha scritto per adulti e per ragazzi, romanzi e raccolte di racconti. Fra gli altri: L’infanzia è un terremoto (Laterza 2008), a metà tra autobiografia e reportage narrativo, il romanzo Eravamo bambini abbastanza (Minimum Fax 2012), il libro per ragazzi Susan la Piratessa (Laterza 2014). È redattrice di «Nuovi argomenti». Nel 1849 i repubblicani sono colpitissimi dall’enorme generosità di Paola e delle sue suore Al punto da far loro il saluto militare

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