donne chiesa mondo - n. 33 - marzo 2015

N donne chiesa mondo marzo 2015 Docente di filosofia presso l’Istituto superiore pedagogico di Weingarten dal 1989 al 1992, Hanna-Barbara Gerl- Falkovitz ha ricevuto la laurea honoris causa dall’Istituto Su- periore teologico-filosofico di Vallendar (1996). Dal 1993 al 2011 ha retto la cattedra, appena istituita, di filosofia della religione e scienza religio- sa comparata all’Università tecnica di Dresda. Dal 2011 presiede l’Istituto Europeo di filosofia e di religione (anch’es- so neo-istituito) presso l’Istituto superiore filosofico-teologico Be- nedetto XVI a Heiligenkreuz (Vienna). Nuovo umanesimo di H ANNA -B ARBARA G ERL -F ALKOVITZ el 1932, Brave New World , l’utopia negativa di Aldous Huxley, mostrò l’immagine terrificante di un’umanità concepita in maniera puramente biologistica e manipolata, in cui gli uomini erano prodotti in modo industriale ed educati collettivamente. In quel mondo c’era una parola assolutamente vietata: la parola “madre”. Una volta riuscito il lavaggio del cervello, essa scatenava sentimenti di avversione. L’uomo nuovo non doveva intendersi come generato e partorito, bensì come fabbricato, un mero factum , né genitum né natum . Doveva credere di essere dovuto soltanto alla società tecnicizzata e a null’altro, a nessun Tu personale più anziano o forse addirittura a Dio. Tra l’altro, la parola padre non c’era nemmeno più; evidentemente era ancor più facile da eliminare della madre. In base a Il secondo sesso (1949), classico di Simone de Beauvoir, ormai potevano essere ammesse solo domande strutturali: «Come si diventa una donna?», ma non le domande essenziali: «Che cos’è una donna?». Di fatto, secondo de Beauvoir essere donna è un’invenzione dell’astuzia maschile per liberarsi di compiti spiacevoli. Perciò la categoria “femminile” andrebbe bandita in partenza in quanto repressiva, e di ciò diventa vittima anche la maternità. Esisterebbero infatti due “trappole” dell’essere donna: il bambino e l’uomo; entrambi portano alla volontà di legarsi e quindi a doveri permanenti. Soprattutto il bambino, a causa della sua dipendenza psico- fisica, costituirebbe la naturale “catena della donna”. Il corpo femminile deve essere “trasceso” e neutralizzato: attraverso il livellamento chimico del bioritmo o, nel caso più estremo, attraverso l’aborto. L’essere donna continua così a essere determinato solo dall’astratta autonomia del proprio essere. Questo femminismo egualitario («la donna deve diventare uomo») ancora oggi prevale nel dibattito. Naturalmente nell’ambito della Chiesa cattolica la difesa della maternità c’era sempre stata, tuttavia rimbalzava in larga misura contro questo discorso. Inoltre, con la teoria del gender si è imposta un’altra dimenticanza del corpo, che parla sì di donne e di uomini, ma che ha sostituito le costanti biologiche con costrutti sociali. Così il corpo viene ridotto a un organismo neutrale e la maternità viene trattata in prevalenza nell’ambito della fertilità tecnicamente fattibile. Sorprendentemente, però, esistono nuovi spunti intellettuali che vanno in direzione della maternità, specialmente nell’ambito di una comprensione psicoanalitica e fenomenologica del corpo. Julia Kristeva, filosofa e psicanalista bulgara che vive a Parigi, si è fatta notare quando, con un saggio dal titolo audace, Stabat mater (1976), ha sollecitato la riflessione mancante e addirittura vietata sulla maternità. Le pagine dell’edizione tedesca del libro sono divise a metà: la colonna di destra contiene riflessioni teoriche sulla maternità. A sorpresa appare anche la figura della Vergine madre; allo stesso tempo viene reso omaggio all’effetto culturale di questa “costruzione immaginaria”. Nella colonna di sinistra, con linguaggio chiaramente ispirato dai sentimenti, Kristeva annota le proprie sensazioni durante la gravidanza e la nascita di suo figlio. Già lo stesso cambiamento vissuto dal corpo materno indicherebbe, secondo lei, una realtà che, durante la nascita e l’allattamento del bambino, libera esperienze incomparabili. Kristeva ha sviluppato «Dieci principi per un nuovo umanesimo», dove domanda chiaramente che la corporeità venga inserita nella comprensione dell’essere umano. Esistere significa essere corpo, con conseguenze rispettivamente diverse per la donna e per l’uomo. Si scopre così quello che finora è stato l’angolo cieco del movimento femminile, contro il tacere, anche nella casa cristiana, e contro la paura di un pensiero interno cattolico “premoderno” sulla maternità. «La lotta per la parificazione economica, giuridica e politica esige una nuova riflessione sulla scelta e sulla responsabilità della maternità. La secolarizzazione ha prodotto una civiltà nella quale solo il discorso sul ruolo della madre è ormai carente. Il vincolo d’amore tra madre e figlio, questo primo altro, che rappresenta l’aurora dell’amore e del diventare uomo, questo legame, attraverso il quale la continuità biologica diventa senso, alterità e parola, è un doppio legame. Il doppio legame con la madre si distingue sia dalla religiosità sia dalla funzione paterna, che completa entrambe, diventando in tal modo parte intera all’interno dell’etica umanistica». Infine, Kristeva chiede la riformulazione di un’«etica dell’epoca moderna»; anche la soggettività femminile nell’etica finora continua a rimanere in silenzio. Secondo la sua tesi, le donne, «con il loro desiderio di riproduzione (stabilità)», caratterizzano un’etica politica e culturale diversa. Pertanto, Kristeva dà spunto a un «nuovo discorso di maternità». Occorre «individuare la straordinaria costruzione del materno», compiuta con la Vergine Maria, «e analizzarla attentamente nella sua complessità e molteplicità». L’equilibrio tra «aspetti di uguaglianza e di differenza» dell’uomo e della donna oggi è alterato e deve essere riottenuto con urgenza. Sibylle Lewitscharoff, proveniente da un ambiente protestante, con il suo «discorso di Dresda» del marzo 2014, sulla possibilità della medicina di disporre della vita e della morte, ha toccato un tema altrettanto scottante. In particolare ha attaccato la fecondazione artificiale (fecondazione in vitro), nonché, in maniera implicita, i susseguenti metodi di screening e, in modo esplicito, anche l’utero in affitto, i cataloghi dei semi e la «fecondazione» su ordine da parte di «concubini». Ha formulato le sue tesi in modo molto esasperato, sbagliando però in parte quando ha parlato di un bambino generato in provetta come di un «mezzo essere»: cioè «creature dubbie, metà essere umano e metà con qualcosa di artificiale» (espressione in seguito ritirata). Anche dopo aver ricevuto aspre critiche, fondamentalmente ha continuato a rifiutare la procreazione tecnicamente manipolata, in particolare in considerazione delle madri, che devono sopportare procedure umilianti, per non dire dei padri, che con l’aiuto di immagini pornografiche devono procurare lo sperma attraverso l’onanismo. Lewitscharoff è disgustata dagli «eccessi del delirio di fattibilità e (…) dalla strumentalizzazione dei bambini perché aiutino a realizzare le proiezioni dei loro genitori». Quindi «merita rispetto la sua arringa (…) a non voler eliminare, nell’ambito della nascita e della morte, tutto ciò che è destino. Qui il discorso di Lewitscharoff può essere inteso come risposta consapevole, come obiezione alle fantasie di onnipotenza sostenute dalla medicina e come messa in guardia da una eccessiva pretesa verso se stesso da parte dell’uomo moderno». Ciò che però è stato trascurato nella critica al «discorso di Dresda» è la mancanza d’intenzionalità con cui dovrebbe avvenire la procreazione umana, alla quale si riferisce Lewitscharoff. Sostanzialmente questa corrisponde al rispetto della libertà di chi deve essere creato, poiché attraverso di essa egli viene sottratto in partenza al modo di pensare utilitaristico dei suoi “produttori”. Laddove i bambini vengono generati in modo mirato (fecondazione in vitro, diagnostica prenatale, magari cloni), se non piacciono o in caso di “tentativo fallito” essi possono essere uccisi in modo altrettanto mirato, poiché secondo la mentalità sono diventati prodotto dei loro produttori. L’utilitarizzazione dell’uomo è il metodo di lavoro dell’ homo faber dell’età moderna, e la società che abortisce, seleziona o non è disposta a generare, è la sua fucina. L’uomo non è mai mera natura, ma sempre persona, quindi natura coltivata. Tuttavia, in teoria la base naturale dell’essere uomo, il suo genere corporeo, non può essere soppresso come portatore di personalità. A ciò ha dato un contributo illuminante la fenomenologia del corpo. Così Edith Stein parte sostanzialmente dalle costanti naturali della corporeità che determinano chiaramente l’essere donna: disponibilità all’accoglienza e maternità. Entrambe queste qualità portano a un “dentro” psicologico: «La missione primaria della donna è procreare ed educare la prole (…). Nella donna, [si manifestano] l’attitudine a proteggere, custodire e far sviluppare l’essere in formazione e in crescita: perciò il dono, di carattere più corporeo, di saper vivere strettamente unita a un altro, di raccogliere in calma le forze, e di sopportare il dolore e la privazione, e adattarsi; il dono, di carattere più spirituale, di essere interiormente orientata verso il concreto, l’individuale, il personale; di saperli cogliere nella loro caratteristica e di adattarvisi; il desiderio di cooperare al loro sviluppo». Psicologicamente, la disponibilità all’accoglienza si trasforma in specifiche “empatie”: nel rapporto di coppia con l’uomo, ma anche artistiche e scientifiche; la maternità si trasforma in immedesimazione con ciò che è più debole o attraentemente più grande, e da qui passa alla capacità di impegnarsi in molteplici forme, all’aiuto nello sviluppo della vita estranea, alla conservazione dell’umano proprio nel campo a rischio della tecnologia. Secondo Stein sta proprio nella capacità di tale “indole” la forza fondamentale femminile di appassionarsi a tutto ciò che è umano, in particolare a ciò che è bello, ma anche alla verità, ovvero a tutto ciò «che da un mondo dell’aldilà agisce con misteriosa potenza e forza d’attrazione in questa vita». Il tentativo di rappresentare la forma specificamente femminile di spirito risulta straordinariamente difficile. Stein vede in esso soprattutto il «desiderio di ricevere amore in cambio d’amore, e in ciò un anelito a venire innalzata dall’angustia della sua esistenza presente concreta a un essere e un agire più alti». Il processo attivo-passivo di questa spiritualità consiste tanto nella maturazione propria quanto nello «stimolare e favorire negli altri la maturazione fino alla sua completezza (...), anelito femminile più profondo, che può manifestarsi con i travestimenti più diversi, e anche come travisamenti e depravazioni». La fenomenologa, in ultima analisi, ha difficoltà a dividere le species uomo e donna per caratteristiche spirituali «secondo il genere». Ciò che nel corpo emerge con facilità è già meno facile da cogliere nella forma psicologica, mentre è addirittura difficile da comprendere nella determinazione dello spirito. Ogni persona, infatti, deve realizzare, nella propria particolarità, forme che le corrispondono di ciò che è prescritto, addirittura l’arte (e il rischio di fallimento) è proprio di imparare ciò. Così, le parole più forti di Stein sulla particolarità della donna sono quando pospone l’essere donna al personale. Sulla Nora di Ibsen dice: «Sa di dover diventare anzitutto un essere umano prima di poter di nuovo tentare di essere sposa e madre. (...) Nessuna donna, di fatto, è solo donna». Tuttavia, per determinare la donna, la corporeità, intesa sempre come «corpo animato», resta fondamentale: «Che l’animo umano sia immerso in un corpo corporeo (…) non è un fatto indifferente (…). Tutto ciò che è corporeo ha un lato interno, dove c’è corpo c’è anche vita interiore. Non è solo una massa, che percepisce, bensì come corpo appartiene necessariamente a un soggetto, che percepisce attraverso di esso, del quale rappresenta l’aspetto esteriore e che per mezzo di esso è posto nel mondo esterno e nel quale può intervenire in modo creativo, che percepisce le sue condizioni». Stein ha tratteggiato in maniera triplice la ricchezza di tensioni dell’essere femminile nel suo complesso: la corporeità («natura») è punto di partenza e base portante del progetto personale di sé; questo include le condizioni e i progetti sociali dell’essere donna («cultura»). Tuttavia, la natura e la cultura vengono determinate da un terzo elemento: la provenienza e la destinazione dell’esistenza. La domanda esclusa dal discorso femminista sul creatore del proprio essere in Edith Stein diventa espressa. I testi biblici, di fatto, pongono nell’umano-redento, personale, solo l’essere donna naturale o determinato dalla cultura. «Più in alto si sale nella somiglianza con Cristo, più l’uomo e la donna diventano uguali (…). Così il dominio da parte del genere viene cancellato a partire dallo spirituale». In Edith Stein, dunque, il polo della “natura” viene vissuto storicamente e personalmente: la natura stessa, infatti, non è semplicemente “intera”, bensì ha bisogno della “soluzione” divina, della guarigione trascendente in armonia con la propria formazione. Rimangono tre elementi delle tensioni di vita femminile: la «natura» come indicazione corporea-spirituale; la «cultura» come modellamento personale di sé e la «grazia» come guida divina. Questi elementi contrastano l’attuale sottovalutazione dell’essere donna, poiché apportano un correttivo metodico e contenutistico al progetto di sé “senza corpo” delle donne. Per concludere con le parole di Mark Twain: «Che cosa sarebbe l’umanità senza la donna? Sarebbe scarsa, terribilmente scarsa». l’autrice Roy Lichtenstein, «The Ring» (1962) Felice Casorati, «Tre sorelle» (1930)

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