donne chiesa mondo - n. 19 - gennaio 2014
women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne chiesa mondo women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne chiesa mondo women L’OSSERVATORE ROMANO gennaio 2014 numero 19 Inserto mensile a cura di R ITANNA A RMENI e L UCETTA S CARAFFIA , in redazione G IULIA G ALEOTTI www.osservatoreromano.va - per abbonamenti: ufficiodiffusione@ossrom.va donne chiesa mondo women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne chiesa mondo women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne chiesa mondo Sursum corda, don Battista! Il carteggio del futuro Paolo VI con la madre Giuditta Alghisi di M ARIA P IA S ACCHI M USINI * I l quarantennale del collegio universita- rio femminile Santa Caterina, sorto a Pavia nel 1973 per volontà di Papa Montini, è stato di recente festeggiato con il convegno «Paolo VI , Caterina, le donne». L’obiettivo era di dare conto della speciale attenzione sempre dimostrata da que- sto Pontefice per la figura femminile: un’at- tenzione nata in famiglia e poi sempre coltiva- ta con profetica sensibilità. Collaboratore sin dai primi anni di sacerdo- zio del mensile «La Madre Cattolica», Montini è chiamato a più riprese dalla direttrice della ri- vista Angela Bianchini a offrire alle lettrici un orientamento sul suffragio femminile (siamo nel 1921 e si parla per ora di elezioni ammini- strative). Scrivendo a nome della redazione, il futuro Paolo VI si dice senz’altro d’accordo con questa opportunità — ispirata da evidenti ragio- ni di giustizia — purché la si prenda sul serio, cioè preparandosi scrupolosamente al voto così da renderlo utile al bene di tutti. Una convin- zione maturata senza dubbio sull’esperienza vissuta in casa. La mamma di Giovanni Battista, Giuditta Alghisi, è donna di buona cultura sia grazie alla famiglia di origine (che le consente di es- sere educata dalle Marcelline, nel collegio mi- lanese di via Quadronno); sia grazie alla fami- glia acquisita, dove fede e cultura si mescola- no rafforzandosi reciprocamente e allargandosi alle vicende socio-politiche contemporanee, lette sempre in una prospettiva provvidenzia- le. Dalla prima parte del carteggio montiniano (1914-1923), pubblicata nel 2012 dall’Istituto Paolo VI , e dalle lettere degli anni 1928-1929 che ho il privilegio di aver letto come collabo- ratrice della prossima tranche dell’epistolario, emerge l’importanza per Montini di alcune fi- gure femminili, e quanto esse abbiano contato nella formazione del suo particolare femmini- smo. Tra tutte, proprio le lettere della e alla mamma si rivelano fondamentali. È con lei che Giovanni Battista dialoga fit- tamente, facilitato dall’estrema confidenza che ambedue hanno con il mezzo epistolare, ma soprattutto da una speciale affinità di senti- menti. La mamma scrive al figlio con cadenza regolare (preferibilmente nei pomeriggi festivi, dedicati in particolare ai rapporti familiari e amicali), provvedendo a illustrargli tutte le no- vità di famiglia — dalla salute, ai viaggi, agli impegni di lavoro o di carità — e non lesinan- do raccomandazioni riguardo la sua salute de- licata. Don Battista non è altrettanto costante nelle risposte; ma non lascia mancare mai per troppo tempo sue notizie e, anche nelle lettere per lo più indirizzate genericamente ai fami- liari («Carissimi» ne è l’affettuosa e consueta intestazione), si percepisce che la sua interlo- cutrice diretta è la madre, attraverso cui sono filtrate le informazioni che arrivano a Roma da Brescia, da Verola, dal Dosso, o dai luoghi di vacanza frequentati dalla famiglia. Scrive don Battista l’8 dicembre 1929: «Ricevo pun- tualmente le vostre lettere e mi fanno sempre piacere. Ve ne ringrazio affettuosamente: esse duplicano la mia vita, facendomi partecipare alle cose di costà, che son sempre care, e, viste con la pietà della Mamma, tutte son buone e confortevoli». Al di là della cronaca, però, si svelano di tanto in tanto nelle lettere momenti di profon- da inquietudine. Il temperamento tormentato di don Battista, davanti alle incertezze della strada che gli si apre man mano davanti, lo fa talvolta scivolare in turbamenti che la fede può sì contenere e spiegare, ma che necessita- no tuttavia di parole di conforto umano: me- glio, di conforto materno. Scrive per esempio Montini ai familiari il 9 maggio 1921, in riferimento all’impegno politi- co del padre e del fratello: «Io sono anche in questa battaglia regolarmente imboscato: che debba essere questo tutta la mia vita?»; gli ri- sponde la mamma il 13 maggio seguente: «E noi… imboscati…, colla nostra corona in ma- no, col cuore un po’ teso, ma fidente… stare- mo in vedetta. Oh, carissimo, non crederti ozioso: la tua parte, quella che il Signore ti ha assegnata è santa come una missione e avrà il suo merito, il suo compenso quanto più tu an- drai accettandola, svolgendola con animo sere- no e generoso. Non tutti debbono compiere lo stesso lavoro e non tutti maneggiare lo stesso strumento: così la Provvidenza ha disposto perché collo svariato e molteplice affaticarsi d’ognuno, si compia l’armonico disegno dell’edificio divino». E ancora, questa volta da Varsavia il 2 set- tembre 1923: «Alcune volte vedo che la mia solita mancanza di forze non mi lascia sperare d’aver mai un’occupazione fissa, organica e si- multanea con quella d’altri, mi prende deside- rio di “ritirarmi a vita privata”; e ci penso nel caso mi richiamassero in Italia. Sono un inet- to, un insufficiente, e per di più impaziente; la mia salute mi avverte che, come la tela di Pe- nelope, la mia vita, umanamente, non può avere alcuna continuità; e mi sembra di vivere nella presunzione d’essere anch’io, come gli altri, atto a qualche lavoro e a qualche impe- gno; così che talvolta si fiacca la molla d’ogni desiderio d’attività. È forse la viltà di chi ha ricevuto un talento solo? Se mai ditemelo sin- carattere, amore di madre, ma anche e soprat- tutto fede, oltre che formazione religiosa e culturale, sono indispensabili per sostenere una conversazione — che è di fatto una con- versazione spirituale — a questi livelli. Giudit- ta dimostra di possedere tali qualità, e con convinzione continua a farle crescere nel corso della sua vita. È ancora l’epistolario a dimo- strarlo (nei riferimenti a letture, alla partecipa- zione alla vita sociale e politica, a frequenta- zioni formative), insieme alle testimonianze biografiche che ne rimangono. Si ritrovano dunque in lei tutte le caratteri- stiche della donna che Montini vedeva pronta al voto e in grado, anche attraverso questo strumento, di giovare alla società. Ed è proba- bilmente pensando a questa ideale figura fem- minile — che non rinuncia a essere sposa e madre ma, grazie alle qualità acquisite con lo studio e la riflessione, riesce ad agire per il be- ne di tutti — che Paolo VI volle un collegio dove le giovani donne, applicandosi agli studi senza trascurare le esigenze dello spirito, po- tessero sviluppare i loro talenti non per carrie- rismo o per quella che oggi diremmo una ri- vendicazione di genere, ma in virtù di una ca- rità intellettuale capace di esprimere il meglio del genio femminile e di spenderlo per gli al- tri. Con il lavoro che facciamo al Santa Cate- rina, interpretando il mutare dei tempi ma senza farci condizionare dalle mode, ci impe- gniamo a non deluderne le attese. *Rettrice del collegio universitario Santa Caterina da Siena (Pavia) di F RANCESCA R OMANA DE ’ A NGELIS U n viso dai lineamenti rego- lari e una rotondità adole- scente, occhi grandi, vellu- tati e uno sguardo appena malin- conico, come se vedesse la vita che aveva davanti. Nel ritratto che resta di lei, Olimpia indossa una veste sontuosa con una gorgiera alla moda spagnola del tempo. A stemperare la rigida preziosità dell’insieme, sui capelli morbida- mente raccolti una delicata accon- ciatura, fatta di piccoli fiori che scendono sul viso quasi a carez- zarlo. È l’Olimpia della prima giovinezza, la fanciulla precoce e talentuosa, entrata a far parte dell’ambiente colto, elegante e fa- stoso della corte estense. Figlia di Fulvio Pellegrino Mo- rato e di Lucrezia Gozi, Olimpia nasce a Ferrara nel 1526. Dal pa- dre, fine letterato e maestro di lati- no, riceve la prima educazione umanistica e attraverso di lui, se- dotto dal pensiero di Erasmo e convinto della necessità di un pro- fondo rinnovamento della Chiesa, si accosta alla dottrina della Rifor- ma. L’ingresso a corte, come com- pagna di studi di Anna d’Este, pri- mogenita di Ercole II duca di Fer- rara e di Renata di Francia, è per la giovane Olimpia una straordina- ria opportunità: maestri eccellenti, una biblioteca ricchissima e contat- ti con tanti uomini di cultura. È un tempo felice fatto di stu- dio appassionato e di molte sco- perte. Olimpia, che ormai si muo- ve disinvolta tra greco e latino, inizia a comporre: poemi, com- menti ad autori classici, traduzioni che nello stile mostrano ancora una certa legnosità scolastica, ma rivelano cultura, sensibilità e una sorprendente forza di analisi. Olimpia scopre di avere talento e non se ne rammarica, come acca- deva allora a tante donne che, de- stinate al “governo della famiglia” o al convento, sentivano l’ingegno non come un dono ma come una condanna. Al contrario rivendica con forza la libertà, pur essendo nata donna, di vivere tra “i prati fioriti delle Muse”. Il fuso, l’ago e il telaio, strumenti simbolo della costretta vita femminile, non eser- citano su di lei alcuna attrattiva. Per Olimpia, che insegue le infini- te voci contenute nei libri, il loro rumore è solo “silenzio”. L’ambiente familiare prima e quello della corte poi favoriscono l’adesione di Olimpia alla Riforma. La duchessa Renata aveva dato vi- ta infatti a un raffinato cenacolo che accoglieva umanisti riformati ed esuli francesi sospettati di ere- sia. Una piccola corte nel cuore della corte estense dove venne ospitato anche Calvino, giunto a Ferrara nel 1536 sotto falso nome. Nel 1548 avviene la svolta. Olimpia lascia la corte per assistere il padre morente e non potrà più farvi ritorno, allontanata insieme ad altri da Ercole, deciso a com- battere quel vento di eresia che mi- nacciava il suo splendido ma fragi- le ducato, feudo dello Stato della Chiesa. Due anni dopo sposa An- dreas Grunthler, un giovane medi- co tedesco che aveva aderito alla Riforma, e per sottrarsi alle perse- cuzioni i due decidono di partire per la Germania. Nell’Europa in- cendiata dalle lotte di religione Olimpia fa della sua vita una testi- monianza. Si dedica allo studio delle Scritture e medita su temi quali la libertà di coscienza, la di- gnità femminile, la forza della fede capace di “vincere il mondo”. Nella nostalgia struggente degli affetti la letteratura si fa scrittura epistolare: ai familiari, alle ami- che, agli umanisti, ai teologi pro- testanti in un dialogo intenso e coinvolgente che celebra insieme l’amore umano e quello divino. Convinta «che ogni terra è pa- tria a chi è forte» affronta con co- raggio le tappe del loro triste esi- lio: Kaufbeuren, Würzburg e infi- ne Schweinfurth dove vivono il lungo assedio della città e si salva- no grazie a una avventurosa fuga. Coperta di stracci e divorata da una febbre ardente Olimpia ap- proda infine nella dotta Heidel- berg. Non possiedono più niente, anche i libri e i manoscritti sono andati perduti, ma i due sono sal- vi. Sembra aprirsi finalmente un periodo di pace: Andreas ottiene una cattedra di medicina all’uni- versità, Olimpia insegna latino e greco e riscrive quanto ricorda delle sue opere perdute. Il male intanto si aggrava. L’ul- tima lettera è per l’umanista Celio Secondo Curione, amato come un secondo padre, il maestro che cre- deva nella tolleranza religiosa e nel valore della conoscenza per arriva- re “dall’ombra delle cose” alle “co- se”. Olimpia muore di tisi il 26 ot- tobre 1555. Aveva appena 29 anni. di S ILVIA G UIDI P erché mettersi un estraneo in casa? Perché investire tempo, affetto, at- tenzione, notti in bianco, discus- sioni interminabili per valutare i pro e i contro, per sostenere la vita di un ragazzino che non sarà mai tuo, che non è biologicamente tuo figlio e magari non farà mai neanche stabilmente parte della tua famiglia? Perché conviene. Perché la vita — dei geni- tori affidatari, dei fratelli, degli amici e dei parenti che vengono coinvolti — diventa più bella, più intensa, piena di sorprese. Perché c’è la fatica e la paura di rimetterci, il dolore del distacco quando arriva la telefonata che comunica la destinazione definitiva del bam- bino, ma «del dolore neanche ci si ricorda, come dopo aver partorito» spiega Grazia, una delle protagoniste di La mia casa è la tua (2010) , docu-film di Emmanuel Exitu sull’associazione Famiglie per l’accoglienza. «C’è un bambino, c’è una vita nuova, ci so- no io, madre un’altra volta. Per ricordarmi il dolore ci devo pensare, è troppo il bello che arriva dopo». Nata come associazione in Italia nel 1982 — e oggi presente anche in Argentina, Brasi- le, Cile, Lituania, Romania, Spagna e Svizze- ra con tremila famiglie associate e più di ot- tocento adozioni e millecinquecento affidi in trentuno anni di storia — accompagna ogni coppia e fornisce un aiuto concreto per pre- parare e sorreggere esperienze di accoglienza che spesso si rivelano più complesse e fatico- se di quanto lo slancio iniziale potesse preve- dere. Questo ha portato anche a progetti con le istituzioni e le scuole per sostenere i mino- ri adottati o in affido con particolari difficol- tà fino alla creazione di strutture protette. moglie Licia — la famiglia nasce da un gesto di accoglienza tra marito e moglie e si apre nell’accoglienza a nuove vite, lega le genera- zioni in un rapporto di gratuità. Vedere per- sone che si implicano totalmente, che metto- no in gioco il luogo più caro che hanno per far compagnia ad altre persone, l’amicizia che ne nasce, tutto questo non potevamo te- nerlo per noi, perché tutta la società ha biso- gno di vedere che l’accoglienza e la gratuità sono esperienze possibili. Noi siamo una compagnia, lo diciamo sempre — ribadisce Mazzi — la nostra è un’amicizia. La famiglia da sola si smarrisce, o comunque rischia di smarrirsi. Anche la famiglia che accoglie. Noi non avremmo fatto questa esperienza se non fossimo stati educati dentro alla tradizione della Chiesa all’esperienza che è il Signore per primo che ha creato l’uomo, e ha messo nell’uomo un bene a volte nascosto, quasi impercettibile, ma presente. Dentro questa storia riverberiamo quello che è accaduto a noi. Non c’è una famiglia “specializzata” in accoglienza, chiunque può accogliere una persona da amare per quello che è; vogliamo sostenere questa apertura permanente. Alcu- ni, sperimentata la positività del gesto in ac- coglienze temporanee, anche di un solo gior- no, si sono resi disponibili ad accoglienze prolungate». È il caso di Jimmy e Silvia Garbujo che hanno trasformato la loro abitazione in una casa-famiglia, Casa San Benedetto. «Oltre ai nostri quattro figli ne abbiamo altri cinque: tre ragazze adolescenti, un ragazzino e una bambina. Casa nostra è molto “trafficata”, abbiamo un tavolo lungo tre metri in cucina, sempre pieno. Nel tempo, ognuno viene fuo- ri con quello che si porta dietro, col dolore che ha, e noi ogni tanto dobbiamo ricordare che stiamo facendo solo un pezzo di strada insieme. Devi aver ben chiaro che non sei tu che gli risolvi la vita, ma sicuramente puoi stare al loro fianco. Insieme si possono guar- dare anche le cose più dure, le situazioni do- lorose vissute con i genitori naturali per esempio». «Chi ha avuto delle storie difficili — conti- nua Licia Mazzi — fatica a sapere chi è, è co- me se fosse sempre un po’ in guerra non si sa bene con chi. Noi possiamo dirgli: “guar- da, riposati!” C’è questa possibilità di depor- re le armi; questa possibilità la sperimentia- mo mangiando insieme, andando a comprare le scarpe, andando a scuola». «Chi accoglie non si considera un eroe — continua Jimmy Garbujo — anzi, scopre i suoi limiti; noi non siamo quelli che salvano questi bambini. Non siamo più bravi degli altri». «Neanche più coraggiosi», aggiunge sua moglie Silvia. Ma sono i gesti più quotidiani, feriali, nor- mali a generare, concretamente, speranza: «da grande posso essere tua figlia?» chiede un giorno Martina, sei anni, alla mamma af- fidataria. «Se tutto, come ad esempio andare a vede- re posti belli insieme — continua Silvia Gar- bujo — è una novità per loro, anche noi sia- mo sollecitati a essere più veri rispetto a noi stessi. Ho sempre avuto il desiderio di non perdermi il gusto del vivere. Sentirci parte di una famiglia più grande per noi è una neces- sità; l’accoglienza ci ha aiutato, ci sta aiutan- do a vivere il meglio della vita, nel senso che non ci fa fermare all’apparenza delle cose. E possiamo dire che sia chi accoglie, sia chi aiuta coloro che accolgono, cresce in umanità e in bellezza». Non solo i bambini hanno bisogno di es- sere accolti, anche i grandi. «Vivere in una compagnia di famiglie, in una casa di carne e non solo di mattoni, in un luogo curato e ac- cogliente, apre la possibilità di un cammino nuovo», spiegano Luca e Laura Orlando rac- contando come è nata Fontanavivace a Ge- nova, grazie alla collaborazione con le suore di Santa Marcellina. «Adesso siamo in venti- quattro; la nostra non è una comune anni Settanta, siamo tre famiglie diverse che han- no deciso di sostenersi condividendo il tem- po libero, l’educazione dei figli e l’apertura a nuove ospitalità: minori in affido, nuclei ge- nitore-bambino in difficoltà — per aiutare le mamme ed evitare, finché si può, di separarle dai figli — ma anche gruppi di giovani, o pa- renti di bambini ricoverati al Gaslini. Si suo- na prima di entrare, anche se i figli giocano tutti insieme. Tutto è iniziato per caso, non da un progetto nostro, come la tradizione del caffè dopo cena per parlare di quello che è successo durante la giornata, o la preghiera insieme, iniziata per chiedere la guarigione di una bimba malata di tumore che poi non ce l’ha fatta; a casa nostra è entrato anche un pezzetto di morte, in mezzo a tanta gioia». «L’ospitalità non è il dare qualcosa ma è il dare tutto, è l’implicazione di tutta la vita» si legge nel sito di Fontanavivace. «Ormai non riuscirei a pensare la mia vita diversamente da così» conclude Luca. «All’inizio — spiega Grazia in La mia casa è la tua raccontando la sua esperienza di affi- do — ho cercato di difendermi. Ma poi mi sono trovata lei che era entrata nel mio cuore e io che ero entrata nel suo». Il romanzo Mamma, ti posso parlare? Ha qualcosa in più, il libro autobiografico di Maria Grazia Proietti Mamma, ti posso parlare? (San Paolo, 2013) rispetto ad altri usciti di recente in cui alcune madri raccontano il loro rapporto con i figli, speciali per qualche forma di disabilità. In questo caso, infatti, Proietti — medico e madre anche di Michele — ci conduce nel suo legame con il secondogenito Matteo, affetto dalla sindrome di Asperger, inserendolo nella quotidianità di una vita personale e familiare allargata. A volte la tentazione è quella di elevare una situazione particolare a unico parametro della narrazione, schiacciando sullo sfondo tutto il resto. Invece Maria Grazia e Matteo si scoprono, si conoscono e crescono insieme tra equilibri domestici, contesti lavorativi e scolastici, amicizie, sorrisi e rabbia, malattie, tutto ciò, insomma, di cui è composta la vita di ognuno di noi. Il risultato è un percorso — ordinario nel senso più profondo, bello e inusuale del termine — in cui non esiste il confine tra chi aiuta e chi è aiutato. Tra chi è forte e chi è debole, tra chi accetta i cambiamenti e le trasformazioni, e chi invece non riesce a metabolizzarli. Tra chi è diverso, e chi no. ( @GiuliGaleotti ) Il film La sposa promessa Shira, figlia di un rabbino della comunità ortodossa di Tel Aviv, vuole sposare un coetaneo. La storia, appena iniziata fra i due, è però interrotta dalla morte per parto di Ester, sorella di Shira. Il cognato Yochai rimane solo col neonato che viene accudito da Shira e dalla nonna. Yochay però pensa di andare in Belgio e di risposarsi: il piccolo sarà allontanato dalla famiglia materna. Solo Shira può cambiare tutto rinunciando al suo progetto e sposando, come suggerisce la madre, il cognato. Shira accetta. Sacrificio? Obbedienza alla comunità chassidica? Debolezza di fronte alla madre? Nella sua scelta c’è tutto questo, ma non solo: scena dopo scena, da possibile imposizione la sua decisione si trasforma in un inedito atto di amore. Amore verso il bimbo, verso il cognato, verso la madre, ma anche verso una tradizione alla quale è legata, e alla religione in cui crede: lo spettatore di La sposa promessa (2012) che si aspettava ribellione o rassegnazione, si trova di fronte a un’obbedienza che, paradossalmente, diventa nuova libertà. La regista Rama Burshtein appartiene alla comunità ortodossa di Tel Aviv. Il suo non è, quindi, uno sguardo critico, ma adesione totale ai valori della comunità, il che rende il film più vero ed emozionante, coinvolgendo anche chi da quel mondo si sente ed è molto lontano. ( @ritannaarmeni ) U NA VIA A P ARIGI PER SUOR S KOBTSOV All’unanimità il consiglio comunale di Parigi ha approvato l’intitolazione di una via del quindicesimo arrondissement alla suora ortodossa Marie Skobtsov. Lo riferisce il quotidiano «la Croix». Nata a Riga l’8 dicembre 1891, durante la seconda guerra mondiale suor Marie fece parte di una rete di resistenti all’occupazione nazista. Arrestata per il suo impegno a favore degli ebrei, fu uccisa il 31 marzo 1945 nel campo di concentramento di Ravensbrück, tristemente famoso anche perché destinato in prevalenza alle donne. Nel 2004 suor Marie è stata canonizzata dalla Chiesa ortodossa. L A FUGA DELLE FAMIGLIE DI H AITI «Il dramma socio-politico di molti Paesi, compreso il nostro, è simile per molti aspetti a quello del Paese di Gesù. Il tragico destino del nostro popolo è segnato da situazioni di grande sofferenza e di conflitto che comportano un pesante impatto sulla vita di ogni haitiano e sull’insieme della nazione, rendendo sempre difficile la nostra convivenza come popolo»: così hanno scritto i vescovi di Haiti nel loro messaggio per il Natale 2013. «Ancora oggi continuiamo a creare situazioni di diffidenza e di esclusione che paralizzano il nostro presente, minacciano il nostro futuro e concorrono ad alienare le nostre relazioni con Dio, con noi stessi, con il prossimo e con l’ambiente». Gli esempi fatti nella nota sono uno specchio fedele della situazione sociale: «l’infinita lotta fratricida per il potere; la mancanza di rispetto per gli altri e per le leggi; la critica negativa e distruttiva; il degrado morale; la cattiva gestione amministrativa e la corruzione; la polarizzazione politica, che causa la paralisi; la crescente intolleranza; il divario sempre più grande tra ricchi e poveri». Come la Sacra Famiglia, anche «molte famiglie haitiane continuano a fuggire rischiando la vita». L AUREA HONORIS CAUSA PER SUOR N YIRUMBE «Suor Nyirumbe aiuta le donne e le ragazze a tessere un nuovo inizio attraverso l’educazione. La sua visione e la sua azione di patrocinio a favore dei più vulnerabili riecheggia profondamente l’eredità di san Vincenzo de’ Paoli». Così il reverendo Dennis H. Holtschneider, preside della DePaul University di Chicago, la più grande università cattolica degli Stati Uniti, ha annunciato il conferimento della laurea honoris causa a suor Rosemary Nyirumbe, religiosa ugandese delle Sisters of the Sacred Heart of Jesus. Da oltre trent’anni suor Rosemary e il suo festoso sorriso aiutano le donne a superare i traumi delle violenze attraverso programmi di alfabetizzazione, di educazione e laboratori. A capo del Centro di sartoria per ragazze Santa Monica, suor Rosemary ha rivisto il programma di insegnamento del suo istituto per rispondere alle crescenti esigenze delle donne, delle ragazze e dei loro bimbi che sono sopravvissuti a rapimenti, stupri e trasferimenti forzati durante decenni di guerra civile in Uganda. Grazie agli sforzi di suor Nyirumbe e al suo programma Sewing Hope, le donne e le ragazze del laboratorio ricevono sostegno psicologico e una formazione scolastica e professionale. Non solo dal 2002 le iscrizioni annuali al laboratorio sono salite da 31 a più di 300, ma soprattutto la maggior parte degli studenti (dopo il diploma) riesce a trovare un lavoro durevole. L A FESTA DELLA M ADONNA DI C AACUPÉ IN P ARAGUAY «La famiglia è il centro e guida la crescita integrale della persona umana: questo devono capire le nostre autorità». Così ha detto nella sua omelia monsignor Claudio Giménez Medina, vescovo di Caacupé, in Paraguay, davanti a migliaia di fedeli che hanno riempito il piazzale della basilica l’8 dicembre, ultimo giorno della festa della Madonna di Caacupé, patrona del Paese. Tutte le autorità nazionali hanno partecipato alla celebrazione, compreso il presidente della repubblica Horacio Cartes. Monsignor Giménez — riferisce l’agenzia Fides — non ha potuto evitare riferimenti alla recente situazione politica e sociale: «Grazie a Dio c’è una indignazione che nasce in vari settori della popolazione, per chiedere giustizia, e che ha dato risultati sorprendenti». Ha poi invitato a indignarsi anche per la violenza in corso. «In Paraguay ci sono mali contro la famiglia che devono essere curati con urgenza, tra cui la corruzione» ha detto Giménez, invitando a ripudiare raccomandazioni e nepotismo. «Trasparenza e onestà non sono parole vuote, ma devono essere vissute da qualsiasi persona coerente» ha aggiunto, esprimendo il profondo rammarico perché il Paraguay continua a essere tra i Paesi più corrotti al mondo. S COMPARSA LA FONDATRICE DI T ELEFONO R OSA Nel 1988, quando di violenza sulle donne (nonostante fosse una piaga già diffusa) non parlava nessuno, Giuliana Dal Pozzo diede vita a Roma a uno sportello temporaneo del comune, il Telefono Rosa, associazione di volontarie per le donne vittime della violenza tra le pareti domestiche e sui luoghi di lavoro. C’erano in una stanza cinque volontarie ad alternarsi nell’ascolto di donne che chiamavano da ogni parte del Paese. Nasceva così una nuova forma di servizio sociale, a cui oggi collaborano decine di volontarie, avvocatesse penaliste e civiliste, psicologhe e mediatrici culturali di diversa nazionalità. Scomparsa a 91 anni, Dal Pozzo era stata nominata nel 2007 Grande Ufficiale della Repubblica dal presidente Giorgio Napolitano proprio per la sua «attività meritoria» in aiuto delle donne vittime di violenza. L E ARTIGIANE AFRICANE Si è svolto a Laayoune, nel deserto magrebino, il Dar Maalma 2013: dal 5 all’11 dicembre, l’evento ha voluto sostenere le artigiane africane, rivelando il ricco patrimonio dei mestieri delle donne del sud del mondo anche al fine di promuoverne l’emancipazione, in una prospettiva di sviluppo sostenibile. L’edizione 2013 è stata una tappa importante di questo percorso socio-culturale e di emancipazione, iniziato nel 2009 e proseguito con eventi annuali, che confluirà nell’Expo 2015 di Milano. B IMBI COLOMBIANI A Pasadena, in Colombia, esiste un istituto dove i bambini possono rinascere. Nato per tutelare i bimbi più vulnerabili del Paese, la Asociación Hogar Niños por un Nuevo Planeta assiste in particolare i piccoli e gli adolescenti vittime di maltrattamenti e di violenze sessuali. Attualmente sono ospiti trecento bambini. Nel corso degli anni sono stati organizzati tre programmi. Uno, denominato Nenufar (purezza del cuore), è dedicato ai piccoli vittime di abusi sessuali. Il secondo, Flor de Loto, è invece rivolto a quanti sono stati sfruttati sessualmente per la prostituzione infantile, e intende far recuperare loro la voglia di vivere. Il terzo, Ni-nanas, è infine un programma per le madri vittime di violenza sessuale. Grazie a questa struttura, bambini e adolescenti non solo trovano un luogo dove poter vivere, ma hanno la possibilità di studiare. La violenza sessuale è un fenomeno a catena — si calcola che il 30 per cento dei bimbi vittime di violenze si trasformino a loro volta in aggressori — e in Colombia ogni trenta minuti, vengono violentati 19 minori. La fondazione sta ora costruendo una nuova sede di oltre diecimila metri quadrati a Sopó: sarà la più grande struttura colombiana per i bambini e le bambine vittime di violenza, e una delle più grandi dell’America latina. S ANTA T ERESA PARLA ALL ’A SIA Il Carmelo del futuro è chiamato a offrire strumenti che corrispondano alla sete di Dio che c’è oggi in Asia. La spiritualità carmelitana ha possibilità immense per rispondere a questa sete e per condurre le persone ad approfondire la loro relazione con Dio: è quanto emerso dal congresso «Santa Teresa parla all’Asia», organizzato dai carmelitani scalzi dell’India in preparazione per il quinto centenario della nascita della santa. Tenutosi a Bangalore, vi hanno partecipato oltre cinquecento delegati carmelitani provenienti da diverse parti del mondo. Tutte le comunità di vita apostolica e contemplativa, i religiosi e i laici carmelitani — si è affermato a conclusione dei lavori — dovrebbero impegnarsi nel compito di «vivere un’esperienza spirituale evangelica e profonda». A partire da questa esperienza, nella condivisione, nell’accoglienza e nella creazione di centri e istituti di spiritualità, «il Carmelo del futuro potrà prestare un servizio qualificato alla Chiesa in Asia». Nel vasto continente asiatico i religiosi carmelitani sono chiamati «a impegnarsi in un dialogo aperto con le grandi religioni non cristiane, soprattutto nel campo della spiritualità». Per raggiungere tale scopo — concludono i carmelitani indiani — bisognerà cercare nuove forme di preghiera, di vita interiore e di comunità più consone alla mentalità orientale. Il saggio Héroines de Dieu L’Ottocento è stato il secolo in cui la vitalità e il coraggio delle religiose sono esplosi offrendo al mondo numerosi esempi di dedizione straordinaria al messaggio cristiano. Ma queste vite, in gran parte, sono oggi dimenticate: meritorio quindi il bel libro di Agnes Brot e Guillemette de La Borie, Héroines de Dieu. L’epopée des réligieuses missionaires au XIX e siècle (Presses de la Renaissance, 2011) che ricostruisce i profili di otto missionarie francesi andate fino «ai confini del mondo» per evangelizzare, correndo pericoli e affrontando grandi difficoltà, ma anche facendo esperienze interessanti e usufruendo di una libertà d’azione che le donne laiche dell’epoca non si sognavano neppure di raggiungere. Fra gli indiani d’America, in Africa, in Oceania e Nuova Zelanda, in Terrasanta e in Cina, in Brasile: niente poteva fermare il loro ardore missionario e il loro coraggio! Esse costituiscono senza dubbio un tassello dimenticato della storia dell’emancipazione femminile. ( @lucescaraffia ) Si ritrovano in lei le caratteristiche della donna che Montini vedeva pronta al voto e in grado di giovare alla società «Staremo in vedetta Oh, carissimo, non crederti ozioso Non tutti debbono compiere lo stesso lavoro e non tutti maneggiare lo stesso strumento» Giuditta Alghisi con i suoi figli in una fotografia del 1906 (Giovanni Battista è il primo a sinistra) Storia di Olimpia Ogni terra è patria a chi è forte Fuso, ago e telaio: per lei che insegue le infinite voci dei libri il loro rumore è nulla Da grande posso essere vostra figlia? Inchiesta sull’associazione Famiglie per l’accoglienza che si occupa di bambini in affidamento Occorre avere ben chiaro che non sei tu a risolvergli la vita Eppure insieme si possono guardare anche le cose più dure come i dolori vissuti con i genitori naturali «Sentirci parte di una famiglia più grande ci aiuta a vivere il meglio della vita Senza fermarci all’apparenza delle cose» ceramente (…) e m’insegnate poi praticamente quello che di bene io possa e debba fare». La risposta della mamma è del 9 settembre: «La tua ultima lettera ci lasciava intravedere nell’animo tuo il ritorno di quei momenti grigi che sono causa od effetto di un po’ di malesse- re, di stanchezza… Noi li conosciamo bene e sappiamo anche come sieno fuggevoli… Così speriamo, avrai presto superato la crisi e la fi- ducia, la serenità saranno tornate nel tuo cuore, le tue forze avranno ripreso lena e vigore. Il Si- gnore che vuole il sacrificio e ce ne darà il compenso, permette spesso che noi ne sentia- mo tutto il peso e l’amarezza. Allora si fa oscu- ro intorno a noi, la via ci appare difficile e il nostro passo diventa incerto, pesante il nostro lavoro come fosse superiore alle nostre forze, inutile nel suo fine… Come io conosco questi momenti in cui tutto perde il colore della spe- ranza!... Ma allora sai cosa faccio? Cerco di av- vicinarmi al Signore, malgrado la mia miseria che mi opprime e… penso a te! A te che lo preghi per me, che ne sei il Ministro, che lo servi sotto il suo ordine diretto e… mi pare d’aver un po’ diritto alla sua pietà… L’ora fo- sca passa così, presto, e sento per il Signore, per te, una nuova, cordiale riconoscenza. Sur- sum corda , dunque, tutto!». La fede profonda di Giuditta Alghisi non si lascia abbattere; la robusta figura materna uni- sce autorevolezza e amore, energia e compas- sione: quello che ci vuole per dare ancora più forza a una vocazione inequivocabile e insie- me difficile come quella del figlio. Qualità di Perché investire tempo, affetto, soldi notti in bianco e discussioni per sostenere la vita di un ragazzino che non farà mai stabilmente parte della tua famiglia? Più recente è l’esperienza di accompagna- mento nella cura dei disabili e degli anziani in seno al nucleo familiare. Solo in Italia ogni anno sono in agenda circa cinquecento eventi tra promozione e sensibilizzazione, formazione e mutuo aiuto. Questa capacità di “fare rete” è oggi un elemento considerato importante anche dagli enti che regolamentano adozioni e affidi: ser- vizi sociali e tribunali dei minori sanno bene infatti che le famiglie devono essere prepara- te e seguite in queste scelte così importanti e delicate. Quando si tocca il mondo dell’affi- do si affollano molte domande, paure e spe- ranze: è possibile avere due mamme, una di nascita e una di cuore? Perché andarsi a cer- care dei figli in difficoltà? È una predisposi- zione particolare a un altruismo eroico o un’esigenza normale, presente in tutti? I rapporti di affido sono a termine nella stragrande maggioranza dei casi: il rapporto che si crea scompare o è per sempre? Se ogni legame genitoriale autentico è per sempre, come insegna l’esperienza, è vero anche il contrario; la maternità e la paternità rivelano tutto il loro potenziale affettivo e generativo anche quando vengono tradite, come nel ne- gativo di una fotografia. «Noi riconosciamo che l’accoglienza è la dimensione costitutiva della famiglia — spie- ga Marco Mazzi tracciando l’identikit dell’as- sociazione di cui è presidente insieme alla Juliana Bollini, «Papai é meu!» (2011)
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