donne chiesa mondo - n. 17 - novembre 2013

women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne chiesa mondo women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne chiesa mondo women L’OSSERVATORE ROMANO novembre 2013 numero 17 Inserto mensile a cura di R ITANNA A RMENI e L UCETTA S CARAFFIA , in redazione G IULIA G ALEOTTI www.osservatoreromano.va - per abbonamenti: ufficiodiffusione@ossrom.va donne chiesa mondo women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne chiesa mondo women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne chiesa mondo Noi prigioniere in Sierra Leone Tra violenze terribili, nel 1995 sette religiose furono rinchiuse con giovani, adulti e bambini in un campo di detenzione di R ITANNA A RMENI S uor Rita e suor Carla ogni settima- na si recano all’istituto penale ma- schile di Rebibbia, a Roma. La do- menica ascoltano la messa con i de- tenuti. Alcuni dopo si avvicinano e chiedono di parlare con loro. Altri li cono- scono da tempo e anche con loro trovano il tempo per qualche parola. Quegli uomini so- no in prigione da anni e hanno ancora molto tempo da trascorrere in carcere. Hanno un passato cupo, un presente triste, un futuro buio, ma con quella richiesta mostrano che qualcosa in loro non si è definitivamente rot- to. Il desiderio di comunicare, di farsi ascol- tare è rimasto. Suor Lucia è infermiera e si reca invece nel reparto dell’ospedale Sandro Pertini, sempre a Roma, dove ci sono i detenuti malati. Suor Rita a Rebibbia ci va da dieci anni. Da dieci anni ascolta le loro storie e i loro drammi. «Tutti — mi racconta all’uscita da una delle sue visite — hanno qualcosa dentro tare, i detenuti hanno desiderio e bisogno di parlare. Ma perché proprio con le suore? Perché i detenuti spesso preferiscono parlare con loro piuttosto che con altri? Nelle carceri, anche in quelle dell’inadeguato sistema penitenzia- rio italiano, ci sono i medici, gli psicologi, gli assistenti sociali, eppure — è constatato — si parla più volentieri con le suore. Suor Carla ne è pienamente consapevole: «Sanno bene che noi non possiamo far nien- te per loro dal punto di vista pratico, ma sanno anche che non abbiamo alcun secondo fine se non l’ascolto. Per questo ci accolgono volentieri». E — aggiunge suor Rita — «capi- scono che siamo lì per loro, solo per loro e ce lo dicono. Ci tengono a precisare che quello che dicono a noi ad altri non lo direb- bero». Così l’accoglienza diventa reciproca e spontanea. Il conforto conosce le vie semplici della parola, della comprensione, dell’atten- che vogliono tirare fuori, che vogliono rac- contare. Sono storie terribili che spesso non si sanno neppure spiegare. Uno di loro in carcere per omicidio ancora non sa chiarire neppure a se stesso perché un giorno ha uc- ciso un uomo e poi lo ha fatto a pezzi e ha nascosto ogni pezzo in un luogo diverso. Continua a ripetere: “perché? perché?”». Lei non sembra sconvolta da narrazioni così drammatiche, le sue parole sono calme, che devo andare lì, fra di loro, che hanno bi- sogno di me. Nel reparto dove viene ricove- rato chi ha problemi psichiatrici qualcuno lo ha detto esplicitamente: “Non voglio lo psi- chiatra, voglio la suora”. E un altro mi ha pregato: “Suora, non mi abbandoni”. Io non faccio domande, li ascolto, ma so che così li posso aiutare». Ricorda suor Carla che un giorno, dopo la messa, un detenuto le si è avvicinato per chiederle se poteva ancora dire il Padre no- stro. «Perché no? Che dubbi hai?» le ha chiesto la religiosa. «Perché non sono dispo- sto a perdonare» le ha risposto il detenuto. Lui aveva ammazzato l’uomo che aveva vio- lentato e ucciso sua moglie. Era in carcere per quel delitto, stava scontando una dura pena, sapeva di aver fatto una cosa orribile ma, nonostante questo, non era disponibile al perdono, non aveva intenzione di «rimet- tere» alcun debito e in quella preghiera, si sa, lo si dice chiaramente. Suor Carla ha ascoltato e capito. Chi le parlava non era ancora pronto al pentimento e al perdono, i tempi dovevano essere più lunghi, il percorso era più difficile. «Puoi dirlo il Padre nostro — gli ha risposto — con quella preghiera chiedi a Dio di aiutarti a fa- re quello che finora non hai fatto. Chiedi che ti dia la forza che non hai. È lo stesso valida e importante». Su suor Rita, suor Carla e suor Lucia in quelle ore che trascorrono in carcere si river- sano tutti i dolori e i dubbi e anche le incer- tezze del futuro di coloro che in quell’istituto di pena sono costretti a stare per anni. Anche le paure di chi all’apparenza è un privilegiato perché in qualche modo ha cer- cato di pareggiare i suoi conti con la giusti- zia. Suor Rita ha conosciuto molti che si so- no pentiti, che sono diventati collaboratori di giustizia che forse, in seguito a questo, po- trebbero avere un futuro migliore. «Ma an- che per loro — mi spiega — i giorni che ver- ranno sono bui. Devono cambiare tutto: fac- cia, abitudini, Paese e poi, dopo alcuni anni in cui hanno l’aiuto dello Stato, comunque sono di nuovo soli. Devono pensare intera- mente alla loro vita, al loro lavoro, ai loro af- fetti. Hanno paura e alle suore lo confessa- no». Dopo aver parlato con le tre religiose che si recano a Rebibbia mi sono chiesta se il la- voro delle suore nelle carceri è coordinato e diretto da qualcuno, se ci sono dei numeri, dei dati sulla loro presenza negli istituti di pena, se la loro capacità di ascolto è cono- sciuta e apprezzata. Ho appreso da Virgilio Balducchi, ispetto- re capo dei cappellani carcerari italiani, che i numeri sono incerti, che solo in questi ultimi tempi si sta tentando un censimento, che per questo si è messo in contatto con l’Unione superiore maggiori d’Italia per costruire in- sieme progetti e proposte. Per ora, da un pri- mo parziale censimento, si può dire che le suore che vanno negli istituti di pena sono circa duecento, tutte volontarie, perché dal 1975 è finito per legge il loro ruolo di vigila- trici. Rimane la domanda su che cosa spinge questo gruppo di religiose che probabilmente fra di loro non si conoscono, che non sono coordinate da alcun organismo superiore, al- la loro missione nelle carceri. «C’è qualcosa che mi spinge, qualcosa di molto forte — cerca di spiegare suor Lucia — e anche se ci metto ben due ore per arrivare a Rebibbia o all’ospedale Pertini, non salto un giorno di visita. Mi accorgo che le mie preghiere sono sempre rivolte a loro. Ho ca- pito che non potevo abbandonarli per nessu- na ragione fin dalla mia prima visita in un istituto di pena. Ricordo che il giorno dopo aver visto per la prima volta un carcere mi sono recata per una cerimonia a San Pietro e tutto il tempo ho pensato solo a quei malati, a quei detenuti. Sono scoppiata a piangere per il loro dolore, la loro miseria». La loro miseria. Le religiose, malgrado la loro consuetudine al carcere, ne sono sempre colpite. «Fin dal primo giorno — racconta suor Carla — mi è stato chiaro che erano i poveri che pagavano più di tutti, erano loro che non avevano un lavoro, che non avevano una famiglia, che spesso non sapevano nep- pure leggere e scrivere a finire poi in carcere. Alcuni volevano fare la cresima, io davo loro qualcosa da leggere per prepararsi e vergo- gnandosi mi chiedevano se potevo farlo io... Loro non erano capaci». Di fronte a questa solitudine, a questo ab- bandono, a questa inimmaginabile povertà la parola delle religiose appare la sola ricchezza, la sola attenzione, il solo dono che chi è in galera riesce ad avere. Per questo i detenuti non smettono di cer- carle e loro non smettono di andare a trovar- li. Anche se solo per un saluto, una preghie- ra insieme e la promessa: «Ci rivediamo fra qualche giorno». Il romanzo Il corpo docile Milena è nata in carcere e lì è rimasta fino a tre anni quando, come prevede la legge, è uscita, andando a vivere con il padre. La mamma invece è rimasta in cella a scontare la pena. Tutta la vita di Milena è segnata da quell’esperienza e da quel distacco. Le hanno detto che in carcere ci stanno i cattivi e lei all’asilo cerca di diventarlo per poter tornare dalla mamma. Da grande ogni sabato, attraverso un’associazione, tornerà a Rebibbia a prendere i bimbi che vivono lì con le madri per portarli a conoscere il mondo. Il libro di Rosella Postorino Il corpo docile (Einaudi, 2013) racconta la segregazione che rende i corpi di chi la subisce inermi e obbedienti. «Decidono loro quando e quanto dobbiamo mangiare quando e quanto dobbiamo dormire, quando e quanto dobbiamo parlare. Si chiama civiltà. Una pena senza dolore». Una pena ancora più grande e tremenda perché, sempre loro decidono quando e quanto un bimbo deve restare in quel dolore e in quella pena e quando deve andarsene (obbligatoriamente a tre anni) separandosi dalla mamma con cui è vissuto in simbiosi. Il corpo docile non è un saggio di sociologia o un pamphlet sulle condizioni carcerarie: è un bel romanzo, intenso, pieno di dolore e di affanno, in cui si dipana la vita di una donna che è stata bambina in carcere e che da quel carcere non sa più liberarsi. Milena continua a sentire una colpa e un dolore; la strada per guarire è ancora lunga. Sono circa sessanta i bimbi che vivono oggi nelle prigioni italiane con le loro mamme. Il numero, che sembra basso, non può occultare la grandezza e la profondità del dolore e dell’ingiustizia. Postorino ha il gran merito di raccontarcelo in tutta la sua verità. ( @ritannaarmeni ) Il film Dead man walking Dead man walking (1995) narra l’incontro tra suor Helen Prejean (Susan Sarandon) e Matthew Poncelet (Sean Penn): a pochi giorni dall’esecuzione, l’uomo — razzista, violento, stupratore e omicida — sceglie la religiosa come guida spirituale. Tratto (con qualche variazione) dall’omonimo romanzo autobiografico di suor Helen Prejean, la pellicola di Tim Robbins ha al centro un incontro difficilissimo. Specie per la donna, che si vedrà attaccata da tutti per la sua scelta di vicinanza con un individuo così negativo. Dead man walking è un film contro la pena di morte, contro un sistema che salva i ricchi e condanna i poveri, contro l’odio che corrode. Ma è, soprattutto, la storia di un ascolto reciproco. «Gesù era un uomo pericoloso» dice durante uno dei loro incontri suor Helen a Poncelet, che ribatte «Cosa vi è di pericoloso nell’amare il proprio fratello?». Il pericolo sta nella forza travolgente dell’amore, capace di cambiare radicalmente le cose, risponde lei. E a soli quindici minuti dall’iniezione letale, la religiosa saprà di non aver amato invano. ( @GiuliGaleotti) S UOR M AŁGORZATA E LE DONNE NELLA C HIESA Suor Małgorzata Chmielewska, interpellata dal settimanale di Cracovia «Tygodnik Powszechny» sulle parole di Papa Francesco riguardo al ruolo delle donne nella Chiesa pronunciate nel corso dell’intervista alla «Civiltà cattolica», ha dichiarato che la Chiesa al maschile può funzionare come istituzione, ma non come comunità: «Dio infatti ha creato l’uomo e la donna, e il mondo diviso o privo di una delle due parti è incompleto. Non si tratta di scambiare i compiti: non vedo differenza di valore — ha detto la religiosa, superiora della Comunità Pane della Vita — tra il ministero di un vescovo e l’assistenza ai bimbi disabili. Il primo è un compito maschile, il secondo più spesso femminile. Il problema consiste nel fatto che la voce delle persone che assistono i bimbi (e si tratta solo di un esempio) nella vita della Chiesa non si sente. Non è presente nel suo insegnamento e nella sua vita quotidiana. Sembrerebbe che l’esperienza della fede dei milioni di donne abbia nella Chiesa un significato minore. Forse per questo motivo il linguaggio della predicazione spesso appare menomato, staccato dal quotidiano, forgiato nelle istituzioni accademiche da uomini lontani dalla realtà. Così quando arriva dall’Argentina un Papa che lava i piedi di una ragazza si ha una sorta di shock. Perché? Un po’ provocatoriamente, direi che le donne, occupate come sono di cose concrete, non hanno né tempo né voglia di combattere per avere più spazio. Il Papa non invita a lottare, ma invece a costruire un modello di relazioni tra fratelli e sorelle, relazioni non corporative in questa strana corporazione dove dirigenti sono solo uomini. Il problema non è il sacerdozio femminile, il mio sogno non è di diventare vescovo: vorrei soltanto che l’esperienza delle mie sorelle che vivono la fede fosse considerata una ricchezza della Chiesa. Gesù era circondato da donne, apprezzava la loro fede e il loro impegno, invitava a seguire il loro esempio. Penso, non senza malizia, che abbia scelto gli apostoli tra gli uomini perché sapeva che se avesse chiamato le donne, i bimbi sarebbero rimasti senza pranzo, nelle case avrebbe regnato il disordine e gli uomini, invece di darsi da fare, si sarebbero messi a dibattere su politica e religione. Le parole del Papa sono un invito a cercare non solo la riconciliazione tra i sessi, ma anche la loro unione nel servizio a Cristo». L’ ELEZIONE DI A NTJE J ACKELÉN Il 15 ottobre scorso Antje Jackelén, vescovo della diocesi luterana svedese di Lund (intervistata per noi da Ulla Gudmundson nel numero di maggio 2013), è stata eletta arcivescovo della Chiesa svedese. Ha ottenuto il 55 per cento dei voti. E SSERE BAMBINE IN C OLOMBIA Si è svolto in ottobre a Bogotá il congresso «Le bambine al centro», celebrato all’interno della campagna «Essere una bambina», promossa dalla ong Plan International, che opera in cinquanta Paesi in via di sviluppo impegnandosi nella tutela dei diritti dell’infanzia. Nel corso dei lavori un gruppo di adolescenti ha fatto esplicita richiesta di avere le stesse opportunità dei bambini, oltre al rispetto in qualità di esseri umani e alla tutela da parte dello Stato. Le cifre presentate hanno rivelato le condizioni di violenza e abuso in cui vivono migliaia di bambine colombiane. Carenze sanitarie e nutrizionali, enorme mole di lavoro domestico, salute precaria e violenze subite nell’ambito familiare: sono questi gli ostacoli che le piccole incontrano nel loro cammino verso l’istruzione. Secondo i dati ufficiali, su 100 bimbe che iniziano a istruirsi, 77 riescono a portare a termine la scuola primaria e solo 22 l’intero ciclo. D IECI ANNI DALL ’ OMICIDIO DI A NNALENA T ONELLI Sono passati dieci anni dall’uccisione di Annalena Tonelli, la volontaria italiana che per oltre tre decenni ha assistito le popolazioni somale colpite dalla tubercolosi. Annalena venne uccisa da due uomini armati la sera del 5 ottobre 2003 nella struttura sanitaria da lei diretta e fondata a Borama, nel nord della Somalia. Nel giugno dello stesso anno le era stato conferito il Premio Nansen per i Rifugiati, assegnato ogni anno dall’Alto Commissariato per le Nazioni Unite (Unhcr) a chi si distingue nel servizio ai rifugiati. «Sono partita per l’Africa decisa a gridare il Vangelo con la vita, sulla scia di Charles de Foucauld», ripeteva spesso Annalena. A Borama l’ospedale e la scuola per bambini sordi da lei fondati continuano a operare, come riporta il documentario realizzato per l’occasione dall’Unhcr che è stato di recente proiettato a Nairobi. D UEMILA BIMBI BOLIVIANI IN CARCERE CON LE MADRI Per mancanza di alternativa, sarebbero circa duemila i bambini boliviani costretti a vivere in carcere con le madri detenute. Preoccupato dal fenomeno, reso ancora più drammatico a causa dei maltrattamenti e delle violenze che i piccoli subiscono nelle prigioni, il Governo sta correndo ai ripari. Il primo passo è stato l’avvio del trasferimento altrove degli ultraundicenni. La speranza è di liberare la maggior parte dei bimbi entro fine anno. P RIMA VITTORIA PER LE D ONNE DEL M URO Dal lontano 1988 (come ha raccontato Anna Foa su «donne chiesa mondo» dello scorso aprile) a Gerusalemme le Donne del Muro rivendicano il diritto di pregare ad alta voce, come gli uomini, al Muro del Pianto. Ebbene, grazie alla mediazione di Natan Sharansky (presidente dell’Agenzia ebraica), d’ora in poi anche le donne potranno farlo come gli uomini (con scialle, copricapo e filatteri) e potranno leggere pubblicamente la Torah. Le donne, però, hanno dovuto accettare di ritirarsi dalla loro postazione nel settore femminile, pregando a una decina di metri di distanza dal muro. La prima vittoria è dunque un compromesso. Ma è ugualmente un passo avanti storico. L’I NDIA NON FIRMA CONTRO LE SPOSE BAMBINE L’India, che detiene il record mondiale di spose bambine con 24 milioni di matrimoni (circa il quaranta per cento del totale nel globo), si è rifiutata di firmare la prima risoluzione globale contro le nozze forzate, premature e tra bambini, promossa dalle Nazioni Unite. La risoluzione è sostenuta da 107 Paesi, compresi quelli in cui le nozze tra minori sono legali come Etiopia, Sudan, Sierra Leone, Ciad, Guatemala, Honduras e Yemen. M ADRE L AURA DOTTORE DELLA C HIESA ? Laura Montoya (1874-1949), la prima santa colombiana, potrebbe ricevere il più importante titolo che la Chiesa cattolica conferisce dopo la santità. In occasione del sessantaquattresimo anniversario della morte di madre Laura, canonizzata lo scorso 12 maggio da Papa Francesco, infatti, «El Tiempo» ha rivelato che il caso sarà presentato a breve alla Congregazione delle Cause dei Santi. Se la richiesta venisse accolta, madre Laura entrerebbe a far parte del ristretto gruppo di dottori della Chiesa cattolica (34 santi), andando ad affiancare Teresa d’Avila, Caterina da Siena, Teresa di Lisieux e Ildegarda di Bingen. «È possibile che madre Laura diventi dottore. Oltre a essere stata un grande pastore della Chiesa, è stata una grande intellettuale», ha affermato il gesuita Carlos Novoa, docente della Pontificia Universidad Javeriana. Padre Novoa ha poi ricordato che, mentre svolgeva la sua opera missionaria tra gli indios, la religiosa si distinse come scrittrice. Pubblicò infatti più di trenta libri, tra i quali l’autobiografia, considerata un gioiello prezioso della letteratura religiosa e mistica. «Ma, oltre a ciò, sarebbe una conferma della lotta che madre Laura condusse contro la discriminazione delle donne. Sarebbe un grande contributo a un Paese maschilista come la Colombia», ha aggiunto il gesuita, il quale ha ricordato che madre Laura Montoya dovette lottare duramente contro la Chiesa e la società per portare avanti la sua opera evangelizzatrice e sociale tra gli indios, in un’epoca in cui alla donna veniva proibito quasi tutto. La Santa Sede impiegherà più o meno cinque anni per studiare i testi e le proposte evangelizzatrici della santa colombiana, soprattutto sul ruolo della donna nella Chiesa. Il saggio Il buio dietro di me Nel 1993 in Arkansas, Jason Baldwin, Jessie Misskelley e Damien Echols vengono arrestati con l’accusa di aver ucciso tre bambini. Nell’isteria collettiva, tra false testimonianze e prove inesistenti, Baldwin e Misskelley sono condannati all’ergastolo, Echols alla pena di morte. Ci vorranno poco meno di vent’anni perché la loro totale innocenza sia riconosciuta. Nel libro Il buio dietro di me (Einaudi, 2013) Damien Echols racconta in prima persona la sua vita e la follia di quei diciotto anni di carcere da innocente. A salvarlo, due donne. Lorri, conosciuta e sposata durante la detenzione, anima e corpo del movimento di opinione pubblica che chiese la revisione del processo. E, soprattutto, la nonna: sono i ricordi dell’infanzia passata accanto a lei, il calore e gli insegnamenti da ella ricevuti che hanno permesso a questo giovane uomo di non impazzire. ( @GiuliGaleotti ) I guerriglieri non venivano da noi alla ricerca di cose Venivano a cercare la nostra povertà amata e abitata da Dio E vi trovavano uno spazio di riposo All’improvviso il carcere diventò per me una reggia Dal diario di Perpetua e Felicita, martirizzate a Cartagine il 7 marzo 203 Perché voglio la suora Inchiesta sulla presenza delle religiose nel carcere romano di Rebibbia I detenuti hanno un passato cupo un presente triste e un futuro buio Ma con quella richiesta mostrano che qualcosa in loro non si è definitivamente rotto Tutti hanno qualcosa dentro che vogliono tirare fuori e raccontare Sono storie terribili che spesso non si sanno neppure spiegare di T ERESA B ELLO * R elazione accessibile ad altri, farsi spazio abitato da Dio dove altri possano entrare. Farsi spazio. Questa categoria che mi ritorna alla mente mi riporta di colpo nel 1995, indietro di diciotto anni, all’esperienza della prigionia in Sierra Leone, più esattamen- te nel campo militare, dove noi sette sorelle fummo condotte dai ribelli dopo il nostro se- questro. Centinaia i civili catturati come noi, di pun- to in bianco, dalle loro case. Soprattutto gio- vani e bambini, ma non mancavano gli adulti. Anche noi come loro, senza nulla di nostro, in tutto dipendenti dai guerriglieri e testimoni di una violenza assurda, inflitta del tutto gra- tuitamente su una popolazione innocente e ignara. Tutti esposti all’insicurezza per la pro- pria vita. Giovani e bambini obbligati ad ad- destrarsi per essere guerriglieri. Tentativi di fuga. Catture ed esecuzioni. L’orrore che ho sentito a volte fino alle ossa per quel che succedeva, la consapevolezza del- la mia piccolezza e impotenza in quel nonsen- so assoluto e insieme la verità della preghiera che poteva anche lì metterci in relazione con Dio. È lì, che per la prima volta ho vissuto la missione nella sua essenzialità. Urgenza di ve- rità, bisogno di vita, ricerca di Dio. Era questo grido che io avvertivo dai miei fratelli guerriglieri e dalle loro vittime. Nel braccio che colpiva e nella vittima che subiva i colpi risuonava il silenzio di Dio. Ma il mira- colo è che quel silenzio non è stato un silen- zio muto, ma di rivelazione. Una scena a cui sono tornata tante volte durante questi anni sempre cercando di capire come ha potuto quel silenzio svelarmi la pre- senza. Non so ancora dirlo. Ma è stata quella presenza che mi ha salvato, portandomi attra- verso quei giorni senza che il male mi toccasse in profondità. È questa presenza che i guerriglieri veniva- no a cercare facendo sosta nell’angolo del campo militare dove eravamo confinate ed è qui che per la prima volta ho avvertito la mis- sione come un grembo che accoglie e nutre la vita, non per sua capacità ma per la presenza che lo abita. Ci fu dato per grazia, e in particolare in certi momenti, di essere spazio di accoglienza ove quei nostri fratelli in preda a una violenza armati, si lasciavano scappare espressioni co- me: sono confuso... benedicimi! Odiano senza ragione... voglio anch’io quel segno... (la croce sulla nostra fronte, quel mercoledì delle cene- ri), vengo a stare un po’ con voi... insegnami a pregare... Che grazia incredibile la missione! Davvero un tesoro in vasi d’argilla, proprio come lo spazio nel quale noi stesse ci ritrovia- mo grazie al dono del Figlio, uno spazio abi- tato da Dio e accessibile ai fratelli, dove l’in- contro può avvenire non grazie alla nostra santità, sempre lontana, ma grazie alla santità di Dio che nella sua onnipotenza misericor- diosa sa usare strumenti poveri e deboli, vasi d’argilla, appunto, per raggiungere i suoi figli. Come donna mi piace pensarmi così, atten- ta a quelle possibilità di vita a volte appena percettibili, come le visite dei guerriglieri, le domande del tassista e mille altre occasioni quotidiane per accoglierle nello spazio vitale della mia relazione con Dio sapendo che la grazia saprà fecondarle e farle crescere. Non ci sarà sempre dato di vedere lo svolgersi di que- sta crescita che rimane un mistero, ma sappia- mo che avviene certamente, e allora proseguia- mo il nostro cammino con la speranza che ci dà la nostra fede, vale a dire una speranza che è già garanzia di vita piena perché porta la fir- ma di Dio. Voglia il Signore renderci sempre più Chie- sa, casa abitata da lui dove altri possono en- trare perché avvenga l’incontro. *Missionaria di Maria, saveriana P roprio in quell’intervallo di po- chi giorni fummo battezzati, e a me lo Spirito suggerì di non chiedere all’acqua null’altro se non la forza di resistere nella carne. Dopo pochi giorni siamo rinchiusi in carce- re, e mi spaventai perché mai avevo sperimentato tali tenebre. Oh giorno terribile! Caldo soffo- cante provocato dall’affollamento, estorsioni da parte dei soldati. E infi- ne mi struggevo di preoccupazione per il mio bambino, lì. Allora Terzio e Pomponio, i diaconi benedetti che ci assistevano, pagando una mancia, ci ottennero di essere tra- sferiti per poche ore in una parte mi- gliore del carcere, dove potevamo tro- vare ristoro. Allora, uscendo dal carcere (sotter- raneo) tutti avevano modo di pensare a sé: io allattavo il bambino ormai stremato dall’inedia; preoccupata com’ero per lui, parlavo con mia ma- dre, facevo coraggio a mio fratello, raccomandavo mio figlio. Mi tormen- tavo proprio perché li vedevo tormen- tarsi a causa mia. Sopportai tali preoccupazioni per molti giorni e ottenni che il bambino rimanesse con me in carcere; e subito si riprese e fui sollevata dalla pena e dalla preoccupazione per il bambino, e il carcere diventò per me all’improv- viso una reggia, tanto che preferivo essere lì piuttosto che in qualsiasi al- tro luogo. (...) Il giorno prima del combattimento vedo questo in visione. Il diacono Pomponio era venuto alla porta del carcere e bussava con forza. E uscii incontro a lui e gli aprii: era vestito di una tunica bianca senza cin- tura e aveva sandali intrecciati. E mi disse: «Perpetua, ti aspettia- mo: vieni». E mi prese per mano e cominciammo a camminare per luoghi aspri e tortuosi. A stento e trafelati giungemmo fi- nalmente all’anfiteatro e mi condusse in mezzo all’arena. E mi disse: «Non aver paura: sono qui con te e lotto con te». E se ne andò. E vedo un’immensa folla in muta attesa; e poiché sapevo di essere stata condannata alle fiere mi stupivo che per me non si facessero uscire le fiere. E uscì contro di me un Egizio di orribile aspetto con i suoi aiutanti, per combattere con me. Anche verso di me vengono giovani di bell’aspetto miei aiutanti e sostenitori. E fui spogliata e fui fatta maschio. E i miei aiutanti presero a strofinarmi con olio, come si usa nella lotta: per contro vedo quell’Egizio rotolarsi nel- la polvere. E uscì un uomo di straordinaria grandezza, che superava perfino la sommità dell’anfiteatro: era vestito di una tunica senza cintura, con in mez- zo al petto una striscia di porpora fra due chiodi e aveva sandali dall’intrec- cio complicato d’oro e d’argento; e portava una verga come un lanista e un ramo verde con mele d’oro. E chiese silenzio e disse: «Questo Egizio, se vincerà costei, la ucciderà con la spada; e, se sarà lei a vincere lui, riceverà questo ramo». E si ritirò. E ci avvicinammo l’uno all’altra e incominciammo a scambiarci i primi colpi: lui voleva afferrarmi i piedi, ma io gli colpivo il volto con i calci. E fui sollevata in aria e presi a col- pirlo come chi non tocca terra. E co- me avvertii un attimo di pausa, giunsi le mani in modo da intrecciare le dita e gli afferrai il capo, ed egli cadde faccia a terra; e gli calcai il capo. E la folla cominciò ad acclamare e i miei sostenitori a cantare salmi. E mi avvicinai al lanista e ricevetti il ramo. E mi baciò e mi disse: «Figlia, la pace sia con te». E mi avviai in trion- fo alla porta Sanavivaria. E mi svegliai, e compresi che non con le fiere, ma contro il diavolo avrei combattuto; ma sapevo che mia era la vittoria. Questo è ciò che ho fatto fino al giorno precedente il combattimento; quanto poi allo svolgimento del com- battimento, altri lo descriva, se vorrà. (...) Quanto a Felicita, il Signore con- cesse anche a lei una grazia di tal ge- nere. Poiché era già all’ottavo mese di gravidanza (infatti era stata arrestata incinta), all’avvicinarsi del giorno del- lo spettacolo era in grande pena, nel timore che (il martirio) venisse rinvia- to per la gravidanza (non è lecito in- fatti che le gestanti siano condotte al supplizio) e di dover versare il pro- prio sangue santo e innocente più tar- di fra altri criminali. Ma anche i compagni di martirio erano profondamente addolorati alla prospettiva di lasciare sola sulla via della medesima speranza una compa- gna così valida, che aveva percorso quasi tutto il viaggio con loro. Pertanto rivolsero la preghiera al Signore unendo i loro gemiti concordi due giorni prima del combattimento. Subito dopo la preghiera la colsero le doglie. E poiché si lamentava sof- frendo per le naturali difficoltà di un parto di otto mesi, uno degli inser- vienti del carcere le disse: «Se ora ti lamenti così, cosa farai quando sarai esposta alle fiere, che pure hai di- sprezzato quando ti sei rifiutata di sa- crificare?». Ed ella rispose: «Ora sono io a sof- frire ciò che soffro; là invece ci sarà in me un altro che soffrirà per me per- ché anch’io soffrirò per lui». Così partorì una bambina che una sorella allevò come una figlia propria. assurda, potevano ogni tanto accedere e ripo- sare un momento. Quel venire dei guerriglieri non era dettato dalla ricerca di cose: anche noi, per una volta, non avevamo nulla di nostro, neppure da mangiare. Non venivano alla ricerca di cose dunque, ma venivano a cercare la nostra po- vertà amata e abitata da Dio. E vi trovavano uno spazio di riposo. È la meraviglia della missione. È questa l’immagine più cara che ancora mi porto nel cuore, dopo tanti anni. In quel loro venire, la nostra sensibilità di donne ci permetteva di in- tuire bisogni non detti e ricerche non dichiara- te, ma qualche volta il loro cuore era troppo pieno di violenza fatta e subita, e allora, sedu- ti per terra, nella loro tenuta di soldati sempre intrise di pietà. «Hanno bisogno di qualcuno che li ascolti, che ascolti il loro disagio, che comprenda la difficoltà della loro vita». E spesso il disagio, il dolore non riguarda solo il passato, le colpe commesse, ma anche per la loro vita presente, così come si svolge nelle carceri. Quando una suora si avvicina a un dete- nuto non sa nulla di lui. In genere si è recata in quell’istituto di pena spontaneamente, spinta dal desiderio di ascoltare ed è stata ammessa dopo un accordo con la direzione. La relazione fra lei e il detenuto si svolge quindi senza alcuna formalità, senza alcuna direttiva. Le suore sono disponibili ad ascol- zione, della possibilità di esprimere i dubbi, tutti i dubbi, anche quelli che nessun altro capirebbe. Loro, è evidente, in quella vita di sofferenza continuano a cercare una madre, una donna che rimane al loro fianco qualun- que cosa abbiano fatto. Racconta suor Carla che spesso i detenuti con cui parla alla fine le fanno delle promes- se. «Sorella — le dicono — io cercherò di fare tutto quello che lei mi dice perché lei per me è come la mia mamma». Suor Lucia passa fra le celle dell’ospedale e si sente salutare. «Buon giorno mamma», le dicono. Lei si fer- ma per scambiare due parole. «Non faccio grandi cose — mi racconta — ma ho capito Perpetua è una giovane catecumena, arrestata nel 203 nell’Africa proconsolare, probabilmente a Thiburbo Minus, e poi processata e giustiziata a Cartagine. Di nobile origine e con una buona istruzione — scriverà lei stessa il diario della pri- gionia — ha ventidue anni e un figlio lattante. La sua famiglia d’origine, che si dispera per la cattura, è pagana, tranne uno dei fratelli, e il padre cerca in tutti i modi di farla recedere dalla sua dichiarazione di fede. Accanto a lei è prigioniera Felicita, di umile origine, forse sua schiava, che partorisce dietro le sbarre. Quan- do il padre sottrae a Perpetua il bambino, che lei custodiva in carcere, lei accetta perché vede anche lì la mano di Dio: «Come Dio volle non desiderò più il seno». Prima del supplizio Perpetua ha una visione, densa di richiami biblici, e ottiene dai secondini un ultimo pasto collettivo dei catecumeni, che diventa un’agape. La passione di Felicita è uno dei primi testi scritti da mano femminile, con passione, dignità e coraggio. Ne riportiamo alcuni stralci tratti da «“E fui fatta maschio”. la donna nel cristianesimo primitivo (secoli I - III )» di Clementina Mazzucco (Ca- sa Editrice Le Lettere, 1989) Santa Perpetua (Cappella arcivescovile, mosaico del V secolo, Ravenna) Santa Felicita (Cappella arcivescovile, mosaico del V secolo, Ravenna)

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