donne chiesa mondo - n. 9 - febbraio 2013

donne chiesa mondo women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne Le donne della Via Crucis di Cerveno Così autenticamente amiche La Via Crucis di Cerveno, nella media Valle Camonica (Brescia), si configura come un Sacro Monte al chiuso, da percorrere sostando da- vanti a quattordici cappelle disposte lungo una Scala Santa. Entro l’ambientazione affrescata delle cappelle si svolgono gli episodi della Passione, interpretati da quasi duecento statue lignee a grandezza na- turale e da personaggi in rilievo e dipinti. Le sculture, realizzate tra il 1752 e il 1783 (meno la XIV , del 1869), sono opera di Beniamino Si- moni (tranne le stazioni VIII - X di Francesco Donato e Grazioso Fan- toni). Nelle cappelle, Simoni ha allestito scene di grande sintesi espressiva, attribuendo ai personaggi tipologie e gesti ispirati ai fedeli- contadini. Gli abitanti di Cerveno, con cadenza decennale, ridanno vita alla Via Crucis scolpita: una Passione vivente che si snoda per le vie del paese. Nel maggio 2012 l’ultima edizione. di V IRTUS M ARIA Z ALLOT L e donne della Via Crucis di Cerveno sono belle: belle di bontà. Gli uomini sono invece volgari e tozzi, con tratti grossolani e ottusi: poveri cristi contro un Cristo intensa- mente bello e mite. Solo Lui e Giovanni sono esenti infatti dalla bruttezza e brutalità maschile. Proprio sul contrasto tra la vitale concretezza dei carnefici e la presunta «incertezza e inesistenza sculturale» del Cristo, Giovan- ni Testori fondava la sua interpretazione critica (1976), rilevando inoltre «accanto all’inesistenza del Cristo, l’inesistenza delle don- Bakhita, teologa dell’umiltà La santa del mese raccontata da Mariapia Bonanate B akhita mi stava cercando da tempo sulle strade che percor- riamo insieme. Quelle della schiavitù che ancora esiste, di un’Africa con tante ferite aper- te e dimenticate, ma anche di un conti- nente che sta cambiando velocemente e che tanto ci può dare. Finalmente ci sia- mo incontrate. La richiesta di parlare di lei, scomparsa il 7 febbraio 1947 a Schio, ha favorito un incontro ravvicinato che mi ha fatto scoprire quanto era presente, sen- za che io lo sapessi, nella mia vita. Quan- to la sua storia fosse profetica e attuale. È quella di migliaia e migliaia di schiave dei suoi tempi, ma è anche delle vittime della tratta degli esseri umani, praticata oggi dalla criminalità organizzata per il com- mercio della prostituzione. Di quei milioni di donne, nella sola Europa cinquecento- mila ogni anno — che vengono prelevate con l’inganno e falsi miraggi — per essere ridotte in una schiavitù. Bakhita, oltre essere “fortunata” (questo il significato del suo nome), era anche predestinata. Lo testimoniano le pagine del piccolo, ma intenso Diario che dettò nel 1910 a una consorella «per desiderio della Reverenda Madre superiora» della congregazione delle Figlie della Carità di Maddalena di Canossa, di cui entrò a fare parte il 7 dicembre 1873. Nata nel 1869 nel villaggio di Olgossa, nel Dafur (Sudan), aveva otto anni, quan- do fu rapita. Venduta e rivenduta sui mer- cati di El Obeid e di Khartoum, fu prima comperata da un ricco arabo e poi da un generale turco. Scudisciate quotidiane ri- dussero spesso il suo tenero corpo a un’unica piaga, dolorosissimi tatuaggi la portarono in fin di vita, i seni le furono martoriati da una crudele gratuita violen- za. Eppure nel racconto, dettato dalla “suora moretta”, non c’è mai un accenno di vendetta o di odio per il martirio che subì. Mentre affiora di continuo una forza che ha qualcosa di soprannaturale. Che le dà il coraggio di non arrendersi anche nel- le situazioni più estreme. Bakhita, nella prima parte della sua esi- stenza, non sa chi è Dio, ma Lui la salva miracolosamente più volte. Le fa incontra- re il console italiano, residente a Khar- toum, Callisto Legnani, al quale viene venduta e dal quale ottiene di essere por- tata in Italia, dove è ceduta alla famiglia di un facoltoso commerciante che vive a Mirano, in provincia di Venezia. Da quel momento, inizia a percorrere quel sentiero luminoso che le farà incontrare Cristo, “el vero Paron”, come lei lo chiamava nel dia- letto veneto, l’unica lingua che praticava. Illuminato Cecchini, uomo di grande fede e battagliero difensore dei poveri, le regala un giorno un piccolo crocifisso d’argento e le spiega che quello è Gesù, Figlio di Dio, morto anche per lei. Folgo- rata, Bakhita scrive sul suo Diario : «Ricor- davo che, vedendo il sole, le stelle, le bel- lezze della natura, dicevo tra me: “Chi è mai il padrone di queste belle cose?”. E provavo una voglia grande di vederlo, di conoscerlo, di prestargli omaggio. E ora lo conosco. Grazie, grazie mio Dio». Un “Paron” così diverso da quelli che ha avuto. Non solo l’ama, ma ha dato la propria vita per salvarla. È una rivelazione che accoglie senza margini di esclusione e di dubbio. Che riempie totalmente la sua esistenza e la trasforma in una creatura di luce e di amore, sempre disponibile con gentilezza e discrezione, affettuosa parteci- pazione, ad aiutare chi si rivolge a lei. La sua vita diventa un colloquio permanente con quel “Paron” e, quando l’ultima pa- drona vorrebbe riportarla con sé a Khar- toum, con un gesto coraggioso e sofferto, rifiuta di seguirla. Lei che ha sempre ob- bedito senza mai alzare la testa, senza mai lamentarsi, neppure quando la flagellava- no, compie l’unico grande e decisivo atto di ribellione della sua vita. Combatte e ot- tiene di rimanere presso la congregazione delle canossiane, a Venezia, perché vuole consacrarsi a quel Dio che ha conosciuto da poco, ma che da sempre le era accanto. «Bakhita è la dimostrazione che il cristia- nesimo può trasformare degli schiavi, cioè uomini che hanno perduto il senso della propria persona, in persone capaci di una forza inaspettata. È la certezza che attra- verso Cristo l’uomo può passare da uno stato di emarginazione a uno di eterna di- gnità, grandezza e libertà. E questo vale non solo per l’Africa, ma per tutto il mon- do. L’azione di promozione umana del cristianesimo attraverso personaggi come Bakhita è enorme anche se spesso nemme- no rilevata. Un ruolo fondamentale so- prattutto per la promozione e la dignità della donna. Nessuno ha fatto per la don- na quello che ha fatto il cristianesimo e Bakhita lo testimonia» ha scritto don Di- vo Barsotti. La strada verso la santità di Bakhita è un percorso alla portata di tutti. Si intrec- cia con la quotidianità più nascosta, di- screta, spoglia di privilegi e di qualsiasi potere e possesso, ricca di piccoli gesti concreti, di dedizione gratuita all’altro. A costellare questo cammino ci sono tanti miracoli che ha fatto da viva e dal cielo. Ma il miracolo più grande è la silenziosa, nascosta fedeltà, l’abbandono totale, la grandezza umana e spirituale raggiunta da questa sconosciuta “teologa dell’umiltà” che, con le mani vuote, ha saputo trasfor- mare la sofferenza in un canto di amore e di gioia. Di speranza. Mariapia Bonanate è condirettrice de «il nostro tempo», collabora con settimanali, fra cui «Famiglia Cristiana» dove tiene una rubrica di “buone notizie”. Ha viaggiato per incontrare nei vari continenti le testimonianze di un Vangelo radicato nella vita quotidiana. Fra i suoi libri, Invito alla lettura di Mario Pomilio (1977); Suore (1990), ripubblicato e ampliato con Suore vent’anni dopo (2000), dal quale Dino Risi ha tratto il film Missione d’amore ; Il Vangelo secondo una donna (1996); Preti (1999); Donne che cambiano il mondo (2004); Io sono qui (2012). Il vero miracolo è la grandezza umana e spirituale Che con le mani vuote ha trasformato la sofferenza in canto di speranza ne; anzi, più orrenda- mente, della donna». Nelle quasi duecen- to statue lignee a gran- dezza naturale che po- polano le cappelle del- la settecentesca Via Crucis, cui si aggiun- gono i personaggi in stucco o dipinti che af- fiorano dalle pareti, la donna non solo esiste, ma pone e propone un’alternativa. Mentre le donne so- no sinceramente afflitte, gli uomini hanno gesti duri e induriti, la cui violenza sembra tanto più gratuita e bestiale quanto più mite e pa- ziente risulta Colui che la subisce. Di tale vio- lenza si compiace una folla maschile curiosa, morbosa o indifferente; solo qualcuno, sospeso in un (raro) momento di dubbio o riflessione, sembra dissentire ma passivamente accetta. Le donne hanno gesti di gratuita accoglienza: gli uomini gesti fun- zionali e meccanici, oppure distaccati. Le donne dialogano, som- messe e tristi, con bocche appena dischiuse; gli uomini hanno ghi- gni o labbra impassibilmente serrate. Le donne conoscono tutte le sfumature del dolore: Giovanni, l’unico uomo che soffre con il Cristo, è chiuso nel proprio. Gli uomini insultano anche con gli occhi, le donne hanno occhi compassionevoli, e Cristo solo a loro restituisce lo sguardo. Nel racconto evangelico della salita al Calvario, Cristo esce dal silenzio soltanto per rivolgere loro l’invito a non piangere. Nella VIII stazione sono talmente vive da aver sospeso il pianto per rea- gire, con stupita incomprensione se non contrarietà, alle dure pa- role successive: «Beate le sterili e i ventri che non hanno generato e i seni che non hanno nutrito» ( Luca , 23, 29). La più preoccupata sembra proprio una mamma con il figlio in braccio. Le donne che, insieme a Maria, «avevano seguito Gesù dalla Galilea, servendo- lo» ( Matteo , 27, 55) e che accompagnano la Veronica sono invece dolcissime e affrante. Ciò che colpisce non è tuttavia la loro since- ra partecipazione alla sofferenza di Gesù, cui la tradizione e l’ico- nografia ci hanno abituato. Stupisce piuttosto la loro solidarietà, l’attenzione reciproca che sembra non abitare l’animo maschile. Gli uomini sono soli e fisicamente autonomi; le donne intersecano sguardi e gesti, esprimendo non solo la compassione (la partecipa- zione alla passione) verso Gesù, ma la compassione per la compas- sione altrui. Ripetutamente poggiano la mano sulla spalla della compagna, a incoraggiarla; quando Maria sembra svenire la vicina non solo la regge, ma teneramente l’abbraccia. Ma il gesto più commovente collega le mani di due delle donne che assistono alla Deposizione: l’una trattiene dolcemente quelle della compagna che nervosamente si torce il polso. Solo un atteggiamento pregiudiziale può negare l’intensa uma- nità che lo scultore Simoni ha loro assegnato. Creando figure so- lide e necessarie, belle e mai leziose, espressive e mai eccessive: vicine a Cristo uomo e all’uomo. E, reciprocamente, amiche.

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