donne chiesa mondo - n. 7 - dicembre 2012

donne chiesa mondo women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne Il cuore dell’assassino di G IULIA G ALEOTTI «Y ou’re my son, and I’m glad you came»: aprire le por- te della propria casa, baciare, fare sedere a tavola con la propria famiglia, mangiare con lui. Com’è umana- mente possibile accogliere nella vita e nel cuore l’assassino della propria figlia? Abbracciare le mani macchiate del suo sangue? È il mistero del perdono — radicale, potente e silenzioso — il centro del bellissimo film The Heart of a Murderer (che esce a gennaio) girato in India dalla regista italo-australiana Catherine McGilvray. In un’ora, la pellicola racconta la storia di Samundar Singh, il giovane fanatico indù che nel 1995, a ventidue anni, uc- cise suor Rani Maria, missionaria francescana originaria del Ke- rala. Accoltellatala per 54 volte, la abbandonò sul ciglio della strada. Una morte lenta, lentissima nella solitudine più completa: «Tu, Gesù, almeno avevi tua madre e i tuoi amici più cari ai pie- di della Croce — sono i primi pensie- ri di suor Selmy Paul, la sorella di Rani, appena avuta notizia dell’omici- dio — Mia sorella invece è morta sen- za nessuno attor- no». Arrestato e con- dannato all’ergasto- lo, Samundar viene perdonato dalla fa- miglia di Rani, che non solo chiede (e ottiene) per lui la grazia, ma che arri- va ad accoglierlo come un figlio e come un fratello. Tra i narratori principali del film, lo stesso Samundar, che ricorda i fatti mentre, dal suo vil- laggio del nord dell’India, sta an- dando in treno a trovare la famiglia di Rani Maria, che vive nel Kerala. È il viaggio del suo risveglio spirituale, del passaggio da giovane imbevuto di odio e ignoran- za a uomo libero nell’amore. Quasi parlando a se stesso, Samun- dar è timido e per certi versi incredulo mentre espone il perdono incondizionato e inatteso, manifestato da chi è stato irreparabil- mente colpito dal suo gesto assassino. È affascinante notare il linguaggio che Samundar utilizza nel presentare la sua dolorosa storia: come la regista spiega a «donne chiesa mondo», è stato lui stesso a scegliere di raccontare, più che attraverso le parole, mimando nuovamente quei terribili gesti, interpretando se stesso. «È il modo indiano di raccontare — continua McGilvray — e ho accettato ben volentieri questa “contaminazione” culturale, nella speranza che rappresentasse un passo ulteriore verso il tentativo di cogliere lo spirito autentico di questa incredibile vicenda». Ma il film parla anche attraverso la voce della sorella e della madre di Rani, due donne accomunate dall’amore e dal dolore, dal pianto e dalla pace. Sono presenze che restano profondamen- te impresse per la serenità emanata dai loro volti e dai loro gesti. Nessuna esaltazione o esagerazione in loro: solo la forza feconda del perdono capace di accogliere nel profondo. La madre, in par- ticolare, arriva a comprendere il senso della morte di sua figlia, dopo che, inizialmente, non ne aveva condiviso nemmeno la scel- ta religiosa. La quarta voce narrante è infine quella di Swami Sa- danand, il sacerdote con la vocazione del pacificatore («laddove c’è un conflitto, io vado e mi propongo»), il primo a essere an- dato a trovare Samundar Singh in carcere, diventandone poi la guida, il padre spirituale. Senza alcuna retorica né gusto del macabro, senza strumenta- lizzare i fatti o enfatizzarne i protagonisti, il film di Catherine McGilvray narra — con rispetto, poesia e forza insieme — una storia paradigmatica, capace di elevarsi, nel suo profondo e uni- versale significato, al di là del contingente. La vicenda, ci racconta McGilvray, le venne incontro nel 2009: da allora il suo desiderio è stato quello di riuscire a trovare la chiave per capire e quindi per raccontare, la sorprendente rispo- sta della madre e della sorella di Rani Maria all’orrore che hanno dovuto affrontare. «Sono andata in India — spiega la regista — volendomi affidare del tutto a questa storia». Il messaggio è dirompente. Il perdono può veramente trasfor- mare l’odio in amore. Nel corso del film, Samundar Singh rac- conta, pacatamente e senza alcuna esaltazione, il radicale e pro- gressivo cammino della sua conversione, dalla disperazione («nessuno mi può perdonare. Nemmeno Dio») alla rinascita. Oggi quest’uomo è una persona consapevole, vero testimone del- la grandezza potente e vitale dell’immenso dono che ha ricevuto. Francesca della ipermodernità La santa del mese raccontata da Franco La Cecla P robabilmente la modernità non fa parte delle motivazioni deter- minanti la santità di un cristia- no. Eppure nel caso di madre Cabrini è proprio la sua moder- nità, o addirittura ipermodernità a render- la un personaggio che diventa sempre più attuale e quindi sempre più vicino all’esperienza dell’umanità oggi. Forse è per questo che questa santa è così poco conosciuta in Italia e così tanto conosciuta in America. Per altro, per com- pletare il quadro, madre Cabrini è stato il primo cittadino americano a essere procla- mato santo. Oggi per parlare della sua esperienza e del suo percorso occorrerebbe usare parole come “transnazionalità”, “identità ibride”, “identità in diaspora”. In un mondo sem- pre più globalizzato, una condizione spes- so inevitabile per centinaia di milioni di persone costrette a lasciare il proprio luo- go di origine, sono intervenute però delle nuove occasioni che hanno reso questa esperienza qualcosa di completamente di- verso dal passato. Oggi gli emigranti, gli emigrati, ma an- che le generazioni di seconda e terza emi- grazione grazie anche alla maggiore facili- tà degli spostamenti vivono una condizio- ne sospesa — e non sempre in maniera do- lorosa — tra due mondi, quello d’origine e di appartenenza culturale, linguistica, reli- giosa, e quella di arrivo in un paese di ac- coglienza. Madre Cabrini intuì in anni di assoluta indigenza per gli emigrati italiani in Nord America e poi nel mondo che un atteggia- mento nostalgico o al contrario una ade- sione acritica al mondo di arrivo non ren- devano la verità dell’esperienza umana dell’emigrazione. Era difficile davvero ai suoi tempi non cadere nella tentazione del ripiegamento delle identità in diaspora su se stesse: ran- cori, difficoltà, povertà, durezza di vita potevano dare all’emigrato italiano l’idea che fosse meglio chiudersi in un passato che si portava nel cuore. Tentazione che a distanza di un secolo è la prima di ogni identità in diaspora. Oggi che i media, televisioni satellitari anzitutto, ma anche le comunicazioni più facili, i voli low cost , lo consentono è pos- sibile vivere in un Paese e lavorarci conti- nuando a considerarsi stranieri a esso. La tentazione identitaria, quella che attribui- sce il male a tutto ciò che è esterno alla propria origine, è probabilmente alla radi- ce di molti fondamentalismi. La diaspora islamica, ma anche hindu o ortodossa in genere cristiana rischia sempre di conce- pirsi come reazione al mondo nuovo, co- me rifiuto delle sue tentazioni e condanna tout-court della modernità che esso rap- presenta. Il velo, ma anche l’attaccamento alle tradizioni come se fossero solo uno strumento di difesa dall’esterno hanno molto a che fare con una presunta supe- riorità del proprio passato interiore. Spesso alle categorie culturali della dif- ferenza si sostituiscono le categorie tem- porali del passato contrapposto al presen- te. È incredibile che una donna cattolica, cristiana abbia capito questo così presto e ne abbia fatto una metodologia di integra- zione. E anche qui bisogna capirsi. Perché madre Cabrini non ha mai esaltato l’Ame- rica come American dream , ne ha sempre avuto una idea molto chiara e realistica. L’America non era né meglio né peggio dell’Italia della fine del secolo XIX e dell’inizio del XX . Era forse meno ipocrita di quanto fosse l’Italia con i suoi emigran- ti, di cui cullava la retorica, ma di cui sfruttava appieno le rimesse in valuta pre- giata. Però l’atteggiamento cabriniano nei confronti della globalizzazione si basava su un approccio pragmatico: inutile pian- gersi addosso e fare le vittime della mo- dernità. Si trattava invece di acquisire gli strumenti per farne parte a pieno titolo: la lingua inglese prima di tutto, ma soprat- tutto la comprensione delle categorie cul- turali del mondo in cui ci si trovava a vi- vere. Cosa dava a madre Cabrini quella mar- cia in più da farne una santa della iper- modernità? Probabilmente la mancanza di pregiudizi, l’apertura al mondo, la curiosi- tà del nuovo, tutte qualità di un cosmopo- litismo vero. Era una forma connaturata a una formazione cristiana, una inevitabile conseguenza di un universalismo? Non saprei: di sicuro era una grande capacità di relativizzare le cose, di relati- vizzare le culture e i loro “valori”. C’era in questo un coraggio di esplorazione che poi riverberava nella ricchezza con cui madre Cabrini viveva il viaggio. Questo non era per lei un magnifico diversivo, ma proprio una esperienza fondamentale della relatività e della comunanza tuttavia di problemi, umanità, speranze. Sarebbe bello se oggi madre Cabrini ve- nisse proclamata patrona della globalizza- zione e, perché no, della capacità di essere finalmente cittadini del mondo e non solo di una sua parte. Franco La Cecla (1956) ha insegnato antropologia culturale in varie università, tra cui Bologna, Palermo, Venezia, Verona, l’università Vita- Salute San Raffaele, l’università della California a Berkeley, l’École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi, l’Universidad Politécnica de Barcelona, l’École polytechnique fédérale de Lausanne. Tra le sue pubblicazioni, Mente Locale, un’antropologia dell’abitare (Eleuthera 2011), Perdersi (Laterza 2010), Il Malinteso (Laterza 2009), Contro l’Architettura (Bollati Boringhieri 2009). Ha vinto il Festival del cinema di San Francisco con il documentario In altro mare (2010). Una delle rare foto giovanili di Francesca Cabrini Sarebbe bello se fosse proclamata patrona della capacità di essere cittadini del mondo Samundar Singh con la madre di Rani Maria, Eliswa Paily Samundar con Swami Sadanand

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