donne chiesa mondo - n. 7 - dicembre 2012

L’OSSERVATORE ROMANO dicembre 2012 numero 7 Sua madre confrontava tutte queste cose nel suo cuore donne chiesa mondo La libertà del perdono Dio, il prossimo e se stessi. Se c’è una cosa di cui abbiamo tutti assolutamente bisogno nel cammino quotidiano, è il perdono. Il perdono di Dio, il perdono del prossimo, il perdono di noi stessi. Sonno ristoratore, miele rigenerante: quando il perdono e il suo desiderio sono autentici, immensi sono gli effetti su chi lo chiede e su chi lo dà. Domandarlo non è facile. Come scrive Paul Auster, chiedere perdono è «una prova di delicato equilibrio tra la durezza dell’orgoglio e lo strazio del rimorso» ( Follie di Brooklyn ). E non è facile anche perché, un passo prima, è complicato capire di averne bisogno. L’autoassoluzione — so che mi sono comportata male, ma avevo le mie buone ragioni e in fondo non è colpa mia — è, forse, una delle tentazioni più attuali. Abbiamo perso il senso del confronto, la capacità di vedere il male fatto, di assumerci le nostre responsabilità. Assolvendoci di continuo, ancorandoci alla superficie dell’errore commesso, restiamo nell’infantilismo. Invece è ciò che v’è dietro il male fatto quel che avrebbe veramente bisogno di essere guardato e convertito. Ma il perdono salva anche chi lo dà. Per non soccombere sotto i colpi del dolore e dell’ingiustizia. Se l’odio — comprensibile e terribilmente umano — diventa una corazza lenitiva nell’immediato, goccia dopo goccia però si trasforma in un veleno capace di corroderci. Di trascinare via, come implacabile torrente, la nostra umanità. Solo il perdono ci restituisce la libertà e, con la libertà, la vita. Deve molto al cristianesimo, il perdono. Nella civiltà greca, dinnanzi al torto del carnefice, l’imperativo interiore era la vendetta. E se è vero che già un’evoluzione vi era stata (superando la legge del taglione, si era passati dalla vendetta privata a quella gestita dalla polis), il passo decisivo però ancora mancava. Così, nella sofferta decisione dell’Oreste di Euripide, il secondogenito di Agamennone non vorrebbe, ma sa che la vendetta è il suo dovere di figlio maschio. E non si sottrae. Ma poi, in una stalla, un altro Figlio è venuto al mondo, rispondendo a una chiamata di ben altra natura. È al perdono nelle sue declinazioni cristiane di ieri e di oggi che dedichiamo questo numero del nostro inserto. Perché di perdono, si nasce. E di perdono, si vive. ( g.g. ) Restituire un’anima ai carnefici La storia di Maïti Girtanner, la donna che abbracciò il suo persecutore di S YLVIE B ARNAY L a testimonianza di Maïti Girtanner è centrata sull’orrore che non si può raccontare. Negli anni 1939-1945 questo orrore è consistito nel distrug- gere l’uomo e nello spezzare la resistenza civile quando questa si è mostrata in gra- do di resistere. «Laddove si fa violenza all’uomo — scrive Primo Levi in I sommersi e i salvati — la si fa anche alla lingua». La negazione del senso delle parole è in effetti al centro stesso del processo di di- struzione della persona umana messo in atto dal sistema nazista: distruzione del linguaggio, distruzione del suo significato, distruzione dell’uomo fatto a immagine di Dio. Davanti alla parola volutamente ri- dotta al nulla, la forza di quella giovanis- sima donna che era nel 1943 Maïti Girtan- ner è di proclamarla viva. Il suo verbo è anche quello che si è incarnato in lei fin dall’infanzia: il Verbo di Dio del cristiane- simo. È questo stesso Verbo che lei parla ai suoi compagni di sventura nell’autunno del 1943, quando viene arrestata dalla Gestapo e quando tutti si preparano a morire: un Verbo che proclama la vita più forte della morte. È questo Verbo che la ispira quando, nel 1984, incontra l’uomo che è stato un tempo il suo aguzzino, che ha appena bussato alla sua porta, contro ogni aspettativa, quarant’anni dopo, chie- dendole di parlare della morte. Colpito da un tumore, l’ex nazista sa in effetti che la sua morte è inevitabile e ne ha paura dal momento che i medici gli hanno annunciato che gli restano solo sei mesi di vita. Nel 1940 Maïti ha diciott’anni. Ha allo- ra davanti a sé una carriera di pianista fuori dal comune. Nata in una famiglia di apprezzati musicisti, aveva dato il suo pri- mo concerto all’età di nove anni: «Già da bambina sapevo che la mia via era traccia- ta: sarei stata pianista, la musica sarebbe stata la mia vita» ( Même les bourreaux ont une âme , Paris, CLD Ėditions, 2006, p. 29). La tradizione familiare ha sempre alimen- tato la convinzione del necessario rispetto tra i popoli. La famiglia, cattolica, aveva molti amici, fra i quali alcuni tedeschi. Anche quando il nemico da abbattere diviene la Germania nazista, la futura par- tigiana non sbaglia il bersaglio: si tratta di resistere all’invasore, non si tratta di detestare i “crucchi”. «La mia fede cristiana m’invitava a rivolgere a ogni uo- mo non lo sguardo degli altri, ma lo sguardo che Dio stesso gli rivolgeva», dirà (p. 37). Quest’ampiezza di vedute la carat- terizza fin dall’infanzia e non l’abbando- nerà mai, neanche nei giorni dell’inferno. La giovane donna non decide di parte- cipare alla Resistenza. Sono le circostanze che fanno nascere in lei il bisogno di re- stare in piedi di fronte al male. La casa di famiglia, luogo di gioiose fughe estive per la liceale che per il resto dell’anno abitava a Saint-Germain-en-Laye, si trova sul limi- tare della linea di demarcazione fissata su- bito dopo l’armistizio firmato nel paese di Bones, vicino Poitiers, quando l’arrivo dei tedeschi il 22 giugno 1940 ha avuto come conseguenza la divisione del paese in due, da una parte e dall’altra del ponte. Da un lato la parte libera, dall’altro la zona occu- pata. Da quel momento l’edificio assume una posizione strategica visto che il suo giardino fiancheggia il ponte; è l’ultima casa prima della zona libera, nel punto dell’unico attraversamento possibile del fiume Vienne. I tedeschi vogliono occuparne una parte. Così il primo atto di resistenza di Maïti Girtanner è di segnare il proprio territorio con la parola: «No, sono svizzera, qui non si entra» (p. 60). La giovane donna, che usa la sua nazionalità svizzera per ostentare una neu- tralità di principio, parla correntemente il tedesco. La lingua è la sua forza, il mezzo per creare un legame da pari a pari con gli oc- cupanti, i quali vi vedono anche un mezzo per semplificare la comunicazione con la popolazione locale. La lingua le permette di guadagnare rapidamente terreno, inta- volando abili trattative con i tedeschi. Il colpo recato dalla creazione lampo della linea di demarcazione, linea resa in poche ore quasi invalicabile, esigeva di trovare rapide soluzioni. In maniera molto empiri- ca, le azioni di Maïti Girtanner corrispon- devano alle sue parole. Le occorreva vali- care ciò che i tedeschi avevano reso invali- cabile, al fine di fare fronte prima di tutto ai bisogni più urgenti: approvvigionare il paese, trasmettere le notizie, trovare solu- zioni volta per volta, svolgendo il ruolo d’interprete o di intermediaria. L’aria da ragazzina della giovane dai lunghi capelli ricci non desta sospetti: la sua giovane età è garanzia d’innocenza e il suo fluente te- desco garanzia di fiducia. A poco a poco Maïti Girtanner funge da “cassetta posta- le” per la Resistenza entrata in contatto con lei. Fa passare messaggi, denaro e do- cumenti. Nell’estate del 1941 sono due uo- mini — due ufficiali francesi — a contattar- la per chiederle di superare la linea. Con astuzia e abilità, in fondo a un rimorchio o a una barca, farà così passare più di un centinaio di persone nella zona libera, fra le quali alcuni bambini ebrei. La natura- lezza sarà la sua strategia. Nel febbraio 1943, quando la linea di demarcazione viene ufficialmente soppres- sa, Maïti Girtanner si trasferisce a Parigi, a villa Molitor. Qui diviene istitutrice di due bambine della famiglia de Beaumont, mentre le sue attività nelle file della Resi- stenza subiscono un’altra svolta. Una di questa attività consiste nell’occuparsi della vita nascosta dei maestri di musica di ori- gine ebraica a cui viene vietato l’insegna- mento dopo il voto delle leggi di Vichy; un’altra nel fornire falsi documenti a chi ne ha bisogno; un’altra ancora nell’aiutare a mettere in piedi l’esercito di liberazione francese, e così via. Attraverso la rete del Conservatorio di Parigi, la giovane decide di utilizzare anche il suo talento di musici- sta già rinomata. Invitata a suonare da- vanti ad alcuni ufficiali dell’esercito tede- sco all’Hotel Majestic, chiede in cambio, e non senza sfrontatezza, la liberazione di alcuni compagni musicisti. A primavera, viene a sapere della crea- zione del Consiglio nazio- nale della Resistenza. Con- tinua ad attraversare Parigi in lungo e in largo, senza venir disturbata e senza risparmiarsi. È alla luce del Vangelo della Passione secondo san Marco che Maïti Girtanner rilegge gli eventi che fanno precipitare la sua vita verso una sorta di morte, dopo il suo inatteso arresto nell’ottobre 1943. Con- dotta in un centro di detenzione per i membri della Resistenza arrestati a Hen- daye, viene orribilmente mutilata da un giovane medico tedesco che lei chiama con il solo nome: Leo. Quest’ultimo colpi- sce i suoi centri nervosi, uccide le dita, fa morire nella musicista la virtuosa. Maïti Girtanner non potrà mai più suonare. Il resto della sua vita — oggi ha no- vant’anni — la vedrà soffrire senza posa per le mutilazioni nervose che le sono sta- te inflitte. Mentre il corpo torturato cede, rendendo praticamente impossibile un progetto di trasmissione dell’esperienza, la memoria tenta allora di appropriarsi di un testo fondatore della cultura nella quale tale trasmissione può avvenire. L’ex partigiana trova questo testo nel Vangelo. La Parola di Dio è così allo stesso tempo garante dell’esperienza e modo simbolico di restituzione della verità. Da essa Maïti Girtanner attinge la forza per trasmettere quella che fu una realtà dell’annientamen- to dell’uomo da parte dell’uomo. Allora il racconto della Passione e quel- lo della vita di Maïti Girtanner s’illumina- no a vicenda. Il Vangelo della Passione racconta la sua stessa passione. Esso testi- monia, versetto dopo versetto, la sua par- tecipazione nella propria carne a ciò che salva l’uomo dall’uomo: «Completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa» ( Colossesi 1, 24). L’esperienza del perdono s’inserisce profondamente in que- sta partecipazione. «Fin dall’inizio — scri- ve Maïti Girtanner — volevo perdonarlo; pregavo per lui; lo portavo dentro di me» (p. 201). Quando Leo, morente, va a tro- varla, cerca il suo perdono: «invece di sa- lutarci stringendoci la mano, gli tendo le braccia e lo stringo. In quel momento, lui mi chiede perdono». Maïti Girtanner sa subito con certezza di aver veramente perdonato; perdono per cui ha pregato a lungo, perdono chiesto passo dopo passo per tutti quegli anni. Sa ormai che tutti e due parlano la stessa lin- gua viva che è quella di Dio. La mia fede cristiana mi invitava a rivolgere a ogni uomo non lo sguardo degli altri Ma lo sguardo di Dio stesso Fin dall’inizio volevo perdonarlo Pregavo per lui lo portavo dentro di me Nell’autunno 1943, a 21 anni, la promettente pianista cattolica Maïti Girtanner viene arrestata dalla Gestapo. Condotta in un centro di detenzione per i membri della Resistenza francese, viene mutilata da un giovane medico tedesco. Non solo non potrà mai più suonare, ma per il resto della sua vita — oggi ha novant’anni — soffrirà senza posa per quelle mutilazioni. Nel 1984 l’aguzzino bussa alla sua porta: i medici gli hanno dato sei mesi di vita e lui vuole parlare con lei della morte. Maïti ha raccontato la sua storia in Même les bourreaux ont une âme (Paris, CLD Éditions, 2006). donne chiesa mondo

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