donne chiesa mondo - n. 2 - giugno 2012

women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne chiesa mondo women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne chiesa mondo women L’OSSERVATORE ROMANO giugno 2012 numero 2 Inserto mensile a cura di R ITANNA A RMENI e L UCETTA S CARAFFIA , in redazione G IULIA G ALEOTTI www.osservatoreromano.va donne chiesa mondo women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne chiesa mondo women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne chiesa mondo Come smontare l’anima E far spazio ai progetti di Dio di M ARIA B ARBAGALLO Q uando si avverte l’istanza interiore di entrare nella vita religiosa, non si ha che una pallidissima idea di quello che potrebbe accadere. L’unica luce che, in qualche mo- do, ci guida è la certezza (e anche questa mol- to fragile) che Dio chiama usando alcune me- diazioni umane. La coscienza di essere solo servizio di un ideale si fa strada dentro di noi, in modo mol- to graduale. La prima fase di questo processo comporta un enorme dispendio di energie. Crediamo che molto dipenda dai nostri sforzi personali, soprattutto ci sforziamo di realizza- re alcuni progetti che la nostra immaginazione ha elaborato. Questo riguarda sia il concetto di missione, sia il concetto di santità e, più an- cora, il concetto di Dio. La crescita interiore consiste, sostanzialmente, in un lavoro di “smontaggio” dei nostri progetti, per lasciare spazio allo Spirito Santo di costruire i suoi. Ciò sembra facile a parole, ma è molto com- plesso perché ha a che vedere con la nostra personalità, la nostra cultura, l’educazione che abbiamo ricevuto e, in genere, la nostra capa- cità di capire, di intuire, di creare. Tutti i doni che riceviamo da Dio, di intelli- genza, creatività, cultura o di tendenze, posso- no giocare a favore della nostra realizzazione cristiana e quindi dei progetti di Dio, o anche contro. Giocano a favore quando noi, libera- mente, accettiamo il rischio di mettere in que- stione le nostre certezze, per poi ritrovarle pu- rificate e riorganizzate secondo un nuovo si- stema di valori. Giocano contro, quando la nostra resistenza a cambiare e il nostro timore di perderci è così forte da scoraggiare qualsiasi tentativo della nostra volontà. Da che cosa, poi, dipenda la forza interiore di rischiare o no tutto quello che noi siamo, è sempre un mistero. Possiamo però pensare che, in gene- rale, dipenda dalla grazia di Dio, dalla consi- stenza dei nostri ideali, da un pizzico di desi- derio di avventura e da tendenze naturali che fungono da propulsori nelle persone che si prefiggono, con serietà, alcune mete. Nel mio caso appare misterioso il fatto che, nonostante alcune reali difficoltà, non abbia avuto mai il desiderio di tornare indietro. Le difficoltà esteriori non sono state, per me, in- sormontabili. Mi riferisco, ad esempio, alla ne- cessità di adattarmi a persone, culture, lavori, climi diversi; al fatto che quasi sempre le mie idee non coincidevano con quelle degli altri, o che ho sempre avuto un atteggiamento critico nei confronti della mentalità e dell’organizza- zione interna del convento; o ancora, alla mia tendenza a variare, in un contesto dove invece erano considerate un valore la stabilità e l’uni- formità. Le mie difficoltà più serie sono sempre state di carattere psicologico, o anche di carattere ideale. Probabilmente queste difficoltà mi avrebbero dato problemi in ogni caso. Il pro- cesso che ho chiamato di smontaggio interiore è però stato durissimo. Ci sono state pochissi- me persone che mi hanno potuto seriamente aiutare e, pertanto, ho dovuto stabilire un rap- porto assolutamente particolare con il Dio che mi aveva affascinato e che mi educava, mio malgrado, alla solitudine, al silenzio interiore, al vuoto e all’impotenza di cambiare il mio destino. L’oscurità a cui è sempre stata sotto- posta la mia fede mi ha permesso di non ter- giversare troppo di fronte alle esigenze del Vangelo e di sforzarmi per distinguere ciò che era il mio gusto e ciò che riguardava i valori cristiani. Errori e debolezze non dovevano tro- vare giustificazioni indebite, però sì, misericor- dia. Per colmare l’abisso tra l’ideale che mi proponevo e le mie incoerenze ho speso molte energie, ma ho anche capito che questo era compito più della Grazia di Dio che mio, e mi sono abbandonata a Lui (sebbene non quanto sarebbe stato necessario). Il conflitto con me stessa si sarebbe attenuato dopo molti anni di vita religiosa. Devo dire però che non è mai scomparso. Allo stesso tempo, da questo con- tinuo equilibrio-squilibrio, da questo caos sempre insorgente è dipesa la ricchezza e la vitalità della mia vita. Attraverso vari momenti esistenziali (di anni), ho capito meglio che la missione è un dono. Anch’essa non dipende da noi. Possiamo lavorare, pregare, lottare e anche morire per raggiungere un traguardo, ma «se il Signore non costruisce la casa, inva- no vi faticano i costruttori» ( Salmo, 127). Allora a che servirebbero sofferenza, sacrifi- ci, rinunce e lotte? È che per essere amici di Dio, e avere quello che abbiamo cercato da Lui, per averlo nel sonno (come dice il sal- mo), cioè quando Lui crede e non noi, occor- re una partecipazione attiva, vigilante, talvolta eroica, perché noi e altri possiamo avere «la vita in abbondanza» ( Giovanni 10, 10). Questo non vuol dire che quello che si fa sia inutile. Vuol dire che l’essenziale sta nell’essere, più che nel fare. Se abbiamo ricevuto da madre natura un’indole capace di produrre, questo dono deve passare attraverso molte purifica- zioni se non vuol essere costantemente frustra- to. Avendo avuto come educatore principale Dio, sono passata attraverso frustrazioni di ogni genere. I criteri di Dio sono dei magnifi- ci binari sui quali devono correre la verità e la giustizia, la carità e la speranza e ogni sorta di virtù. Tutto ciò che scantona da questi binari dà terribili frustrazioni, e questo è una perfet- ta forma di educazione. Il mio desiderio di raggiungere la santità è stato molto purificato. Dio sa cosa ci serve, non accetta consigli. Len- tamente ma inesorabilmente, tutto quello che abbiamo rischiato con tanto timore ritrova il posto giusto. La fede che cresce va unifican- do, dentro di noi, tutte le intuizioni sparse. Le difficoltà che ci pongono infiniti interrogativi vanno perdendo di consistenza quando si ini- zia ad avvertire che l’unico comandamento è «amare Dio sopra tutte le cose ed il prossimo come noi stessi». Tutto questo non è separato dalla vita di ogni giorno, dallo sforzo di andare d’accordo con gli altri, dall’esigenza di guadagnarsi da vivere con le proprie mani, dalle delusioni che la realtà procura. Ed è proprio in questa soli- darietà con il male e il bene del mondo che camminiamo sostenendoci gli uni gli altri, ac- cettando il mistero di una vita carica di incer- tezze, ma anche grembo di infinite possibilità che il progetto di Dio ci mette a disposizione. di C INZIA L EONE I l compito di alleviare le sofferenze dei malati, considerato poco nobile nella gerarchia sociale, è delegato da sem- pre al sesso femminile, garante dello sviluppo e del mantenimento della specie. Ma per le suore arrivare a praticare l’assistenza ai malati è stato difficile. Il con- tatto con i corpi sembrava prerogativa delle donne che quei corpi li conoscevano: quelle sposate o addirittura le prostitute. L’assisten- za agli infermi è stata la prassi delle beghine nel nord Europa, cioè donne che si univano in gruppi spontaneamente, senza l’approva- zione ecclesiastica, per condurre una vita reli- giosa, a cui si ispirarono, nell’Italia del XIII secolo, i Terzi ordini legati a domenicani e francescani. Tutti ricordano che Caterina da Siena, che faceva parte del terz’ordine dome- nicano, aveva curato i malati di peste fino a mettere a repentaglio la sua vita, ma si tratta- va di situazioni di emergenza che richiedeva- no misure eccezionali. Il primo a vincere il tabù che separava le religiose dalla cura dei corpi fu nel 1617 san Vincenzo de’ Paoli, con la fondazione delle Figlie della Carità. «Per monastero le case dei malati — scrive san Vincenzo de’ Paoli — per cella una camera d’affitto, per cappella la chiesa parrocchiale, per chiostro le vie della città, per clausura l’obbedienza, per grata il timor di Dio, per velo la santa modestia». Nasce la prima compagnia di religiose col caratteristico copricapo con le ali, pronte ad andare «dove nessuno va», pagando anche con la vita: quattordici Figlie della Carità ghigliottinate durante la rivoluzione francese, dieci uccise nel 1870 in Cina, dieci durante l’ultima rivoluzione spagnola e molte altre ancora. Le numerose congregazioni nate nel XIX secolo cominciarono ad affiancare all’in- segnamento anche la fondazione di ospedali e di organizzazioni di assistenza ai malati a domicilio, nonostante la normativa ecclesia- stica ancora imponesse alle religiose di non assistere nessuno a domicilio, ed escludesse comunque partorienti e malati di sesso ma- schile. Ma le suore infermiere, in nome della loro missione, molto spesso disattendevano queste disposizioni, non negando il loro aiuto ai sofferenti e aprendo quindi continue discus- sioni con l’istituzione ecclesiastica, come te- stimonia l’inchiesta generale avviata dalla Sa- cra Congregazione dei Religiosi nel 1909 in tutto il mondo cattolico, in seguito alle molte proteste per la prassi consolidata delle reli- giose a prestare assistenza infermieristica, sia a domicilio che negli ospedali, anche agli uo- mini. legrini a Napoli e per due decenni forma ge- nerazioni di infermiere, battendosi per sot- trarre la professione infermieristica dal ruolo ancillare a quella medica, per cambiare i pro- fili professionali e promuovere i diritti del malato. Molte le cariche guadagnate sul cam- po: presidente delle direttrici per scuole in- fermieristiche della federazione italiana reli- giose ospedaliere, per 15 anni presidente dell’Ipasvi (Federazione Nazionale Collegi Infermieri professionali), membro per la for- mazione infermieristica della Comunità euro- pea e del Consiglio superiore di Sanità. Cin- quant’anni a stretto contatto con un mondo laico senza sentirne il peso. «Una lunga esperienza vissuta nel rispetto reciproco — sottolinea suor D’Avella —. Il valore etico co- mune è il rispetto della vita e l’obiezione di coscienza». L’Ipasvi non registra la condizione delle religiose infermiere: non censite, parificate ma non omologabili, le religiose si sentono diverse. «Ci deve essere più cuore in quelle mani — racconta suor D’Avella —. Possono esserci laiche più brave e competenti delle re- ligiose ma solo in un luogo di lavoro con un’identità religiosa si può manifestare piena- mente il proprio carisma. È un privilegio». Le religiose infermiere che vivono l’ospe- dale come una missione, senza orario e ripo- so settimanale, facendo riferimento alle re- sponsabili della loro comunità religiose e ver- sando lì il proprio stipendio, rischiano essere viste come nemiche? «Non sono mancati i conflitti. Dalle convenzioni con le comunità religiose gli ospedali hanno sempre ricavato un vantaggio economico — risponde suor D’Avella — ma anche un rapporto fiduciario: sanno che i malati sono assistiti nella loro to- talità. Fino agli anni Sessanta le caposala erano tutte delle religiose, oggi le laiche le hanno soppiantate. Eravamo degli eserciti, ora siamo poche ma buone». L’atteggiamen- to dei medici è diverso con le religiose infer- miere? «Più deferenza, ma dipendeva sempre dalla loro autorevolezza e preparazione». E quello dei malati? «C’è più rispetto e fiducia. Persone semplici, in momenti difficili, mi hanno chiesto di essere confessate. Si fidava- no e volevano essere ascoltate e assolte: cer- cavano Dio e per ignoranza, o per paura del- la morte, non facevano differenze». Oltre alla cura è importante la difesa dei diritti. «Non sempre il malato è messo al centro del sistema sanitario e spesso si fa passare un diritto come un privilegio. Nel 1978 con l’istituzione del servizio sanitario nazionale ho sentito un amministratore affer- mare: “Le Usl potrebbero funzionare bene se non ci fossero i malati”. E allora chi? Al cen- tro non devono esserci gli interessi privati, la politica, gli affari, le mafie, ma solo la perso- na». Cose che non succedono nella sanità gestita da religiosi? «Non dovrebbero». La laicizzazione pone nuovi temi: bioetica, eutanasia e testamento biologico. Le religiose infermiere rispondono al medico di guardia ma soprattutto a Dio. «A Dio e alla propria coscienza — sottolinea suor D’Avella —. La medicina non è onnipotente e non tutto quello che scientificamente è possibile è eti- camente lecito». Con la legge del 1971 in Ita- lia i corsi infermieristici aprono anche agli uomini. Cosa cambia? «L’arrivismo — com- menta suor D’Avella —. Sin dall’inizio hanno voluto occupare i posti dirigenziali. Prima i capi erano tutte suore, poi suore e laiche, og- gi sono in prevalenza uomini». Maschilismo anche tra i medici? «Sicuramente, ma ce n’è anche nelle gerarchie della Chiesa. Se la Chiesa gerarchica è maschilista, quella cari- smatica è al femminile». Secondo i dati riportati dal libro Religiose nel mondo della salute di Angelo Brusco e Laura Biondo (Torino, Edizioni Camilliane, 1992), dal 1975 al 1992 in Italia il numero del- le suore ospedaliere è passato da 15.234 a po- co più di 10.000. E dal 1992 i dati sono gra- dualmente in calo. Le strutture sanitarie si laicizzano, l’infermiere generico va a esaurir- si, nel 2001 nasce quello laureato. E le reli- giose la professione infermieristica sembra preferiscano esercitarla nelle missioni. «Trin- cee con bisogni più urgenti» dichiara suor Emilia Balbinot, ostetrica, 68 anni, brasiliana di origine italiana, delle Ministre degli infer- mi di San Camillo, prima caposala al cto di Firenze e poi per 26 anni in missione in Ke- nia. «Ho vissuto in villaggi poverissimi: sen- za mezzi e in frontiera, ho fatto nascere bam- bini tagliando il cordone ombelicale alla luce di una pila elettrica. E ogni volta ho pensato di essere davanti a un tabernacolo che si apre alla vita dando la luce a un nuovo essere vo- luto da Dio. Soprattutto in missione si realiz- za la chiamata e la consacrazione. Lì trovi il Gesù abbandonato». «Quello che facciamo è solo una goccia nell’oceano, ma se non lo facessimo l’oceano avrebbe una goccia in meno» diceva Madre Teresa di Calcutta, una delle molte infermie- re diventate sante o beate. «Ci si guadagna il regno di Dio, che è anche su questa terra, tra chi ha bisogno — sottolinea suor D’Avella —. Ci sono malati che non sono in un letto d’ospedale: la sofferenza morale, il disagio mentale, l’assuefazione all’alcool e alla droga. Un mondo di invisibili, sofferenti ed emargi- nati». Oggi suor D’Avella, a 74 anni, dirige «Il sentiero», un servizio per persone e fami- glie con problemi di alcol e droga. «Sono in trincea da quando avevo 20 anni e alla ritira- ta non penso proprio». Il romanzo Dove finisce Roma «Era contenta di sentirsi chiamare Ida Maria, da don Pietro, perché Maria era il suo nome nella lotta, il nome più comune per passare inosservata (…). E se qualcuno, qualcuno dei suoi, la chiamava Ida Maria era perché c’era qualcosa da fare, e da quel momento era Maria, una staffetta, la staffetta Maria, e fare qualcosa era quello che voleva fare». Costretta dai genitori a lasciare la nativa Sardegna, la giovanissima Ida si ritrova a vivere a Centocelle, a casa della sorella Agnese e del marito, nei duri anni dell’occupazione tedesca di Roma. Pur nella violenza del distacco dal suo mondo, l’incontro con la nuova vita sarà per Ida un’emozione continua: riprendere a studiare, scoprire l’amicizia, la parrocchia, la Resistenza, la solidarietà, il coraggio, i rastrellamenti, la paura («Micol, dove sei?»). Perché nei piccoli come nei grandi passi, mentre gli occhi di Ida mettono progressivamente a fuoco le diverse strade tra cui può scegliere di avventurarsi, in Dove finisce Roma (Einaudi, 2012) Paola Soriga (classe 1979) presenta i tasselli di quel difficile mosaico che, senza spazio e tempo, avvia un’adolescente a diventare una donna. ( giulia galeotti ) Il film A simple life A simple life . È veramente una vita semplice quella dell’anziana donna cinese che ha servito in una numerosa famiglia, allevando i figli e cucinando per tutti. La vita di una donna che ha rinunciato a se stessa per vivere la vita degli altri. Adesso, anziana, si occupa dell’ultimo figlio della famiglia in cui ha sempre lavorato, ormai affermato produttore — lo stesso del film — che deve seguire una dieta speciale. Il rapporto all’inizio sembra quello banale di un uomo occupatissimo che non vede neppure la vecchia tata, ma approfitta della sua inestinguibile capacità di cura. Ma quando la donna si scopre gravemente malata e, dopo l’operazione, costretta a vivere in un pensionato per anziani, si rivela il legame profondo e fortissimo fra queste due persone così diverse, ma unite dall’affetto e dalla gratitudine. Il film è un importante riconoscimento al lavoro di cura, alla sua importanza nella costruzione dell’identità di ciascuno e nella vita della famiglia, senza sdolcinate elegie, ma fedele alle impennate brusche ma vere della realtà. ( lucetta scaraffia ) C ORTO DI B OLLYWOOD PER L ’I NDIA Porte che sbattono una, due, troppe volte: Revathy, famosa attrice di Bollywood e ora anche regista, ha firmato un cortometraggio, Red Building Where The Sun Sets , in cui racconta la storia di un bimbo di 7 anni in fuga dai litigi dei genitori. Vorrebbe raggiungere la casa del nonno, ma lungo la strada si perde per le vie di una città qualsiasi dell’India, ai suoi occhi caotica e confusa proprio come le discussioni a casa. Nato dopo attente ricerche e pensato per genitori e insegnanti, il corto rivela l’importanza dell’armonia familiare per la crescita delle nuove generazioni. I problemi che si intrecciano sono tanti: mentre le famiglie si occidentalizzano, diventando sempre più piccole e isolate, sopravvivono forme arcaiche di preferenza verso i figli maschi. Assistiamo — ha detto Revathy — al peggioramento della qualità e della quantità del tempo dedicato ai bambini, lasciati a loro stessi, senza nemmeno il sostegno del resto della famiglia. Se anche oggi le donne in India ricoprono ruoli di primo piano in molti campi, c’è ancora grande disparità tra le bambine e i bambini. I problemi cominciano a casa: episodi di violenze e discriminazioni da piccole, fanno crescere ragazze e donne insicure. Solo quando cambierà questo atteggiamento ci potrà essere vera uguaglianza. S E SI PARLA SOLO DI UOMINI NEI TELEGIORNALI EUROPEI Le notizie dei telegiornali nei principali Paesi europei riferiscono solo di uomini: le donne, infatti, costituiscono un esiguo 29% delle persone di cui si parla o che sono intervistate in Francia, Germania, Gran Bretagna, Italia e Spagna. Lo rivela l’Osservatorio europeo sulle rappresentazioni di genere, avviato nel gennaio 2011 dall’Osservatorio di Pavia. In particolare, sono i notiziari italiani quelli più chiusi verso le donne, presenti per un misero 24%, ben 10 punti sotto la media spagnola (la percentuale europea più alta). Le donne risultano penalizzate in primis nelle notizie politiche, dove raggiungono appena il 18%, media risultante da differenze notevoli: si va dall’11% nei tg britannici e italiani, al 29% di quelli francesi. In Italia ogni 10 persone intervistate in qualità di esperte, solo una è donna. L A BALLATA DI L EA «Io, cantastorie calabrese, posso solo cantare le vicende della Baronessa di Carini, di Angelina Mauro, di Franca Viola e di altre donne del Sud, e far finta che niente stia succedendo, ora, qui, intorno a me e dentro me?», si è chiesta Francesca Prestia. E così, armatasi dei suoi strumenti di canto e di denuncia, ha scritto La ballata di Lea in cui narra — con la lingua e il ritmo inconfondibile della sua terra — la storia di Lea Garofalo, testimone di giustizia uccisa e sciolta nell’acido a 35 anni da sei «vigliacchi» della ‘ndrangheta, come li ha definiti il pubblico ministero del processo che li ha condannati all’ergastolo. La chitarra battente di Francesca Prestia (incoraggiata nella sua attività di cantastorie dalle due figlie) conclude ricordando che se anche la figlia di Lea non avrà nemmeno una tomba sulla quale piangere, il suo grido di forza spaccherà comunque le montagne. Nu gridu cchi non mora, cchi spacca li muntagni, cchi trasa ‘nta li cora e non ‘nda nescia cchiù! L E DONNE SOLDATO POSSONO « FARE » LE DONNE ? Ha suscitato forti reazioni negli Stati Uniti la fotografia che ritrae due donne militari dell’aviazione colte mentre allattano: lo scandalo sta nel fatto che le due madri sono in divisa con i figli attaccati al seno. Critico il portavoce dell’aviazione militare statunitense, che ha ribadito l’importanza della professionalità della forma e, quindi, dell’uniforme in qualsiasi situazione e momento. Gli ha risposto l’ufficiale Echegoyen-McCabe, che compare sulla foto incriminata: «Penso che qualsiasi mamma in servizio abbia fatto la stessa cosa. Dobbiamo poter essere in grado di allattare in uniforme e anche di essere protette». Posto che gli Stati Uniti conoscono le aviatrici militari da ben 70 anni (il Pentagono le ammise nel 1942 su sollecitazione della first lady Eleanor Roosevelt), viene da chiedersi perché la foto abbia dato fastidio. Perché allattare al seno non è professionale o perché non sappiamo come gestire la contaminatio tra la più femminile e la più maschile delle occupazioni? Ha senso aprire alla donna soldato per poi invitarla a non “fare” la donna? F ATOU E E LINOR Dal 16 giugno la gambiana Fatou Bensouda — 51 anni, tre figli, musulmana ed ex ministro della Giustizia nel suo Paese — è il nuovo procuratore capo del Tribunale Penale Internazionale dell’Aja, l0organo giurisdizionale costituito dal Consiglio di sicurezza dell’Onu per giudicare i crimini di guerra e di genocidio. Bensouda è la prima donna a guidare il tribunale dell’Aja. Qualche giorno prima, il 12 giugno, è morta un’altra importante prima donna: con la statunitense Elinor Ostrom, infatti, è scomparsa a 78 anni l’unica donna ad aver mai ricevuto il Premio Nobel per l’economia (istituto nel 1968). Ostrom ottenne il riconoscimento nel 2009 (condiviso con il collega Oliver Williamson) per i suoi studi sulla distribuzione e la condivisione delle risorse, avendo dimostrato «come la proprietà pubblica possa essere gestita dalle associazioni di utenti». R ISARCIMENTO PER LE VITTIME DELLA TRATTA A inizio giugno la Corte d’assise d’appello dell’Aquila ha riconosciuto a 17 donne nigeriane, costrette a prostituirsi tra Marche e Abruzzo, una provvisionale immediata di cinquantamila euro. L’operazione Sahel, avviata nel 2007 dai carabinieri del Ros dell’Aquila, si è conclusa dunque con un risultato epocale: il riconoscimento del diritto al risarcimento del danno per le vittime della tratta di esseri umani. La sentenza prevede che la confisca dei beni sequestrati vada a beneficio delle vittime e delle associazioni che si sono costituite a loro sostegno, anziché — come sin qui avvenuto — a beneficio dello Stato. I L PREMIO L ANGER ALLE DONNE TUNISINE È l’Association Tunisienne des femmes démocrates (Atfd) la vincitrice del Premio Internazionale Alexander Langer edizione 2012, annualmente assegnato alla persona o associazione distintasi per l’impegno nella difesa dei diritti, dell’ambiente e della pace. Nata nel 1989, Atfd è stata la prima associazione femminista indipendente tunisina a lavorare sui temi dell’uguaglianza e della cittadinanza. Si è tra l’altro occupata di discriminazioni sull’eredità, di dimensione femminile della povertà e di violenza contro le donne, offrendo assistenza legale contro i multiformi abusi. Sebbene l’associazione e le sue attiviste abbiano subito negli anni una forte repressione, sono però riuscite sempre a mantenersi come presenza significativa nella storia recente della Tunisia. Nel 2008, ad esempio, Atfd fu tra le prime a sostenere e far conoscere all’estero la rivolta dei minatori a Gafsa: le donne scesero in piazza per appoggiare i loro mariti e figli, subendo poi anche la repressione. Riconoscendo il lavoro svolto da Atfd, il premio vuole anche sottolineare la centralità della lotta per i diritti delle donne come condizione essenziale per il successo della transizione democratica nel Paese africano. L E RAGAZZE DI O RIGENE «Gli erano infatti vicini, quando dettava, più di sette tachigrafi che si avvicendavano ad ore fisse e un numero non inferiore di copisti, come pure di ragazze esperte in calligrafia: alla sussistenza di tutti provvedeva con abbondanza di mezzi Ambrogio». Così scrive Eusebio di Cesarea ( Storia ecclesiastica, VI , 23, 2), ricordando le sette calligrafe che lavorarono per Origene, pagate dal ricchissimo cristiano Ambrogio di Nicomedia. Costui infatti, per riconoscenza verso Origene che lo aveva ricondotto alla fede ortodossa, gli mise a disposizione uno stuolo di esperti a cui dettare le sue opere. Considerando l’impegno necessario per stare dietro all’incredibile ritmo di lavoro di uno dei più grandi intellettuali cristiani dell’antichità, lo sforzo delle sette ragazze fu ragguardevole e indefesso. A questa tenacia ha recentemente “ridato voce” la tenacia di un’altra donna, la filologa italiana Marina Molin Pradel, quando ha scoperto ventinove omelie inedite sui Salmi di Origene in un codice greco di Monaco. Così, se il pensatore cristiano continua a raggiungerci con i suoi scritti, lo si deve per ben due volte a mani di donna. Il saggio Dio è violent Partendo da una scritta letta su un muro — in cui la vocale finale è stata cancellata, aprendo la possibilità, agli occhi della Muraro, di un dio femminile — in Dio è violent (Nottetempo, 2012) la filosofa riflette sull’uso della violenza nelle nostre società occidentali, mettendo in discussione la delega allo Stato insita nel contratto sociale su cui si basano tutte le società moderne. Gli Stati, scrive, ne hanno fatto un uso molto discutibile, per cui converrebbe a noi cittadini riprendere la delega, e cercare di riproporre un uso della violenza calibrato attentamente con la giustizia. Ma per farlo bisogna partire da Dio, allo scopo di «ingrandire le vedute e di far giocare qualcosa del molto che è fuori gioco dal regime storico della vita del pensiero». Perché oggi, che «il benessere materiale è in forse, ci accorgiamo che l’unico orientamento generale lo dava la crescita economica» e quindi «non lasciamo che il nostro bene fatto di relazioni e di speranze, vada a vantaggio di una bottega discreditata che non ha l’autorità di tenere a bada i privilegiati e i prepotenti». ( lucetta scaraffia ) Silvestro Castellani, «Le strade del cielo» (2011) I libri del riscatto Quotidianità e tensioni femminili nei Paesi islamici La scrittura non è più appannaggio dell’uomo letterato È una prima spia di riscatto E la suora inventò l’infermiera Inchiesta sul ruolo delle religiose nella storia della cura Il primo a vincere il tabù che separava le donne consacrate dalla cura dei corpi fu nel 1617 Vincenzo de’ Paoli Nasce così la prima compagnia e il caratteristico copricapo con le ali L’autrice Maria Barbagallo, nata a Roma da una famiglia cattolica di origine siciliana, entra a 24 anni nella congregazione delle Missionarie del Sacro Cuore di Gesù. Insegnando ininterrottamente a bambini e adolescenti, si laurea in pedagogia. Dal 1974 è missionaria tra i poveri in America centrale, dove attraversa alcuni dei momenti più duri e dolorosi di quegli anni, come il terremoto in Guatemala e la rivoluzione sandinista in Nicaragua. Per dodici anni è stata superiora generale delle cabriniane. Occupandosi oggi della storia dell’istituto, ha — tra l’altro — riallestito il museo dedicato a Francesca Cabrini nella prima casa fondata dalla santa a Codogno. Il testo qui pubblicato è un breve stralcio dal volume Fino agli estremi confini del mondo (Marietti, 2012) . di A LBERTO F ABIO A MBROSIO La donna musulmana prepara il suo riscatto grazie alla narrativa, ai tanti libri e romanzi di donne di tradizione islamica che vivono in Europa o negli Stati Uniti. Esse sono probabilmente più libere di cato per me, sacerdote a Istanbul — immergersi nella loro realtà quo- tidiana. La stessa lentezza della scrittura appare il riflesso di una società immutabile nei codici com- portamentali e nella mentalità. In questi volumi si intravedono segni di vero cambiamento. Un in- dizio è proprio il fatto che la lette- ratura non è più esclusivo appan- naggio dell’uomo letterato. Legge- re questi scritti immaginando le autrici che, quando sono fuori di casa, portano il velo è quanto mai suggestivo. I tre romanzi che mi hanno accompagnato recentemente (uno consigliatomi da una musul- mana che vive per il dialogo inter- religioso) mi hanno permesso di capire il coraggio di queste donne dalle parole forti e chiare. Celebre nel mondo arabo, Le ragazze di Riad , opera di Alsanea Rajaa residente nel Regno Saudi- ta, racconta la vita di quattro ami- che appartenenti alla buona socie- tà araba. Le mail che si scambia- no, artifizio stilistico per descrivere le loro emozioni, sono intrise di spirito critico per la mentalità di un Paese che le discrimina. Ma il romanzo è anche un invito a svi- luppare la creatività femminile in un contesto socialmente immobili- sta. Il testo offre molti spunti per comprendere il confronto inevita- bile fra una società tradizionale e la modernità e manda un chiaro messaggio: la donna musulmana possiede le capacità per trasforma- re il costume e la realtà. Nel ro- manzo scritto in lingua persiana dell’iraniana Nahid Tabatabai, A quarant’anni ci si muove fra passato e futuro , si narra del ritorno in Iran di un vecchio compatriota che ha avuto successo in Occidente. L’età della protagonista Nahid, direttrice di una casa editrice e scrittrice, corrisponde all’anniversario della rivoluzione iraniana. Che alluda a un ritorno della speranza che ha animato la rivoluzione? Un’altra voce femminile giunge dallo Yemen. In Ocra rossa , Hind Haytham, scrittrice e ricercatrice presso lo Yemeni Center for Stu- dies and Researches, narra la vi- cenda di un giovane sottratto a sua madre e alla sua terra. Il desi- derio di ritornare al profumo dell’ocra, cioè al passato fonte di sicurezza, è irrimediabilmente rovi- nato dalla rabbia e dalla vendetta. In questi libri appare chiaro che sotto il velo ci sono le potenzialità delle donne orientali, più vive di quanto ci si immagini. Si svela una mentalità, un codice di cui le autrici denunciano tutta la pesan- tezza. Si alza il sipario su una vita drammatica. La donna nascosta dal velo non allontana, come si è tentati di pensare, ma incoraggia semmai al confronto sulla condi- zione femminile, assurge a icona di lotta per la sua dignità ed è consapevole del suo insostituibile ruolo sociale. La diffusione di questa letteratu- ra in Europa è un’utile occasione di scambio fra oriente e occidente e fra donne che vivono in contesti sociali e culturali così diversi. Tut- te le traduzioni di queste autrici musulmane, nei casi presentati, so- no opera di donne (e in un caso anche l’editrice) segno incontesta- bile, questo, di una vicinanza alla stessa causa. All’intenzione di aiu- tare la donna musulmana perché “velata”, e di compiangerla, si so- stituisce oggi un nuovo rispetto per le donne islamiche che scendo- no in piazza e rivendicano con for- za le loro legittime aspirazioni. Non aver paura di confrontarsi con la loro esistenza nella lotta è segno di maturità e di voglia di superare le differenze culturali. altre di raccontare le proprie legit- time aspirazioni di libertà. Ancor più indicativi per i risvol- ti sociali e per il tentativo di ri- scatto sono però i romanzi tradotti direttamente dalle lingue orientali, di autrici che vivono ancora nel Paese di origine, riflettendo sul lo- ro ambiente e la loro vita. Leggere questi libri significa — e ha signifi- Henriette Browne, «Suore al lavoro in convento» ( XIX secolo) Alla fine le suore la spuntarono e, consa- pevoli dell’esigenza di una preparazione pro- fessionale, ottennero anche da Pio X , nel 1905, la possibilità di fondare la prima scuo- la professionale per infermiere. Il welfare della Chiesa, ancora oggi vitale, radicato nel territorio e “sup- plente” del pubblico ha quindi una storia antica ed eroica. Racconta la sua esperienza di cura una veterana: suor Odilia D’Avella. Figlia della Carità a vent’anni, a 26 già dirige la scuola dell’Ospedale dei Pel-

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