Il Bianco & il Rosso - anno IV - n. 40 - maggio 1993

~!LBIANCO lXILROSSO MENSILE DI DIBATTITO POLITICO Riformatorisenzariforme L di Pierre Carniti a politica italiana resta nella nebbia più fitta. Si è fatto un gran spreco di parole e di energie, ma la seconda Repubblica, di cui il 18aprile era stata frettolosamente ed enfaticamente annunciata la nascita, non c'è e non si intravvede nemmeno. È opinione diffusa che la seconda Repubblica avrebbe dovuto differenziarsi dalla prima per non pochi aspetti (riforma regionale, amministrativa, composizione e competenze delle camere, ecc.) ma soprattu tto, se non abbiamo capito male, perché avrebbe dovuto essere fondata su un solido 40 ANNOIV0 • MAGGIO1993• L.3.500

IN QUESTO NUMERO Pierre Carniti Riformatori senza riforme pag. 1 ATTUALITÀ Gian Primo Cella 18 aprile: il sistema è finito. La transizione è iniziala pag. 4 Sandro Antoniazzi Elezioni a Milano. Un'altra occasione perduta? pag. 6 Anna Catasta Per guarire dal frazionismo un polo sociale di transizione pag. 8 Raffaele Morese Sindacato e imprenditori, anche per voi è l'ora del «nuovo» pag. 10 Mario Zoccatelli Nuovi scenari e sindacalismo confederale pag. 12 Giovanni Gennari Una storia di uomini vivi alle soglie del duemila (intervista a Jacques Le Golf) pag. 16 Giorgio Tonini 25 aprile: La «Cosa bianca». Le ragioni, i torli, la posta in gioco pag. 20 Ermanno Gorrieri Quale costituente per i cattolici democratici? pag. 22 DOSSIER Cattolici. politica. Dc. Quale scenario per un futuro? (seconda parie) Rino Caviglioli La Dc si rinnova? Sì, ma senza muoversi dal Centro pag. 28 Alessandra Codazzi La Dc deve tornare alle sue radici cristiano-popolari pag. 30 Biagio De Giovanni Dc «costretta» all'opposizione per rinnovare l'Italia pag. 33 Laura Rozza Giuntella L'unità politica è il contrario dell'unità sui valori e sulle idee pag. 35 Pietro Merli Brandini Unili o divisi, coniano le responsabilità nuove pag. 36 Ruggero Orfei Dc: una crisi antica per un Movimento nuovo pag. 38 Piero Protesi Dc al capolinea? Non è detto per niente pag. 40 Valdo Spini La Dc Ira Marlinazzoli e Segni. Un presente fatto di incognite pag. 42 Giorgio Tonini La vecchia Dc è finita davvero. E la tradizione cattolicodemocratica? pag. 44 Danilo Veneruso Dc: una deriva politica e ideale. O si rinnova o è finita pag. 45 INTERVENTI Antonio Preiti Criminalità organizzala e sottosviluppo economico pag. 47 Lega italiana per la lotta contro i tumori L'importanza della prevenzione nella lotta contro i tumori pag. 49 SCAFFALE Aurelio Grimaldi «Francesco»: uomo, profeta, poeta pag. 53 VITA DELL'ASSOCIAZIONE In memoria amichevole di Gerardo Chiaromonte pag. 55 Illustrazioni tratte da «Attore. alle origini di un mestiere»

{)Il, BIANCO ~ILROSSO 1a111t;Jt+J•M meccanismo di alternanza e quindi su due schieramenti in qualche modo riconducibili alla «destra» ed alla «sinistra». La ragione dell'opzione a favore della democrazia dell'alternanza ci è sempre apparsa di tutta evidenza. L'impossibilità (per ragioni politiche ed istituzionali) di alternare al governo schieramenti diversi è la causa, non ultima, dei guasti «evitabili» che hanno finito con il debilitare e corrodere la prima Repubblica. In una prospettiva di alternanza è del tutto ragionevole immaginare che si formino due schieramenti. Uno di destra e l'altro di sinistra. Contrariamente a quanto spesso si sostiene nella vulgata politica, destra e sinistra non sono termini ormai privi di significato. Basterebbe osservare che la tensione verso l'autonomia individuale e la conservazione delle differenze, o, al contrario, verso la solidarietà e l'eguaglianza costituiscono ancora, in Italia e nel mondo, decisivi orientamenti di valore o collettori di rilevanti forze sociali. Insomma, prevale l'orientamento di sinistra quando si muove verso valori di solidarietà, eguaglianza, responsabilità collettive, quando non si accetta una società che tollera un numero crescente di persone lasciate ai margini, escluse quasi per una congenita ed insuperabile diversità. Prevale invece l'orientamento di destra quando si muove verso valori di autoaffermazione individuale, di giustificazione delle differenze di reddito e di potere esistenti tra persone, gruppi, aree geografiche, razze. I termini del problema erano, dunque, abbastanza chiari. Non altrettanto si può dire delle soluzioni fino a questo punto prospettate. Inizialmente era sembrato che il governo Ciampi avesse la funzione di portarci nella Terra Promessa di un nuovo sistema politico, tentando, lungo la strada, di migliorare anche la disastrata situazione economica, o evitare perlomeno un suo peggioramento. L'illusione, se di illusione si è trattato, è durata poco. L'improvvida, ma forse non imprevedibile, votazione della Camera sull'autorizzazione a procedere per Craxi, ha portato il nascituro governo Ciampi a ridimensionare le sue ambizioni e ad autoassegnarsi il compito più limitato di fare ciò che può dipendere da lui perché gli italiani possano votare con una nuova legge elettorale tra qualche mese. 3 Se non sarà travolto dalle imboscate e dalle trappole disseminate non solo dai proporzionalisti superstiti del naufragio del 18 aprile, ma anche dagli uninominalisti delle diverse confessioni (monoturnisti, doppioturnisti con ballottaggio tra i primi due, o con sbarramento di accesso al ballottaggio) può darsi che alla fine Ciampi ce la faccia a portarci in autunno in cabina elettorale con una legge nuova di zecca. Ma cosa potrà cambiare dopo? Sicuramente molte facce di parlamentari ed anche la geografia politica del Parlamento. Anche se, per la verità, c'è da dire che si sarebbe verificata la stessa cosa con qualunque legge elettorale, compresa la proporzionale. Avremo probabilmente meno gruppi parlamentari. E questo è certamente un bene. Ma purtroppo non risolutivo se la cosa che abbiamo in testa continua ad essere democrazia dell'alternanza. Continueremo infatti ad avere governi di coalizione. Presumibilmente coalizioni meno pletoriche e quindi, forse, meno litigiose. Con il sistema uninominale gli elettori possono infatti scegliere tra candidati diversi, ma non tra governi diversi. La verità incontrovertibile è che i meccanismi elettorali da soli non bipolarizzano il sistema politico. Possono facilitare l'alternanza, non la determinano. Sono le riforme istituzionali che inducono l'alternanza. Sono: il presidenzialismo (come negli Stati Uniti); il semipresidenzialismo (come in Francia) l'elezione diretta del capo dell'esecutivo che producono l'alternanza. Perché alla fine, obbligano a scegliere tra due schieramenti, due programmi, due candidati. Continuiamo perciò a brancolare nella nebbia perché il nostro è un paese di riformatori senza riforme. Tutto avrebbe forse potuto essere meno ingarbugliato se tanti volonterosi aspiranti riformatori avessero avuto modo e tempo di leggere Alice nel Paese delle Meraviglie. Li il problema era già posto in modo chiaro. Quando infatti Alice si rivolge al gatto Cheshire chiedendogli: «Per favore vorresti dirmi quale strada devo percorre da qui?» Il gatto le risponde «questo dipende da dove vuoi andare». Il dramma sempre più evidente della politica italiana è tutto qui. Non sa dove va e per di più non ci va.

,Pll"' BIANCO '-.Xll~ROSSO ATTUALITÀ 18 aprile:il sistema èfinito. Latransizione è iniziata di Gian Primo Cella a sequenza iniziata con il referendum sulla L preferenza unica del 1991 è coerente e senza interruzione. Non siamo ancora giunti al punto finale, ma abbiamo già ampiamente superato il punto di svolta. Non sappiamo ancora bene quanto sia largo il fiume fra la riva della prima Repubblica e la riva della seconda, ma siamo a questa sponda molto vicini. La sequenza elettorale impressiona, ma impressiona anche quello che ad essa si è accompagnato e che ha assicurato la coerenza della sequenza stessa: il disvelamento progressivo delle forme di occupazione della società condotte dai partiti e dalle modalità di creazione del consenso. Certo quelle che sono apparse sono state delle degenerazioni, nel campo della corruzione politica ed in quello dei rapporti con la criminalità organizzata. Come tali sono presenti in molti sistemi politici democratici. Ma la sistematicità e la estensione delle degenerazioni hanno posto sotto accusa il sistema politico ed istituzionale che ha retto tutto il lungo periodo dell'Italia repubblicana. Gli elettori hanno colto questo e da due anni si esprimono con coerenza. Forse non sanno ancora verso dove vanno, ma sanno ormai molto bene quello da cui si devono allontanare. I risultati del referendum sono inequivocabili, anche se nel loro insieme svelano usi impropri o inefficienti degli strumenti della democrazia di4 retta. Ma queste sono questioni differenti, e la prima è quella che più conta in questo frangente, anche se la seconda non andrebbe trascura - ta, specie in vista delle costruzioni istituzionali future. Partiamo dunque dai risultati, non solo la percentuale del sì per il meccanismo maggioritario al senato si è rivelata molto alta (quasi 1'83%), ma è stata elevata in modo eccezionale la partecipazione al voto (dall'84,9% del nord al 64,3% del sud). Combinando i due dati il risultato è ancora più chiaro, si può dire infatti che quasi due terzi degli italiani aventi diritto,al voto si sono espressi per l'innovazione nei meccanismi elettorali. Una espressione di consensi ancor più elevata (sotto questo aspetto) di quella espressa al referendum del 1991. Certo il voto «innovatore» mostra una sensibile variabilità interregionale e decresce dal Nord al Centro al Sud alle Isole. Tuttavia questa disparità, spiegabile in buona parte con le residue capacità dei partiti tradizionali nel Mezzogiorno, è di gran lunga meno intensa di quella mostrata nelle elezioni politiche del 1992. Anche questo è un risultato molto significativo. Come è del pari significativa la qualità del voto complessivo espresso in una batteria di questioni referendarie affollata e complessa: votazioni difficili insomma, e poco aiutate dalle procedure tradizionali di espressione del voto. È

D!LBIANCO a.LILROSSO iiiilillii probabile che ci sia stato un effetto di trascinamento del sì alla domanda di più alto significato politico (quella per il Senato). Tuttavia una certa razionalità nel votante, od almeno una capacità di discernimento è ritrovabile nella gerarchia dei consensi espressi alle differenti domande (su differenti schede): dal 90,3% dei sì alla domanda più popolare (quella riguardate la abolizione del finanziamento pubblico ai partiti) al 70, 1 % dei sì alla abolizione del ministero dell'Agricoltura (oggettivamente la richiesta più problematica) fino al 55,3% dei sì alla domanda sulla riforma della legge sulle tossicodipendenze, quella che più implicava questioni dibattute e incerte di ordine morale. Nell'insieme dunque un ampio consenso per l'innovazione, con non drammatiche disparità territoriali, espresso all'interno di una votazione difficile che è stata affrontata con una certa maturità di giudizio e di scelta. Per l'Italia di questi giorni tutto sommato non male! L'importanza del risultato non deve tuttavia fare dimenticare la seconda questione, quella relativa all'uso improprio e inefficiente dei referendum. Il problema è noto: nei sistemi rappresentativi il ricorso al referendum dovrebbe essere attuato per eccezione, quando si presuppone che il suo utilizzo conduca a risultati più legittimati, più attendibili, più suscettibili di indicare le preferenze (anche future) degli elettori. Questo accade tipicamente nelle grandi questioni morali (ad es. aborto) o nelle domande relative a temi di stretto ordine locale (ad. es. chiusura o meno dei centri storici al traffico). L'uso della democrazia diretta andrebbe evitato invece in tutte quelle scelte nelle quali o si presuppone una conoscenza tecnica oppure si identifica un interesse generale (ma su questioni specifiche) 5 che non può essere affrontato attraverso la semplice formazione di maggioranze e minoranze. Solo nel caso della fondazione di un sistema politico (o nella chiusura di un altro) è possibile immaginare un uso proprio del referendum anche su questioni ad elevata tecnicità. Le domande in questi casi potrebbero essere non sempre del tipo monarchia-repubblica ma riguardare regole del gioco più complesse come quelle relative ai meccanismi elettorali. In questa, logica, si osserverà subito come la domanda sulla abolizione del ministero dell'agricoltura identificasse un uso improprio dei referendum, la domanda sui meccanismi elettorali al senato un uso proprio ma inefficiente (almeno nella proposizione del nuovo). Nel primo caso un uso improprio per due motivi: in primo luogo per la tecnicità sottostante al quesito. In quanti sono a saper giudicare, ad esempio, sulla opportunità o meno di mantenere il dicastero nazionale in ragione del rilievo delle trattative in sede comunitaria? In secondo luogo per il tipo di interesse in gioco: un interesse che riguarda indirettamente tutto l'insieme dei cittadini, ma direttamente solo una piccola parte di essi. È elevato perciò il rischio che l'interesse, nel gioco del principio di maggioranza che prevale nella democrazia diretta, non ritrovi forze numericamente adeguate alla sua rappresentazione. Nel secondo caso un uso proprio ma inefficiente. Si tratta di porre fine ad un sistema politico e di aprirne un altro, iniziando ad affrontare il tema delle leggi elettorali. È giustificato il ricorso alla democrazia diretta. Ma, in questo caso, il meccanismo dei referendum italiani, solo abrogativi, la condanna ad un esito inefficiente in

DlLBIANCO ~ILROSSO Piiiiliit quanto conduce a non approfondire le reali preferenze dei cittadini. Saranno così necessari altri tipi di decisioni, ed anche di mobilitazioni politiche, per conoscerle appieno. Con questo tipo di referendum abbiamo saputo con certezza che i cittadini vogliono cambiare. Ma non si può certo ragionevolmente sostenere che essi desiderino proprio il tipo di meccanismo che è stato formato con il ritaglio della legge esistente. Da qua nasce la inefficienza. Diverse sarebbero state le cose con un referendum propositivo, e con una scelta chiara fra due meccanismi elettorali. Diverso perché se non altro il fronte di chi cancella è di norma più composito di quello di chi propone. Di questo dovrà tenerne conto il futuro parlamento, quando inizierà a por mano a quelle riforme istituzionali che saranno di necessità trascinate dagli interventi sui meccanismi elettorali. Il referendum ha avuto comunque sia il potere di iniziare concretamente la fase di transizione. Ed il governo nominato dal Presidente della Repubblica, con il paradossale richiamo alla lettera della costituzione, è in condizioni di gestire in modo corretto la fase di transizione, od almeno la parte iniziale di essa, quella che si riferisce alla modifica delle leggi elettorali. La transizione da un sistema che attraverso la invadenza politica e sociale dei partiti proprio la costituzione aveva dimenticato. Difficile dire quanto la prima fase della transizione possa durare, anche perché le strumentalizzazioni dell'esito del referendum sono molteplici non favorendo il sorgere di una cultura condivisa della transizione. E l'assenza di questa cultura si fa sentire. Ad esempio nelle critiche al governo Ciampi in quanto ritenuto non adeguato rappresentante del nuovo emerso dal referendum. Una critica che identifica proprio l'assenza di una cultura della transizione, in quanto in questi processi non è tanto il nuovo emergente che va rappresentato e garantito, questo procede sulla forza delle cose. È semmai la parte migliore del vecchio sistema che va garantita. Se analizziamo la composizione dei governi di transizione in questo secolo e in varie esperienze scopriremo che proprio da questo carattere sono unificati. Anche la mancata concessione della autorizzazione a procedere per Craxi è segno della assenza di questa cultura. Tuttavia, pur essendo un atto clamorosamente sbagliato, sia dal punto di vista politico che da quello etico, esso identifica un tentativo di difesa da parte del vecchio sistema, più o meno manipolato da altri, che è probabile non resterà isolato. Le transizioni comunque sia devono guardare avanti, lasciando alle proprie spalle questioni irrisolte ed anche conti da saldare. Nella politica, non lo si dimentichi, la pena peggiore, è quella derivante dalla politica stessa. Elezionai Milano. N Un'altroaccasioneperduta? di Sandro Antoniazzi el prossimo mese di giugno si voterà in alcune grandi città italiane, fra cui Milano. Ma a Milano è nata Tangentopoli, qui la Magistratura ha operato su vasta scala bonificando istituzioni ed imprese, decapitando i partiti tradizionali, creando implicitamente le condizioni e la richiesta di un 6 profondo cambiamento. Milano è dunque al centro di un'attenzione e di possibilità particolari, occasione di scelte di tipo nuovo, banco di prova di ipotetici nuovi corsi. Disgraziatamente il nuovo è evocato e sbandierato, ma al di là delle grandi dichiarazioni, non trova la forza di esprimersi.

{)!LBIANCO ~ILROSSO t+iiki+iMAM I partiti tradizionali esistono pur sempre e la tempesta che è caduta su di loro li invita a cambiamenti anche importanti, - di nome e di prospettiva-, ma di certo non li ha resi più rapidi e più decisi nel muoversi in occasione di queste elezioni comunali. Certo siamo di fronte a nuove regole che trovano tutti impreparati, ma appare evidente che hanno prevalso le vecchie logiche. Alla fine troveremo i cattolici (democristiani) con un loro candidato, i socialisti pure e la sinistra compatta con Dalla Chiesa. Le forme in effetti sono diverse: la Dc non si presenterà col simbolo e Bassetti dichiara la propria autonomia al riguardo, i socialisti scelgono una denominazione ad hoc e sostengono prevalentemente Borghini (scelta dignitosa, quanto alla fine inevitabile), il Pds che aveva la responsabilità storica di fare una proposta aggregante in grado di sconfiggere la Lega e di governare adeguatamente Milano, ha scelto nel modo più tradizionale, di allearsi con la sinistra più rigida, Rifondazione e Rete (la prima dura ideologicamente, la seconda dura nella sua opzione liquidatoria del «vecchio»). È fuori discussione il nome del candidato, Nando Dalla Chiesa, persona di prestigio e di indubbio valore morale e politico. È l'operazione a non convincere per diversi motivi di cui due mi sembrano rilevanti: a) innanzitutto il rischio di un insuccesso finale, a favore della Lega; b) in secondo luogo non aver saputo avanzare una proposta adeguata che riguardi e il governo di Milano e le prospettive future di aggregazione della sinistra. Sul primo problema è presto detto: la somma dei voti prevedibili di Pds, Rete, Rifondazione, più altri (pezzi di Verdi e la lista per Milano che dopo una campagna all'insegna della novità ha 7 confluito poi nell'aggregazione di sinistra) rende plausibile che il candidato dello schieramento, Nando Dalla Chiesa, sia uno dei due possibili concorrenti al ballottaggio, assieme probabilmente al candidato della Lega. Ma la difficoltà sta nel secondo turno; quanti socialisti, democristiani e forze di centro si sentiranno di appoggiare in quella occasione Dalla Chiesa? Sul secondo punto è da rilevare una radicale avversione del Pds a qualunque convergenza anche indiretta coi socialisti ed una forte predisposizione verso Dalla Chiesa, quasi come una catarsi, un bagno redentore che li purifichi e li esorcizzi da Tangentopoli. Ora sulla condanna del passato establishment socialista non si può che essere radicalmente d'accordo, ma con ciò non si può liquidare il «socialismo» e la necessità di avviare processi aggregativi (aperti, ben si intende, anche ad altri) che si presentino lungimiranti. Qui invece gioca l'attrazione del «nuovismo» e si punta magari sotterraneamente sul recupero di voti socialisti in crisi, visione di breve periodo e tutta da verificare. L'ipotesi su cui ritengo si dovesse lavorare era una proposta che partendo dal Pds fosse di ampia aggregazione di vecchia e nuova sinistra, sino ai cattolici (neppure citati nell'occasione). I risultati che abbiamo sotto gli occhi ci dicono quanto le cose siano immature e come probabilmente si stia perdendo un'altra occasione favorevole. Ma è indubbio che non si tratta di un caso, è il disorientamento e l'impreparazione sui grandi temi della trasformazione economica e sociale, in corso ormai da tempo, che rende la sinistra facilmente catturabile dalì'immediato ed ancora troppo poco predisposta a costruire alternative di qualche portata.

{),lLBIANCO ~ILROSSO Mikiiliii Perguariredalfrazionismo unpolosocialeditransizione di AnnaCatasta F rantumazione, vecchia malattia della sinistra: ma siamo sicuri che si tratti di malattia e non di vizio? Dalla malattia si può anche voler guarire, dal vizio è più difficile uscire perché procura dei guai di diversa natura ma, indubitabilmente, anche qualche piacere. Ma quando, come, perché si è sviluppata questa insana propensione per il vizio della frantumazione? È difficile dare una risposta perché la storia della sinistra italiana è percorsa fin dall'inizio, si può dire, da questa divisione e il fatto che, oggi, nonostante la caduta del muro di Berlino, tutto ciò permanga e anzi si accentui significa che si tratta appunto di una malattia inguaribile o di un vizio. Non è stata sufficiente per uscire da questa situazione neppure la crisi gravissima, quasi mortale, che ha colpito i partiti italiani in questo ultimo anno fino a portare il Partito socialista sul punto di dissolversi. E a pochi giorni dal voto della Camera sulla autorizzazione a procedere nei confronti di Bettino Craxi le divisioni si moltiplicano e si accentuano fra chi ha voluto con quella scelta sottrarre l'uomo simbolo del Partito socialista degli ultimi anni, che pareva destinato a ritirarsi dalla vita politica, fra chi ha salutato la conseguente uscita del Pds dal governo Ciampi non come una necessità, ma come una vittoria o meglio come una salvezza, fra chi vuole le elezioni anticipate subito e chi preferisce arrivarvi con nuove regole elettorali. Il Pds propone una costituente della sinistra e contemporaneamente il Psi propone una propria costituente delle forze laiche: la divisione tocca 8 quindi anche le costituenti del nuovo che si dovrebbe creare. Il suicidio di Beregovoy sembra essere il simbolo tragico di una fase che si chiude e che rischia di coinvolgere in un unico segno negativo tutti i partiti che si richiamano al socialismo. Che cosa fare allora? Cosa proporre senza rifare il verso querulo alle buone intenzioni di ravvedimento che ci hanno accompagnato per tutti questi anni? Bisogna prima di tutto prendere atto di una semplice realtà: i contenitori simbolici, che hanno rappresentato in questo secolo l'unità della sinistra, come processo e meta da raggiungere, che dava quindi alle divisioni un carattere temporaneo da superare, hanno perso questa funzione. Nell'Internazionale socialista ci sono pressoché tutti, ma la situazione non è cambiata; il Partito socialista europeo nasce figlio della volontà di tutti i partiti della sinistra tradizionale, ma la sua vitalità è ancora tutta da dimostrare. La stessa idea di Socialismo e di Sinistra, come ha dimostrato il recente convegno organizzato da Micromega, è sottoposta a severe critiche non solo da Rocard, che con la sua proposta del Big Bang ha fornito una prospettiva di superamento della frantumazione basata sulla autodissoluzione del partito socialista e sulla nascita di una nuova cosa, ma da parte di molti ci si è interrogati sulla stessa identità della Sinistra rispetto alla identità della Destra. Ma se il socialismo è da buttare e la sinistra che lo dovrebbe rimpiazzare non è ancora definita che senso ha predicare l'unità tra forze che appaiono sempre più divise? In nome di chi e di che cosa dovrebbe realizzarsi questa unità? Mancando una legge fondamentale comune a

D!.LBIANCO QiL. ILROSSO Piiiil•ii cui richiamarsi è difficile affermare l'esigenza di tornare all'unità primaria. E infatti la lettura del programma fondamentale del nascente Partito socialista europeo conferma questa debolezza delle tradizionali idee guida, e evidenzia il fatto che ognuno preferisce gestire come può i propri problemi nazionali svuotando i vecchi e nuovi contenitori internazionali e sovranazionali della sinistra. In Italia la situazione è ancora più complessa perché il peso ancora rilevantissimo della questione tangenti e la resistenza da parte degli inquisiti di lasciare la politica, fanno della questione morale un problema cruciale da superare subito, per evitare ulteriori divisioni. Le nuove leggi elettorali infatti spingeranno verso la costruzione di due poli, uno progressista e uno conservatore, ma fino a che non si sarà realizzato un rinnovamento dei partiti e delle forze politiche rimuovendo gli inquisiti, i due termini, progressista e conservatore, si definiranno più in relazione alla questione morale che ai contenuti dei programmi, ad esempio in materia economica e sociale. Chi darà vita infatti in queste condizioni, con la prospettiva di nuove elezioni con il sistema proporzionale, e poi a breve ancora elezioni con i nuovi sistemi elettorali, al polo progressista schierato contro il polo conservatore? Si attenuerà nella formazione di questo polo progressista l'azione diretta dei parti ti e si decanterà forse allora la ragione primaria delle divisioni della Sinistra permettendo di raccogliere e valorizzare intorno a un programma politico concreto le forze e le energie migliori? O viceversa, come sta succedendo in molti casi, in occasione della formazione delle liste e delle coalizioni nelle prossime elezioni comunali, tutto rimarrà come prima? Molti pensano che in questa situazione, in attesa di formare il polo progressista occore fare subito un nuovo partito libero dai vincoli «storici» e dalle resistenze degli apparati. Io sono un po' scettica su questa ipotesi perché, nonostante le buone intenzioni dichiarate da molti raggruppamenti che si sono dati questi obiettivi, tra cui quello di Milano nato intorno all'idea di creare un nuovo partito democratico, la fondazione di un partito oggi, nel 1993, non è un atto paragonabile a quello che alla fine dell'800 poteva dar vita sulla base dell'accordo di pochi congiurati a formazioni gloriose. Il problema fondamentale oggi è quello di attivare una partecipazione dal basso alla realizzazione del nuovo, di far vivere in modo ampio e irreversibile nuove categorie di analisi, di pensiero, di azione. Forse una delle strade proponibili nell'immediato è quella di rafforzare, in vista della formazione dei poli e delle coalizioni elettorali, la dialettica politica tra associazionismo, organizzazioni sindacali, volontariato, la società civile progressista e i tradizionali interlocutori politici. Un polo sociale nel polo progressista che acquisti via via peso politico e sappia sviluppare una dialettica vera non formale capace sia di influenzare concretamente i programmi, sia di selezionare conseguentemente le candidature. Questa via di transizione consentirebbe anche forme di doppia militanza, sia nei partiti in via di rinnovamento, sia nei nuovi poli di azione politica che si verranno a formare in sede nazionale e locale. E la speranza è quella che in breve tempo i secondi acquistino un peso crescente tale da portare nei fatti alla nascita e al consolidamento di soggetti politici della Sinistra pienamente legittimati e autorevoli. (J ",W- - (,) - ----.,/ / . - I , jo' 9

{)!LBIANCO Oll,,ILROSSO t+iikiil•ii Sindacateoimprenditori, anchepervoi è l'oradel«nuovo» di Raffaele Morese u n accordo sulle relazioni sindacali che incorpori anche un nuovo sistema contrattuale e le regole per l'elezione e il ruolo delle rappresentanze sindacali di base ha lo stesso valore di una riforma istituzionale. Non c'è, ovviamente, nessun automatico parallelismo tra le difficoltà che si sono incontrate sui due fronti. Ma è evidente che il conflitto tra nuovo e vecchio sulle riforme istituzionali, che attraversa tutto lo schieramento politico italiano, ha una qualche corrispondenza anche nello schieramento sociale che da molti mesi è impegnato a dare completamento all'accordo del 31 luglio. Se così non fosse, non si capirebbe perché con il governo Amato si sia arrivati solo nei pressi della conclusione, senza riuscire a concludere davvero. Infatti, è quanto meno strano che i soggetti sociali coinvolti - tutte le rappresentanze imprenditoriali e i sindacati confederali - sottoscrivano una pre-intesa sulla politica dei redditi e non siano in grado di trarne conseguenze coerenti per il modello contrattuale. Viene in mente ciò che è capitato con il referendum sul sistema elettorale. Un largo schieramento di partiti, ufficialmente per il sì, trova anche un largo consenso tra l'elettorato, ma poi si blocca e si frantuma sulla scelta del nuovo. Tanto sotto quella pre-intesa, quanto nel sì referendario, si è nascosta cioè una buona dose di trasformismo, che al momento giusto è venuto fuori. Sul piano politico, nel voto alla Camera per l'autorizzazione a procedere nei confronti dell'on. Craxi (segnando una delle peggiori pagine della storia parlamentare di questo Paese). E sul piano sociale, nelle resistenze al cambiamento del sistema contrattuale. Il nuovo Governo, e verosimilmente soprattutto il nuovo ministro del Lavoro Giugni, devono riuscire a rimontare le vischiosità che si sono depositate dopo l'interruzione del negoziato. In termini di contenuto la questione nodale resta l'intreccio tra contrattazione nazionale di categoria e contrattazione decentrata, specie sotto il profilo salariale. Se, formalmente, lo scontro tra le parti ha riguardato la contrattazione decentrata e lo spessore del suo valore integrativo, sostanzialmente però la questione resta più complessa. È impensabile che il sistema delle imprese si voglia privare di una qualche capacità di regolamentazione del consenso a livello aziendale: sempre più, nei prossimi anni, le possibilità di successo sui mercati dipenderanno dall'efficacia delle strategie di «qualità totale», e non è immaginabile che le imprese credano di poterle perseguire senza coinvolgere il sindacato, e quindi senza passare attraverso la contrattazione. Ciò vale anche per il settore pubblico. D'altra parte, il sindacalismo confederale ha già detto che i parametri cui deve rapportarsi la contrattazione decentrata del salario sono fondamentalmente tre: le condizioni di lavoro, la produttività, le redditività. I margini per una composizione degli interessi su questo punto c'erano già prima del 18 aprile, e ci sono tuttora. Ciò che ancora manca è l'intreccio tra i due livelli contrattuali: e non è indiferente se i compiti del contratto nazionale di categoria saranno assegnati seguendo criteri tradizionali e se si riuscirà invece a progettarli secondo canoni nuovi. Secondo tradizione, la durata dei contratti e lo scaglionamento salariale nel corso degli anni di vigenza sono variabili dipendenti da valutazioni

{)!LBIANCO '-", ILROSSO kiikiiliti che si fanno non all'inizio della trattativa, ma semmai alla fine. Ciò è comprensibile, in un regime di relazioni sindacali contrassegnato dalla scala mobile. Ora però manca la funzione di tutela di quest'ultima, che ai fini della salvaguardia del salario reale dovrebbe essere sostituita da una politica dei redditi capace di indicare la tendenza cui i contratti dovrebbero attenersi. Ma, se non si intende mettere in atto un regime amministrativo di controllo delle autonomie contrattuali di categoria, e si vuole evitare che si acutizzi la spaccatura tra settori contrattualmente forti e settori deboli, la questione della durata dei contratti e della distribuzione tempqrale degli aumenti non può essere sottoposta a singole opzioni categoriali. Deve, invece, rappresentare un vincolo che dà il ritmo al complessivo andamento della contrattazione, la cui regolarità sarà tanto più certa quanto più precisa è la regolamentazione dello svolgimento delle trattative. D'altra parte, la necessità di far corrispondere gli aumenti salariali alla inflazione media effettiva (contando sul fatto che gli interventi di politica dei redditi facciano coincidere l'inflazione reale con quella programmata) spinge ad una sorta di scissione tra tempi di attuazione delle modifiche normative e tempi della crescita salariale. Quanto più questi ultimi sono ridotti, tanto più forte e più immediato è il controllo della corrispondenza tra salario contrattato e inflazione media effettiva. Se così non fosse, al di là della volontà delle parti, i rinnovi dei contratti sarebbero ad alto contenuto conflittuale. Con tempi lunghi (3-4 anni) i comportamenti delle parti si farebbero più difensivi e le previsioni più incerte: quelle padronali tendenti al ribasso e quelle sindacali tendenti al rialzo. È evidente che una riforma del sistema contrattuale di questo genere rompe con la tradizione, e in primo luogo mette in mora la tesi che, in fondo, i contratti si fanno unicamente in ragione dei rapporti di forza. Non voglio affermare che questi ultimi non conteranno più, ma certo se - 11 anche nelle convenzioni - rimanessero centrali e determinanti, non avrebbe senso parlare di un sistema partecipativo nelle relazioni sindacali. In secondo luogo, la riforma del sistema contrattuale dà effettivamente forza e credibilità alla politica dei redditi. Chi ha firmato la pre-intesa pur non essendone convinto, l'ha fatto pensando (e dicendo) che in fondo ciò che conta è la contrattazione. E se la contrattazione si farà in modo tradizionale, sarà questa che varrà realmente, non la sede concertativa di politica dei redditi. In terzo luogo, essa chiama le singole categorie ad una maggiore trasparenza negoziale, e quindi ad un maggiore e reciproco confronto e controllo. Ciò vale per i comportamenti di entrambe le parti sociali, ma per quanto riguarda il sindacato ciò si traduce in una maggiore confederalità delle singole categorie; nel senso che la loro autonomia contrattuale deve essere rapportata sempre di più alle indicazioni di politica dei redditi e dev'essere sottoposta ad un più elevato tasso di confrontabilità intracategoriale. Sotto il profilo dei rapporti tra settore pubblico e settore privato, tra settori esposti alla competitività internazionale e settori non esposti, tra settori forti e settori deboli il nuovo schema di contrattazione tende ad accrescere le solidarietà. La tradizione va dunque superata, nell'interesse del sindacalismo confederale e della tutela dei lavoratori. La ripresa delle trattative con il nuovo Governo deve consentire di farlo. L'operazione è politicamente rilevante perché non si tratta di mettere in campo abilità mediatorie o contrattuali, quanto di far prevalere le forze dell'innovazione. E se queste ce la faranno, potranno dare una mano a quanti vogliono cambiare le regole della democrazia rappresentativa nel nostro Paese. In fondo, democrazia economica e democrazia politica difficilmente hanno viaggiato su binari divergenti. Ed in questa fase il parallelismo è più evidente che mai. Proprio per questo, è necessario che questa trattativa riparta da dove l'ha lasciata il governo Amato, e divenga rapidamente l'altra faccia delle riforme istituzionali.

{)!LBIANCO "-'L, ILROSSO liiki;iliii Nuovsi cenari e sindacalismcoonfederale di MarioZoccatelli osa sarà del sindacalismo confederale italiano nel nuovo scenario? e La domanda è motivata dai profondi rivolgimenti che stanno avvenendo nella società italiana, e dall'apparente estraneità del sindacato a questo travaglio. Non estraneità alle vicende. L'accordo del 31 luglio 1992 ha fatto di Cgil-Cisl-Uil un punto di riferimento importante del governo Amato; molte delle decisioni dello stesso, in agenda da anni, si sono tradotte in provvedimenti di legge grazie anche alle iniziative e alle pressioni delle confederazioni. Non solo la minimum tax, ma anche la riforma del rapporto di lavoro nel pubblico impiego, le privatizzazioni delle partecipazioni statali e così via. In un momento di grande confusione politica e istituzionale, con i partiti spesso paralizzati dalla propria incapacità di cambiare (e non dalle inchieste dei giudici), il sindacato confederale ha costituito un punto di riferimento abbastanza stabile e costante. Vi sono stati travagli e difficoltà, soprattutto all'interno della Cgil; a causa di ciò non si è arrivati alla definizione della «seconda parte» dell'accordo del 31 luglio '92. Ma in occasione dei referendum del 18 aprile Cgil Cisl e Uil si sono schierate con nettezza sul quesito relativo al sistema elettorale. Un'isola di certezze nei rivolgimenti generali? In ogni caso: nonostante travagli e incertezze, il sindacato appare molto più solido dei partiti. Solo altre strutture associative, come la Confindustria, mostrano una compattezza di questo genere. Nessun dibattito «fondamentale» percorre il 12 sindacato. La Cgil aveva avviato già da alcuni anni un suo confronto interno che si era già rivelato sofferto e difficile e che continua adesso; ma non si può dire che si tratta di un fenomeno nuovo; è la prosecuzione di un confronto che, oltre ad avere radici antiche, non esce dall'interno della confederazione e non coinvolge Cisl e Uil. Le quali, dal canto loro, sembrano passare attraverso le vicende attuali armate di certezze di linea e di solidità organizzative. La Uil prima e la Cisl adesso vivono la procedura congressuale all'insegna della continuità e tranquillità del gruppo dirigente, con una irrelevanza del dibattito sui temi economici, sociali e politici e una centralità delle questioni di manutenzione dei gruppi dirigenti. Mentre quindi i partiti e la politica si stanno interrogando su quali debbano essere le istituzioni, le forme di elezione e di governo, le aggregazioni politiche e la loro identità, forma, funzione, i sindacati confederali continuano nella sicurezza o nei travagli di prima, come se fossero una realtà immune da ciò che sta avvenendo fuori. Quali probabilità ci sono che questa tranquillità duri nel futuro? Il sindacato confederale è già adesso il sindacato della seconda repubblica? Ci sono vari motivi per riflettere. Ci attende una fase costituente La fase attuale non è una delle tante crisi che hanno contrassegnato i decenni precedenti. Anche la stampa più equilibrata e personaggi autorevoli parlano di «fine del regime», «rivoluzione pacifica», «seconda repubblica». Né si tratta di una crisi a una sola dimensione.

OlL BIANCO ~ILROSSO PIAl+iliit+t Non si può dire «politica corrotta, società sana». Fino a ieri politica e società erano strettamente intrecciate, si sostenevano a vicenda e traevano mutui vantaggi da questo sodalizio. Non si possono dare politici rigorosi a cittadini abituati - lasciamo stare per colpa di chi - a eludere i doveri come componente stabile delle proprie strategie. Siamo in una fase costituente perché sono troppi gli aspetti del vivere civile, economico e politico che devono essere ridefiniti contestualmente. Ci sono le questioni politiche e istituzionali; la riforma della pubblica amministrazione; c'è da ridefinire l'intervento pubblico nel!'economia e quindi, date le dimensioni delle partecipazioni statali, del tipo di accumulazione e di capitalismo; va ridefinito lo stato sociale. Questo vuol dire ripensare gli aspetti fondativi del patto tra cittadini, tra cittadini e stato, i riferimenti di fondo dell'interazione sociale ed economica. L'azione dei giudici ha rivelato quanto i principi fondamentali di uno stato di diritto fossero sistematicamente ed estesamente violati e ignorati, e di quanto ampio di conseguenza dovrà essere il processo di rigenerazione di una sensibilità etica. In una fase costituente, tutto è in movimento. Ciò che era certo ieri viene messo in discussione domani. E quella che ci attende non è una fase costituente relegata a una qualche assemblea parlamentare. È un processo che coinvolge tutti contemporaneamente, che si vive nella società e nel!'economia non meno che nelle sedi istituzio13 nali della politica. Per cui non sarà di breve periodo; non sarà chiaro e lineare; non sarà indolore. Il sindacato sarà coinvolto in questo processo. In genere, il sindacato soffre e finisce in seconda linea nei periodi di trasformazione. Il sindacato opera dopo che una situazione si è consolidata, quando è definita una struttura produttiva, i lavoratori dipendenti assumono configurazioni stabili e cominciano a produrre rivendicazioni, e quando c'è chiarezza nel quadro degli interlocutori, siano essi gli impreditori o, come spesso nel caso italiano, lo stato e le sue risorse. Nel dopoguerra, dopo una fase di protagonismo al momento della liberazione, il sindacalismo ha vissuto momenti difficili che hanno comportato anche le scissioni da cui sono nate Cisl e Uil e ha svolto un ruolo marginale fino agli anni Sessanta, dove riprende vigore a partire dalla nuova realtà dell'industria di massa e dalle partecipazioni statali. Nella fase che è davanti non sono i temi del lavoro e sociali a mancare. Anzi, come si è visto già con il governo Amato, tali questioni sono importantissime. La domanda è: il sindacato avrà idee e iniziative adeguate o no? L'interrogativo riguarda non lo spazio in sé, ma la capacità del sindacalismo confederale di svolgersi un ruolo. Ad esempio, la profonda ristrutturazione dell'industria avviata con gli anni Ottanta, e ben lungi dall'essere conclusa, perché il cambiamento sarà continuo, ha visto il sindacalismo industriale presente ma sulla difensiva.

{)!LBIANCO 0-Z, ILROSSO ATTUALITÀ Figli della prima repubblica Le domande sulla capacità del sindacato sono motivate dal fatto che il sindacalismo confederale non è «altro» dai partiti e dallo scenario adesso in crisi. Il sindacalismo confederale è profondamente intrecciato con la cultura, la politica e le situazioni che hanno condotto alla crisi morale, finanziaria, politica e istituzionale della prima repubblica. Cgil Cisl e Uil sono state parte integrante del sistema consociativo in crisi e dei suoi meccanismi di ricerca del consenso tramite la distribuzione di risorse pubbliche anche a scapito del1' efficienza, dell'efficacia e degli altri valori di questo genere. Hanno avuto un rapporto profondo con il sistema politico (partitico) e simbolico italiano quale si è definito nel dopoguerra; nascono dai partiti, si rompono e dividono seguendo i destini dei rispettivi schieramenti nella guerra fredda. L'identità profonda dei sindacati confederali italiani è culturale e politica prima che sindacale, ed è stata per lungo tempo la stessa degli schieramenti filosovietici e filooccidentali (i «sindacati liberi»). Quando tutto ciò comincia a cambiare, negli anni Sessanta, il sindacalismo confederale cresce in primo luogo grazie alla componente industriale e successivamente nelle grandi amministrazioni pubbliche, vale a dire nelle aree deltaylorismo di massa dalla prima repubblica, cioè in quegli ambiti che la modernizzazione deve necessariamente ristrutturare: come è avvenuto nell'industria, come dovrà avvenire nel pubblico. La rappresentanza delle confederazioni è costituita dai lavoratori e dai cittadini della prima repubblica. Le confederazioni non sono cioè «altro» rispetto al sistema in crisi; il loro legame col sistema politico (tramite l' indentità profonda), con le risorse pubbliche che la stessa politica distribuisce, con una composizione sociale definitasi con l'industria, la burocrazia, l'assistenza di massa è centrale rispetto alla loro attività ed esistenza. Una costituente sindacale? Se lo sguardo si amplia e va oltre la cronaca, 14 emerge con forza che ci sono molti interrogativi sul sindacato dei prossimi anni. Se si superano i meccanismi coinvolgenti del consociativismo, ci sarà ancora spazio per quel1' azione capillare di trasferimenti di risorse pubbliche su cui ha operato fino a ieri anche il sindacato? Se emergono esecutivi autorevoli e funzionanti, legittimati da meccanismi elettorali diversi, aspetteranno la composizione delle contraddizioni sindacali prima di decidere? Se il senso dello stato e delle regole saranno una componente importante, sarà possibile per i sindacati restare un'area separata e totalmente autoregolamentata? Se il processo di modernizzazione, avviato da tempo nell'industria, si amplia e si estende al «sistema paese», e quindi all'attuale zona pubblica, quale sarà il ruolo dei sindacati sui posti di lavoro? Se le identità politiche si ristrutturano, hanno ancora senso le confederazioni attuali, la loro tripartizione e le loro articolazioni interne? Sono domande impegnative, e non ci sono le risposte. Una combinazione favorevole di fattori ha evitato finora la crisi del sindacato. La gravità della crisi e la presenza di un governo insieme debolissimo nella sua sede naturale, il Parlamento, ma determinato a operare più di altri governi a base di consenso più ampia; un governo bisognoso quindi di consenso extraparlamentare; la solidità organizzativa e sociale del sindacato, fondata, a differenza dei partiti, su un lavoro diffusissimo, capillare e continuo di contatti, servizi e assistenza coi lavoratori, attività immensa e preziosa che costituisce il vero patrimonio di consenso di ciascuna confederazione, e che non dipende dalla linea del momento né è condizionato dai litigi eventuali all'interno del gruppo dirigente; la presenza di una leadership sindacale responsabile (in tutte e tre le confederazioni), ma particolarmente determinata e orientata sui grandi temi (nel caso della Cisl); la combinazione di tutto ciò ha condotto ai fatti che la cronaca dell'ultimo anno ci ha consegnato. Dove il sindacato ha avuto un ruolo non in quanto sindacato (le conquiste specifiche sono state del tutto modeste), ma in quanto «partito laburista» ombra. D'Antoni, più che segretario di Cgil Cisl e Uil, è stato il segretario di uno dei vari partiti che non ci sono. Dal punto di vista del sindacato non sono poche le critiche che si possono fare a quanto

{)!LBIANCO ~ILROSSO iiikNliiki è avvenuto, se ci si mette dal punto di vista del partito laburista, le scelte appaiono ispirate a una visione strategica di governo che ha al centro gli interessi del paese. D'Antoni appare come un leader politico deciso e coerente, più che come sindacalista, paragonabile in questo non ai vecchi segretari di partito invischiati nel passato ma a figure nuove tipo Segni. Ma il sindacato, sotto, è rimasto quello di prima; e il sindacato, sul medio periodo, è un fatto sociale. La contraddittorietà massima è presente, ancora una volta, nella Cgil, dove l'incapacità di evoluzione e l'abbraccio tra le varie culture del passato rischia di avere progressivamente effetti dirompenti e autodistruttivi non solo per la Cgil, ma per l'intero sindacalismo confederale. Il comportamento schizofrenico seguito all'accordo del 31 luglio 1992, oppure l'oscillazione continua tra assunzioni di responsabilità e rifugio nella ribellione sono di per sé preoccupanti; ma la spinta auto (ed etero) distruttiva raggiunge il culmine con l'adesione al referendum sull'art. 19 dello statuto: l'incapacità di cambiare conduce a un «cupio dissolvi» di massa. La Cisl è sicuramente in condizioni migliori; più serena al proprio interno, abbastanza duttile da adattarsi con rapidità e senza contestazioni ai comportamenti anche opposti dei segretari generali che si succedono, di trattare le condizioni 15 belle ma anche quelle brutte con gli interlocutori più diversi. Ma è sufficiente? Se si combinano alcuni elementi sopra richiamati, non sarà sufficiente. La Cisl e la Uil, da sole e con le loro caratteristiche attuali, non possono essere la risposta né alle spinte autodistruttive (se sparisce l'art. 19 e i privilegi ad esso associati, ciò avviene per tutti) né alle sfide di una realtà in trasformazione. Solo un sindacato unitario, rappresentativo e innovativo può reggere le sfide del futuro da protagonista. Come per i partiti, le identità del passato pesano: chi è dentro tende disperatamente a difendere l'identità come un patrimonio anche quando la realtà procede tumultuosamente e richiederebbe soluzioni nuove. E come è difficile pensare ad aggregazioni politiche nuove come risultato di accordi tra le vecchie identità, così è difficile pensare a forme di rinnovamento sindacale basate sull'unità tra questa Cgil, questa Cisl e questa Uil. Non meno improbabile una crisi verticale della Cgil con travaso generalizzato nella «grande Cisl», o cose del genere. Anche per il sindacalismo confederale si delinea così una problematica «costituente», vale a dire se e come sia possibile costruire un sindacalismo nuovo, che superi il passato fondendo gli elementi validi in identità che non abbiano le loro radici nella guerra fredda.

~!LBIANCO ~ILROSSO iii•iil•ii Unastoriadiuominivivi allesogliedelduemila Intervista al prof. J acques Le Goff * di Giovanni Gennari Jacques Le Gol/, francese di Tolone, 68 anni, storico. Condirettore della mitica rivista «Annales», erede di Mare Bloch e di Lucien Febvre e Fernand Braudel, preside della Scuola Superiore di Scienze Sociali di Parigi. Uno degli elaboratori della teoria della «Nuova Storia». Ha particolarmente studiato il Medioevo, ed è autore di una monumentale «Storia della civiltà dell'Occidente medievale» (Sansoni, Firenze, 1969, poi Einaudi, Torino, 1981). Tra le sue principali opere: «Gli intellettuali del Medioevo», Mondadori, Milano, 1959; «Il Basso Medioevo», Feltrinelli, Milano, 1967; «Mercanti e banchieri nel Medioevo», D'Auria, Messina-Firenze, 1976; «Tempo della Chiesa e tempo del mercante», Einaudi, Torino, 1977: «La nascita del Purgatorio», Einaudi, Torino, 1982; «Intervista sulla storia», Laterza, Bari, 1982; «Il meraviglioso e il quotidiano nell'Occidente medievale», Laterza, Roma-Bari, 1983; «La borsa e la vita: dall'usuraio al banchiere», Laterza, Bari, 1987. Ha collaborato alla monumentale «Storia d'Italia» della Einaudi, ed ha curato molti volumi collettivi. In Italia è nel Comitato direttivo, per la Giunti editore, della rivista «Storia e Dossier». È venuto a Roma, di recente, per presentare i primi due volumi di una grandiosa collana, in 5 lingue, che da noi è stampata da Vito Laterza. «Fare l'Europa»: è il titolo complessivo della collana, che si presenta con le due caratteristiche proprie dell'opera intera di Le Golf, la credibilità scientifica, che non si accontenta di narrare gli eventi dall'esterno, ma mette il lettore in condizione di capire uomini e fatti, e la facilità di esposizione, che apre al grande pubblico dei lettori non specialisti il panorama della storia d'Europa, e dell'uomo che in Europa ha vissuto. Le Golf si conferma qui nemico dell'irrazionalismo e del catastrofismo, studioso aperto alle più diverse metodologie e discipline, ricercatore paziente e fantasioso insieme, curioso e tenace, scrittore brillante, creatore di formule incisive. Con lui la storia non si presenta solo come conseguenza di avvenimenti, ma come ricerca e documentazione della evoluzione delle idee, attenta non solo alle istituzioni, ma ai comportamenti, ai sentimenti, alJe superstizioni, alle speranze e alle delusioni, ai desideri e alle passioni, e trova le sue fonti non solo nella politica, ma nella economia, nella piscologia, nella etologia, nella sociologia. È certamente uno dei massimi divulgatori della storia per l'uomo di oggi: estroverso, capace di buonumore, comunicativo, amante della buona cucina, come della vita in genere. Un saggio, insomma ... - ProfessorLe Goff, oggi l'Europaappare politicamente in via di unificazione, per quanto faticosa, ma culturalmente percorsa da una serie di fenomeni che vanno in senso opposto, i nazionalismi. gli etnocentrismi, addirittura una vera e propria guerra etnica nella ex Jugoslavia. In passato, invece, l'Europa appari- * * * 16 va politicamente molto divisa, più di oggi. ma culturalmente molto più omogenea... Come mai? «È vero solo in parte. Nel passato, penso al '700, la cultura comune, che c'era, era solo una cultura delle élites, era una cultura molto notevole, ma superficiale da un punto di vista delle

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