{)!J,BIANCO Oil..ILROSSO iil•iiliii lezioni di consigli regionali in astratto sovrani, ma poi si fissavano rigidamente la quantità e gli standard di servizi da offrire alla popolazione attraverso il riparto delle spese da parte dello Stato (senza riferimento alcuno al contributo fiscale di ogni regione), è indicativo dei paradoi,si in cui si incorre quando si vogliono percorrere obbiettivi tra loro inconciliabili. Se l'obiettivo è quello di offrire a tutti i cittadini italiani standard omogenei di servizi pubblici, il decentramento politico è inutile e l'accentramento delle politiche tributarie è inevitabile. Nell'esperienza italiana ciò ha significato un approccio del tipo «prima le funzioni, poi la spesa, la finanza seguirà». Per quanto criticabile, specie nella burla di affidare compiti assolutamente identici in tutto il territorio nazionale a organi assembleari elettivi formalmente sovrani, quest'impostazione è la conseguenza obbligata del!'accettazione del!'eguaglianza delle prestazioni su tutto il territorio nazionale. Se si vuole passare ad uno schema rigorosamente federale va accettata l'idea di prestazioni differenziate non solo sulla base delle diverse opzioni strategiche dei governi locali, ma anche sulla base del diverso gettito fiscale, secondo una sequenza «prima la finanza, poi la spesa e le funzioni seguiranno». Tra i due estremi le mediazioni sono «pastrocchi» istituzionali, a meno di non essere costruite in modo molto attento, specie quando si passa alle materie concrete su cui le funzioni dovrebbero differenziarsi (sanità, assistenza, in primis). Di conseguenza, a meno di non andare a qualche sorta di «federalismo etnico», la soluzione da perseguire non può che essere quella di allargare solo in misura limitata le competenze regionali e la relativa autonomia impositiva, in modo che la diversità nei livelli di prestazione si esprima solo per la quota di entrate derivante dall'esercizio dell'autonomia impositiva. Si configurerebbe in questo modo l'attribuzione di un regime di «specialità» ad un certo numero di regioni più ricche, simile a quello già esistente per le regioni, a statuto speciale, vincolato alle effettive capacità di entrate autonome, mentre la parte restante delle funzioni continuerebbe a seguire il tradizionale criterio del!'omogeneità delle prestazioni su tutto il territorio nazionale. Altro che il «massimalismo federalista» di cui si discetta a vanvera su tutte le gazzette nazionali. 8 Ma torniamo alle regole elettorali. Come mai oggi appare possibile questo rivolgimento nei criteri di selezione del personale politico, che, forse, sarà in grado di selezionare i migliori invece dei peggiori? La risposta è ovvia e banale. Tutto nasce dal 1989. Ma è anche di lì che emerge per la prima volta con forza la possibilità di cambiare le regole elettorali. Prima di allora si trattava solo di discussioni accademiche, nulla più. Le regole elettorali - come è noto - forzano le opzioni di voto ma non le inventano ne stravolgono la segmentazione della cultura politica di un paese. A chi - come anche Camiti - ama tanto lo schema bipolare, va osservato come, all'estero, anche le esperienze di maggioritario più radicali non siano riuscite a sopprimere i poli presenti nello spazio politico di un paese. Mi pare che su questo punto ci sia un equivoco di fondo. Qualsiasi formula disrappresentativa di traduzione dei voti in seggi serve egregiamente a ridurre - anche in modo drastico - la frammentazione partitica - non la multipolarità, se questa è radicata nell'elettorato. E forzare a 2 ciò che deve rimanere a 3, o a 4, o a 5, è sommamente pericoloso proprio in ragione di quel compromesso pragmatico che presiede alla scelta di qualsiasi regola elettorale. Ma ve lo immaginate un democristiano di sinistra, militante sindacale di fabbrica, rigorosamente anticomunista da 45 anni, cosa dovrebbe votare se forzato a scegliere tra il candidato dei progressisti (magati un ex comunista da sempre visto come il fumo negli occhi) e il candidato dei moderati (un liberale vecchio stampo, di professione imprenditore, e per giunta antisindacale)? Ma cosa deve fare questo povero cristo? La mia impressione è che ci sia una certa dose di volontarismo illuminista in cl:ii immagina, qui e ora, in Italia, scenari di questo genere. Se invece non è così, il rebus della ristrutturazione dello spazio politico italiano si risolve quando si capirà che fine farà la Dc. Se sopravvive, anche smagrita di molto, non è impossibile immaginare una struttura tripolare delle preferenze di voto attraverso la forzatura operata dalle regole elettorali maggioritarie. Per diverse ragioni non è uno scenario dotato di stabilità, dunque non necessariamente entusiasmante. Neppure se a sostituire la Dc si candida la Lega, la quale ha tutto l'interesse ad occupare il centro dello spazio po-
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