sioni sono del tutto autonome rispetto alle influenze esterne. Si tratta quindi di una riaffermazione di ruolo, che tende a negare qualsiasi condizionamento diretto nelle decisioni di politica monetaria, anche paradossalmente di comportamenti «virtuosi»; è la dichiarazione della permanente validità del dogma della moneta, come variabile indipendente del sistema economico, di cui è sacro ed assoluto garante il banchiere centrale. Si tratta, come è nolo, del principio fondamentale su cui è basata la politica monetarista nei confronti dell'inflazione; questa è basata su un tasso di crescita della moneta, costante e contenuto e su una politica governativa rigidamente predefinita ed invariante rispetto ad accordi su prezzi e salari. In quest'approccio la banca centrale è in grado di controllare con l'unico strumento che ha a disposizione, la politica monetaria, sia l'economia che il sistema di relazioni industriali. La cronaca di questi mesi sta a testimoniare quanto sia costoso tale approccio in termini di sviluppo ed occupazione. D'altra parte il singolo paese non riesce a sottrarsi ad una diffusa situazione deflazionistica; è il caso della fragile economia italiana, ma anche della ben più robusta economia francese. Unapolitica dei redditi europea D'altra parte la giusta critica delle politiche monetarisle non può esaurirsi nella rimozione della questione dell'inflazione, come si tende spesso a fare a livello europeo. le ipotesi alternative tendono a sorvolare tale questione, arrivando al più a raccomandare ai governi di essere meno ossessionati dal problema dell'inflazione e del riequilibrio di finanza pubblica. Alla precisa ricetta monetarista non si oppone che un imbarazzato disinteresse. È il caso ad esempio della ricerca di Cripps e Ward prodotta per il gruppo socialista del Parlamento Europeo. Molto dell'approccio di questi studiosi è largamente condivisibile. A partire dalla constatazione che un programD.!J, BIANCO ~ILROSSO • I 8° ;u 1P+II••~ cu~ 1 u11 ma della sinistra europea deve essere basalo su istituzioni comunitarie più forti e rappresentative, che siano soggetto di politica economica, in un quadro monetario pienamente integrato. Si condivide pienamente l'idea che vada corretta la tendenza anlisviluppo dell'attuale sistema monetario, che esaspera la competizione tra le diverse valute nazionali. È giusta la rivendicazione di una più stretta cooperazione tra le banche centrali, che sposti la politica monetaria dalla difesa degli interessi nazionali a quelli europei. Appare anche adeguata la scelta di dare un peso maggiore alle azioni di sviluppo locale, prevedendo trasferimenti più elevali di supporto ad investimenti a livello di regione ed area urbana secondo la logica del partenariato; a questo proposito molto deve essere fatto nell'Europa mediterranea, ed in particolare in Italia, per strappare la gestione degli interventi locali alla logica parassitaria degli occulti comitali d'affari (leggasi Tangentopoli) e ricondurla ad una trasparente strategia concertata di sviluppo locale. Ma la proposta di Cripps e Ward va integrata proprio sugli strumenti di controllo dell'inflazione; se l'obiettivo è uno sviluppo medio del Pii del 3-4% per anno, non si possono lasciare margini di ambiguità al riguardo. Poiché l'alternativa alla politica monetarista è la politica dei redditi, va detto che è necessario, se si vuole rispettare quell'obiettivo a beneficio soprattutto delle aree svantaggiate e dei paesi dell'Europa orientale, un forte patto sociale, che punii al controllo della dinamica dei prezzi e dei salari. E sempre più appare necessario, data l'integrazione dei mercati e l'interdipendenza delle politiche, andare verso una politica dei redditi europea, che sostituisca la tacita convenzione monetarista. Il problema non può rimanere confinato nei confini nazionali, come se i reciproci condizionamenti non esistessero ed, evidentemente, coinvolge il ruolo del sindacato europeo. Questo dovrebbe essere titolato ad accettare una qualche limitazione della dinamica salariale in cambio di una scelta economica espansiva, di 54 garanzie sulla politica sociale, di interventi di rilancio dell'industria e della ricerca europea. Spostare la cura dell'inflazione dalla strumentazione monetarista a quella neokeynesiana avrebbe l'effetto di primo impatto di ridurre i tassi di interesse reale e, dato l'attuale elevato livello di questi, avrebbe benefici effetti sugli investimenti e sulla capacità di spesa dei paesi e degli operatori indebitati. A questo si aggiungerebbe l'autonomo apporto degli investimenti in infrastrutture e ricerca, attivalo dalla politica industriale. Una politica dei redditi a livello europeo è oggi necessaria, ma nella prospettiva di una moneta unica appare indispensabile; allora singole posizioni sindacali a livello nazionale risulteranno assolutamente deboli rispetto alla determinazione delle «regole del gioco» (cioè della politica monetaria) a livello europeo. Uno sguardo oltre oceano La ripresa negli Stati Unili e la svolta di politica economica di Clinlon meritano una pur veloce notazione, perché potrebbero portare ad una riconsiderazione di alcuni punti della ricerca di Cripps e Ward. L'attuale fase di sviluppo economico risulta qui non inflazionistica a causa anche della particolare situazione nel campo delle relazioni industriali ereditata da quasi un quindicennio di politica reaganiana; la débacle sindacale, la forte flessibilità del lavoro e i livelli piuttosto elevati di disoccupazione garantiscono aumenti salariali particolarmente contenuti, che non determinano spinte evidenti sui prezzi. Per fortuna la situazione è generalmente diversa in Europa, ma questo ci impone la ricerca di condizioni di sviluppo sostenuto non inflazionistico. L'altro motivo di interesse, che ci viene dall'altra parte dell'Atlantico e che andrebbe attentamente considerato, è la reinterpretazione di un ruolo attivo dello stato nella politica keynesiana. Con la particolare calibratura
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