.{)!I~ BIANCO '-Xli~ R()SSO L'EUROPA E IL MONDO Europap:erora è solo un'incognitaA. rischio N ello spazio di due turni elettorali, la Francia ha liquidato seccamente un governo e ne ha uno nuovo; qualcuno crede di sognare dall'Italia, condannata a trattenere il fiato fino a un referendum popolare, e subito dopo ad aspettarne il complemento in una riforma elettorale, che permetta di scorgere la «luce in fondo al tunnel» delle diverse Tangentopoli. Se il metodo d'oltralpe ha funzionato, sia pure con tutte le arbitrarie approssimazioni, certo non balza in evidenza il nuovo nel risultato che ha prodotto. Son facce vecchie che ricompaiono sul proscenio del «Bebetteshow», anche se in ruoli ribaltati allo scoccare del giro di sedie musicali. A tal punto è vecchio il centro-destra, che pur trionfa, da mettere in rilievo solo l'enorme responsabilità del potere socialista uscente, di avere tradito tutti i segnali ricevuti in 12anni, e in diversi riscontri elettorali, sul modo di tenere in vita un movimento ispirato al socialismo nell'Europa di oggi. Il colmo è che sia, non la politica dei socialisti in Francia, ma i modi di gestirla, a condannarli. In Italia intanto, solo i modi vengono crudamente messi di Francesco Mattioli in luce - e anzi, sotto indagine giudiziaria - dato che, di una politica dei socialisti, da tempo non si può parlare. In Gran Bretagna, il laburismo è inerte anche con volti nuovi, dopo 4 sconfitte consecutive alle elezioni. Solo in Germania la socialdemocrazia, pur continuando a perdere suffragi, si risolleva nel concorrere, almeno, a un patto di solidarietà anche tardivo sul come assumere i costi dell'unificazione. Su questo sfondo, il socialismo sta scomparendo dal «who's who» in Europa. A Bruxelles solitario e ridimensionato, un socialista atipico, cattolico forse l'ultimo a leggere ancora Emmanuel Mounier, Jacques Delors deve interrogarsi sul con chi farà i conti nell'ultimo anno e mezzo di una presidenza della Commissione europea lunga senza precedenti, fino all'altro ieri (un punto nel tempo da collocare, per facilità, al primo «no» danese al trattato di Maastricht, ma più probabilmente antecedente e non captato) anche la presidenza più coronata da successo. Da ultimo, questo giudizio rimesso in discussione, se non dalla storia, dal cumulo di contrattempi e coincidenze le quali forse ritardano soltanto, ma al momento deviano, il corso della storia. 51 Si può affermare la speranza che la costruzione europea sopravviverà alla sclerosi di una delle maggiori famiglie politiche, così come ha sopravvissuto alla pratica eclisse - tranne in Italia e nel triangolo tra Bavaria, Paesi Bassi e Fiandra belga - delle formule partitiche di presenza dei democratici cristiani. Ma anche queste sono al tramonto, e specie in Italia, anch'esse senza aver saputo dissolversi per tempo in concime di democrazia, invece di abiettamente abbarbicarsi come parassiti al corpo della società e dello stato. Qua e là rilanciata più da omonimie esterne che da vitalità propria, rimane l'ultima famiglia storica dell'europeismo, quella così detta liberale: e ognuno vede quanto poco conti, interpretata al massimo come conservatorismo, opportunista e non illuminato, in Gran Bretagna. L'Europa dei padri fondatori ha cessato di esistere per decorso del tempo (e ancora, senza alternative percepibili); quasi forza inerziale, l'ultimo residuo, è quella che ha condotto gli eredi fino all'esaltazione di Maastricht. Sembrava il frutto ultimo della strategia collaudata da decenni in architetture istituzionali innovatrici: dal-
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