Il Bianco & il Rosso - anno IV - n. 39 - aprile 1993

ISS 1120-7930- SPED.ABB.POST. - GR. mnoo/o ~!LBIANCO l.XILROSSO MENSILEDI DIBATTITOPOLITICO Nuovogovernotrabuonipropositi e cattiveabitudini e di Pierre Camiti on l'aggressione goliardicosquadristica del Msi a Montecitorio ed al comune di Napoli, l'assedio al Palazzo si è trasformato da metafora a fatto. Tuttavia i pericoli maggiori per la democrazia, per ora, più che dagli agguati (che restano soprattutto problemi di ordine pubblico) possono venire dalla denutrizione. Se le bravate dei camerati di Fini suscitano giusta indignazione, ciò che deve preoccupare di più è l'incapacità del ceto politico di gestire la difficile transizione dal vecchio sistema al nuovo. 39 ANNOIV0 • APRILE1993• L.5.000

IN QUESTO NUMERO EDITORIALE Pierre Camiti Nuovo governo tra buoni propositi e cattive abitudini pag. 1 ATTUALITÀ ReS Le ragioni del nostro «Sì» pag. 4 Paolo Feltrin È davvero possibile il bipolarismo in Italia? pag. 6 Giovanni Gennari A proposito di «complotto». Quello vero c'è stato finora pag. 10 Renato Brunetta Emergenza economica: un'agenda per il medio periodo pag. 11 Annalisa Quaglia Droga: la repressione non serve. Anzi peggiora pag. 14 Franco Castrezzati 1943: crisi economica. E l'Italia riscopre lo sciopero pag. 16 Giovanni Gennari Quando l'informazione disinforma: un caso esemplare pag. 19 DOSSIER Cattolici. politica, Dc. Quale scenario per un futuro? Pierre Camiti C'era, una volta, la Dc. Ci sarà ancora? pag. 30 Giovanni Bianchi Rifondare una politica «popolare». Ben oltre questa Dc pag. 33 Raffaele Cananzi Unità dei cattolici in politica? Il dilemma attuale pag. 35 Paola Gaiotti de Biase La Dc come tale è finita. E il cattolicesimo democratico? pag. 36 Giovanni Gennari Crisi Dc: colpe di «chierici», ritardi di «laici» pag. 39 Maria Eletta Martini Il futuro? È già comincialo. Un partito popolare e pluralista pag. 42 Giulia Rodano «Cattolico» non è più una identità politica. E ora? pag. 44 Domenico Rosati Dc in crisi? Forse, ma per ora sta meglio degli altri pag. 46 Giovanni Tassani Una «nuova» Dc ad egemonia ecclesiastica rinnovata? pag. 48 L'EUROPA E IL MONDO Francesco Mattioli Europa: per ora è solo un'incognita. A rischio pag. 51 Gabriele Olini È possibile una strategia europea per lo sviluppo? pag. 53 INTERVENTI Antonio Salvatore Concussione e/o Corruzione: un chiarimento di termini pag. 57 SCAFFALE Annalisa Quaglia Donne in carcere. Un'indagine sulla detenzione femminile in Italia pag. 59 Illustrazioni tratte da «Codici liturgici miniati dei Benedettini in Toscana»

{)!LBIANCO ~ILROSSO 1a11 N&u;Jt+Jl8 Dopo il referendum del 18 aprile rischiamo infatti di arrivare alle elezioni anticipate. Non per scelta, ma per disperazione. Nel caso probabile (ed auspicabile) di vittoria del «Si» al referendum per il Senato, andare a votare senza prima aver cambiato anche la legge elettorale per la Camera, significherebbe semplicemente rendere ancora più difficile, se non addirittura impossibile, governare questo paese. Di problemi ne abbiamo già tanti e di difficilissima soluzione. Non si capisce quindi la ragione per cacciarci in una nuova trappola. Le soluzioni possibili, realistiche, non sono però molte. Nei giorni scorsi è stata prospettata l'ipotesi del così detto governo istituzionale. Cosa esattamente sia un governo istituzionale non è però risultato molto chiaro. Da quel che si è capito si dovrebbe trattare di un governo diretto dal presidente della Camera, o del Senato, o (forse) anche dalla Corte Costituzionale e con ministri scelti al di fuori del personale politico tradizionale. Insomma, una sorta di governo dei tecnici. Si deve supporre, non perché i tecnici governano meglio (chi l'ha detto che per essere un bravo impiegato delle poste si debba essere anche un filatelico?) ma perché, presumibilmente, sarebbero più a prova di avviso di garanzia. Lo scopo principale, se non addirittura esclusivo, del governo istituzionale dovrebbe essere quello di consentire al Parlamento di varare al più presto la nuova legge elettorale per andare, subito dopo, alle urne. Sostenitori di questo governo, oltre ai partiti della attuale coalizione, avrebbero dovuto essere anche il Pds e il Pri. Naturalmente tutto potrebbe ancora succedere, ma la proposta del governo istituzionale sembra nata morta. Martinazzoli non ha infatti nascosto la sua radicale contrarietà. Bisogna dire tuttavia che, anche senza il siluro del segretario Dc, essa è subito apparsa più volenterosa che concreta. I partiti che avrebbero dovuto sostenere il governo istituzionale non sembrano infatti avere la stessa opinione su molte cose, ma, quel che conta sapere, su come deve essere fatta la nuova legge elettorale. Anche se al loro interno prevalgono i favorevoli all'uninominale maggioritario, sono infatti divisi tra di loro sul «tipo» di maggioritario da adottare. Se perciò la soluzione di questo nodo fosse rinviata a dopo la formazione del governo, non è difficile immaginare che le schermaglie e le trattative per trovare un com3 promesso saranno piuttosto lunghe. Ammesso che si possa trovare un compromesso tra l'uninominale ad un turno e quello a due. In ogni caso, nell'attesa di riuscire a far varare la nuova legge anche un governo istituzionale dovrebbe occuparsi di altre questioni. Prima fra tutte quella di tentare di governare l'economia che è ormai al collasso, con conseguenze sociali ogni giorno più intollerabili. Cosa impossibile da farsi senza un programma politico o, quantomeno, alcune essenziali idee comuni. Ma sui temi economici le posizioni del Pds e del Pr, ad esempio, non sembrano proprio coincidenti. Il che, naturalmente, costituisce un problema. Allora, come se ne può uscire? La cosa più ragionevole (se l'obiettivo è quello limitato di dar vita ad un governo che abbia il solo incarico di varare una nuova legge elettorale e duri il tempo strettamente necessario per farlo) è che il nuovo governo sia formato tra quelle forze politiche che, in particolare su questo punto, hanno lo stesso progetto. Non quindi un governo del «Si», di cui pure si era parlato, ma un governo di quelli, tra i partiti del «Si» che sono d'accordo per il maggioritario ad un turno. Oppure, al contrario, tra quelli che chiedono il doppio turno, a seconda che la maggioranza si formi sull'una o sull'altra proposta. Alternativa che, dopo il referendum, il capo dello Stato è in grado di accertare assai rapidamente. Una simile soluzione, anche se inconsueta per la nostra tradizione politica (dove le maggioranze di governo si formano di solito sul niente e spesso purtroppo anche per non combinare niente) potrebbe contribuire a diradare una confusione che, diversamente, rischia soltanto di portarci all'impotenza ed alla paralisi, al disastro politico. Sarebbe inoltre utile per incominciare a rompere con le tentazioni consociative. Proposito tante volte annunciato, ma mai praticato per la sua innegabile maggiore scomodità. In questo modo, oltre tutto, anticiperemmo, di fatto, quella che diventerà la regola con l'adozione del sistema maggioritario. Per quasi mezzo secolo la consociazione è stata in parte una necessità prodotta dalla proporzionale ma è stata anche (e nello stesso tempo) l'approdo delle nostre discutibili abitudini politiche. Non è perciò arbitrario pensare che prima riusciamo a liberarcene e prima riusciremo anche a costruire un futuro politico davvero diverso.

,Pll-~ BIANCO lXILROSSO Leragionidelnostro«Sì» Direttivonazionale di ReS (3 aprile 1993) R ivolgiamo un appello alle iscritte, agli iscritti, e ai simpatizzanti di ReS perché partecipino attivamente alla campagna referendaria a sostegno delle ragioni del Sì. In particolare per il Sì al cambiamento della legge elettorale per il Senato. Riteniamo infatti che il referendum del 18 aprile costituisca un primo e decisivo appuntamento per il passaggio dalla democrazia consociativa alla democrazia dell'alternanza. Per realizzare questo passaggio servono nuove regole elettorali e soprattutto nuove istituzioni, capaci di ripristinare l'autorità dello Stato, impedendo così che partiti vecchi e nuovi esorbitino dalle loro funzioni costituzionali. La legge elettorale, che meglio si presta a tale scopo, nel quadro di regole e di istituzioni che inducano ali'alternanza, è quella maggioritaria a due turni con correzione proporzionale. Tre sono le ragioni principali che ci inducono ad esprimere questo orientamento. 1) La possibilità e il diritto degli elettori di scegliere nel primo turno il partito e il candidato a cui destinare la loro preferenza, e nel secondo turno lo schieramento politico che intendono sostenere per governare il paese; 2) poiché al secondo turno il quoziente per essere eletti si alza al cinquanta più uno per cento, le possibilità di inquinare il voto diminuiscono ri4 spetto al turno unico che comporta, invece, un quoziente più basso; 3) dobbiamo sicuramente liberarci dei guasti del proporzionalismo senza soffocare il pluralismo. Obiettivo più facilmente conseguibile con due turni, che con uno. Questo approdo è possibile (anche se non meccanico) solo con la vittoria del Sì nel referendum. Un successo del No determinerebbe infatti l'imbalsamazione. delle regole attuali, e renderebbe insolubili i gravissimi guasti della situazione esistente. Non a caso i più agitati fautori del No (accanto a forze esclusivamente preoccupate della propria sopravvivenza) sono i devoti del passato: dagli eredi del comunismo ai tardi epigoni del fascismo. Non ignoriamo tuttavia che, soprattutto dopo le elezioni francesi, anche tra le persone convinte della necessità di un rinnovamento della politica italiana, si è fatta strada l'idea che il sistema uninominale a doppio turno sarebbe tutt'altro che privo di inconvenienti e disfunzioni. Per quanto ci riguarda non riusciamo a capire però il fondamento di questi dubbi. Se i francesi invece che con il maggioritario avessero votato con la proporzionale o con l'uninominale secca il centro destra avrebbe vinto lo stesso. L'unica differenza è che co.n la proporzionale il centro

g!,LBIANCO ~ILROSSO iii•iii•ii destra non avrebbe conseguito la maggioranza di governo. Insomma, la Francia si sarebbe trovata nella stessa situazione disastrosa dell'Italia, o se si preferisce, sarebbe ripiombata nel caos della quarta Repubblica. Le elezioni francesi non hanno quindi detto assolutamente nulla rispetto a quanto già si sapeva. Vale a dire che i sistemi proporzionali eleggono un Parlamento, ma non un Governo, mentre i sistemi maggioritari assicurano la governabilità a scapito della rappresentatività. L'Italia è stata proporzionalista dal 1948 ad oggi. I risultati sono sotto gli occhi di tutti. Noi siamo perciò convinti che se vogliamo uscire da una crisi, altrimenti mortale, è assolutamente necessario cambiare. Di fronte al cambiamento si possono anche capire tutti i dubbi e le perplessità, ma viene un momento in cui dubbi e perplessità non sono altro che un alibi per sfuggire alle proprie responsabilità. Ci battiamo quindi per non chiudere la porta al cambiamento. Per non lasciar corrompere ed imputridire le cose. Il nostro appello ed il nostro impegno è perciò rivolto a sostenere con forza e determinazione le ragioni del Sì nel referendum elettorale per il Senato. ~ ;I, • ..., ♦ ◊ ,, ,, (S ~ ~ ~1 .; ';· ,,. <t> o . { ◊ .. ~ : f.; # ~ 'I!;',_·· ~ ~ f ,,,," ,. . ' •• tTccrn.1 p: dtbt1an1~{ l101't111l Ul Ultl: cr ltllll 11tna 111- , .}.t11·Jtll cr1t.1tUt: 01 ·: '·· 1nxtirc ttldt .1 uuù ~·.~:]lC tue. JIJ unnlun1a ft1111 u• 5

~!LBIANCO ~ILROSSO t+ii•Ni•ti ' Edavveropossibile ilbipolarismionItalia? di Paolo Feltrin na delle cose più curiose del dibattito poliu tico italiano attuale è la passione quasi calcistica per le regole elettorali di traduzione dei voti in seggi. Non per nostra scelta, ma perché così ha deciso la bizzarria della storia, sulla questione delle regole elettorali si sta giocando uno snodo importante per le sorti di questo paese. E quando si è troppo esagerato da una parte, l'ago della bilancia va spostato con decisione dalla parte opposta (almeno per un certo periodo). Punto e a capo. Questa motivazione basta e avanza per dire sì al referendum e per accettare con pragmatismo una qualsiasi soluzione che contenga elementi molto radicali di maggioritario (circoscrizioni uninominali, divieto di presentazione in più di un collegio, turno secco o doppio, etc.). Quel che va chiarito è che non esiste legge elettorale. buona in assoluto, né tantomeno valida per l'eternità. Con uno strumento molto grossolano come le elezioni si fanno 24 cose assieme ed è inevitabile che le regole elettorali siano sempre un compromesso provvisorio che tiene conto delle esigenze prioritarie in quel particolare momento storico. Non a caso di norma esse non fanno parte delle carte costituzionali, ma sono leggi ordinarie dello Stato. Di conseguenza, la mia previsione, è che qualsiasi sia la legge elettorale che verrà adottata nei prossimi mesi, di sicuro essa durerà molto meno dei 45 anni di quella precedente. Tutti sappiamo che le riforme elettorali sono importanti, ma che - purtroppo - ben altre sono le cose da cambiare, prima fra tutte la nostra pubblica amministrazione. Prima di passare al nodo cruciale di questo articolo, vale forse la pena fare qualche nota sparsa sulle «progressive sorti» di Cacania e dintorni. 6 Se ci si pensa un secondo, è abbastanza agevole immaginare un parlamento composto per intero da un ceto politico rinnovato (specie se si dimezza il numero delle assemblee elettive o se ne abolisce una delle due), dal momento che la crisi dei partiti tradizionali ha mutato in modo radicale il calcolo dei costi/benefici di un aspirante eletto, sia esso un parlamentare, un assessore regionale, o un sindaco. Invece di dover fare un lungo praticantato di portaborse e di «peones», salendo gradino dopo gradino il «cursus honorum» del politico di partito per imparare la noiosissima arte del dispensatore di favori, molte persone già ferrate nelle rispettive professioni (qualunque esse siano) possono trovare vantaggioso sperimentarsi per un periodo limitato della loro vita in incarichi pubblici: non pagano i costi della carriera interna di partito e hanno tutti i benefici che derivano dal ricoprire cariche pubbliche. Il che non guasta nella successiva carriera professionale - anzi ne può perfino diventare un volano e un moltiplicatore (Prodi docet). Per questo nuovo profilo professionale del rappresentante elettivo, bastano alcune doti politiche minime indispensabili. Esse si ritrovano in una miriade di altre professioni. Il sindacalista, il manager, l'avvocato, il primario, il coordinatore di un centro per tossicodipendenti sanno già bene che ci sono interessi contrapposti, che la mediazione non è l'arte del maligno, che alla fine bisogna decidere assumendosi la propria personale responsabilità, che tra la verità e la falsità c'è un oceano di posizioni intermedie in cui attestarsi senza vergogna, e così via. Nelle assemblee elettive e nelle posizioni di responsabilità di governo spesso questa expertise di base è sufficiente ad esercitare dignitosamente il proprio compito. (Il rischio di non scegliere i mi-

{)!LBIANCO ~ILROSSO tiiili•it;i gliori ma solo chi porta il distintivo del Lion's o del Rotary è un rischio reale di cui per il momento - purtroppo - pochi sembrano preoccuparsene, travolti dall'ingenerosità più totale verso i pochi aspetti positivi del vecchio regime dei partiti). Rinnovare in toto il ceto politico non è dunque così difficile da immaginare, nonostante si possa avvertire quanto di ingiusto e di sgradevole vi sia in questa richiesta popolare di facce nuove. Tuttavia è un po' patetico cercare di fermare i fiumi in piena. Possiamo solo sperare di immettere qualche grumo di razionalità attraverso qualche predica inutile, forse di una qualche utilità almeno a cose fatte. Volenti o nolenti, le grandi transizioni (siano esse di regime o interne al regime democratico) non vanno troppo per il sottile e non hanno tra le loro caratteristiche principali quelle della giustizia e dell'equità. E allora torniamo all'altro corno del problema iniziale. Come e con chi attuare il rinnovo nella pubblica amministrazione di questo paese, senza la quale il ricambio di ceto politico rischia di essere operazione illuministica e trasformistica al tempo stesso? Qui non abbiamo nessun personale alternativo capace di sostituire i funzionari pubblici inetti. Le possibili trasformazioni - se ci saranno - avranno tutte come orizzonte il lungo periodo, e di idee sensate sul come fare anche questo percorso in circolazione ce ne so7 no ben poche, a meno di non credere alla «favola bella» sulla separazione netta tra politica e amministrazione, tra funzioni di indirizzo e funzioni di gestione, quasi che l'amministrazione non fosse attività politica per eccellenza (come insegna un qualsiasi manuale elementare di «politiche pubbliche»). Certo, anche questo governo ci sta provando a riformare la pubblica amministrazione, con un impegno a dire il vero sconosciuto in precedenza. Ciò non toglie che lo scetticismo sia d'obbligo vista la propensione italica a fare e a disfare ogni cosa ad ogni cambio di governo. Per non parlare dell'assoluto vuoto di proposte per quel che riguarda i livelli di governo nel nostro paese: 2 camere, 21 regioni, un numero ormai imprecisato di provincie, oltre 8000 comuni, piu Ussl, consorzi, comprensori, comunità montane, distretti e chi più ne ha più ne metta. Non si tratta di invocare un'impossibile semplificazione dei poteri ma - vivaddio - almeno uno straccio di idea su di un loro possibile riordino lo si potrebbe attendere dai tanti Soloni delle riforme istituzionali. Invece si partorisce quella sorta di mostro giuridico - vero e proprio monumento allo spirito demagogico del momento - che è la proposta unificata della commissione affari costituzionali della Camera sulla riforma delle regioni. L'esperienza passata delle regioni italiane, nelle quali si dava l'autogoverno sancito dall'e- " r ·:;':.'. '~ :=~t -~ :tnco:; . r : • ii . ·t..., ~--· ! I il

{)!J,BIANCO Oil..ILROSSO iil•iiliii lezioni di consigli regionali in astratto sovrani, ma poi si fissavano rigidamente la quantità e gli standard di servizi da offrire alla popolazione attraverso il riparto delle spese da parte dello Stato (senza riferimento alcuno al contributo fiscale di ogni regione), è indicativo dei paradoi,si in cui si incorre quando si vogliono percorrere obbiettivi tra loro inconciliabili. Se l'obiettivo è quello di offrire a tutti i cittadini italiani standard omogenei di servizi pubblici, il decentramento politico è inutile e l'accentramento delle politiche tributarie è inevitabile. Nell'esperienza italiana ciò ha significato un approccio del tipo «prima le funzioni, poi la spesa, la finanza seguirà». Per quanto criticabile, specie nella burla di affidare compiti assolutamente identici in tutto il territorio nazionale a organi assembleari elettivi formalmente sovrani, quest'impostazione è la conseguenza obbligata del!'accettazione del!'eguaglianza delle prestazioni su tutto il territorio nazionale. Se si vuole passare ad uno schema rigorosamente federale va accettata l'idea di prestazioni differenziate non solo sulla base delle diverse opzioni strategiche dei governi locali, ma anche sulla base del diverso gettito fiscale, secondo una sequenza «prima la finanza, poi la spesa e le funzioni seguiranno». Tra i due estremi le mediazioni sono «pastrocchi» istituzionali, a meno di non essere costruite in modo molto attento, specie quando si passa alle materie concrete su cui le funzioni dovrebbero differenziarsi (sanità, assistenza, in primis). Di conseguenza, a meno di non andare a qualche sorta di «federalismo etnico», la soluzione da perseguire non può che essere quella di allargare solo in misura limitata le competenze regionali e la relativa autonomia impositiva, in modo che la diversità nei livelli di prestazione si esprima solo per la quota di entrate derivante dall'esercizio dell'autonomia impositiva. Si configurerebbe in questo modo l'attribuzione di un regime di «specialità» ad un certo numero di regioni più ricche, simile a quello già esistente per le regioni, a statuto speciale, vincolato alle effettive capacità di entrate autonome, mentre la parte restante delle funzioni continuerebbe a seguire il tradizionale criterio del!'omogeneità delle prestazioni su tutto il territorio nazionale. Altro che il «massimalismo federalista» di cui si discetta a vanvera su tutte le gazzette nazionali. 8 Ma torniamo alle regole elettorali. Come mai oggi appare possibile questo rivolgimento nei criteri di selezione del personale politico, che, forse, sarà in grado di selezionare i migliori invece dei peggiori? La risposta è ovvia e banale. Tutto nasce dal 1989. Ma è anche di lì che emerge per la prima volta con forza la possibilità di cambiare le regole elettorali. Prima di allora si trattava solo di discussioni accademiche, nulla più. Le regole elettorali - come è noto - forzano le opzioni di voto ma non le inventano ne stravolgono la segmentazione della cultura politica di un paese. A chi - come anche Camiti - ama tanto lo schema bipolare, va osservato come, all'estero, anche le esperienze di maggioritario più radicali non siano riuscite a sopprimere i poli presenti nello spazio politico di un paese. Mi pare che su questo punto ci sia un equivoco di fondo. Qualsiasi formula disrappresentativa di traduzione dei voti in seggi serve egregiamente a ridurre - anche in modo drastico - la frammentazione partitica - non la multipolarità, se questa è radicata nell'elettorato. E forzare a 2 ciò che deve rimanere a 3, o a 4, o a 5, è sommamente pericoloso proprio in ragione di quel compromesso pragmatico che presiede alla scelta di qualsiasi regola elettorale. Ma ve lo immaginate un democristiano di sinistra, militante sindacale di fabbrica, rigorosamente anticomunista da 45 anni, cosa dovrebbe votare se forzato a scegliere tra il candidato dei progressisti (magati un ex comunista da sempre visto come il fumo negli occhi) e il candidato dei moderati (un liberale vecchio stampo, di professione imprenditore, e per giunta antisindacale)? Ma cosa deve fare questo povero cristo? La mia impressione è che ci sia una certa dose di volontarismo illuminista in cl:ii immagina, qui e ora, in Italia, scenari di questo genere. Se invece non è così, il rebus della ristrutturazione dello spazio politico italiano si risolve quando si capirà che fine farà la Dc. Se sopravvive, anche smagrita di molto, non è impossibile immaginare una struttura tripolare delle preferenze di voto attraverso la forzatura operata dalle regole elettorali maggioritarie. Per diverse ragioni non è uno scenario dotato di stabilità, dunque non necessariamente entusiasmante. Neppure se a sostituire la Dc si candida la Lega, la quale ha tutto l'interesse ad occupare il centro dello spazio po-

{)!LBIANCO a-l., ILROSSO liikidlit;i litico, per poi rinnovare l'antico capolavoro della Dc di estendersi trasversalmente in tutti i segmenti dello spazio politico. (Non va dimenticato che il vero capolavoro politico di Bossi è stato quello di aver - per primo nel dopoguerra - costruito una proposta politica appetibile all' elettorato di centro, in particolare quello democristiano). Se invece, la Dc si sfalda o si riduce a percentuali sotto il 20%, si apre la strada ad uno scenario alternativo, quadripolare o pentapolare. In questo caso, la Lega o chi per essa viene forzata dalla logica della competizione ad occupare lo spazio di centro-destra, mentre si affaccia la possibilità di una nuova formazione politica, erede del riformismo socialista, del liberalismo democratico progressita, del cattolicesimo socialmente impegnato. Nel vastissimo spazio tra la posizione di sinistra occupata dal Pds e il centro dello spazio politico, dove imperversa la battaglia tra la Lega e la Dc, c'è uno spazio possibile per le forze sociali di progresso e riforma? Possono Segni e Camiti (magari assieme agli ex miglioristi) costituire i due estremi ideali di un unico movimento che veda riunite l'anima popolare e l'anima liberale del cattolicesimo progressista in una formazione dichiaratamente laica? È davvero così scontato 9 che il riformismo socialista e cattolico non possano avere nulla a che vedere con Segni? Che il suo destino sia solo quello moderato? Si tratta di una domanda da porre ai tanti democratici cristiani che, dopo la caduta del muro di Berlino e la fine dei regimi antidemocratici dell'Est, non sentono più necessario ridurre la loro identità politica nel rifiuto di un esito catastrofico per il nostro paese, ma allo stesso pensano non più sostenibile l'attuale collocazione centrista. Ma è una domanda da porre allo stesso tempo a tutti coloro che a sinistra non si accontentano del ruolo di opposizione a vita, ma pensano che fin da subito - di nuovo: qui e ora - sia possibile vincere le elezioni e andare a governare lo sviluppo della nuova Repubblica. Gli scenari servono proprio in tanto in quanto non si avverano, dal momento che gli attori in gioco ne valutano conseguenze e convenienze per poi agire in funzione di una loro trasformazione. È probabile dunque che le risposte alle domande che ho posto siano negative. Ma dubito fortemente che vi siano molte altre strade politicamente praticabili per una forza di governo progressista sempre, ovviamente, che si voglia davvero uscire dallo storico minoritarismo della sinistra, pago e soddisfatto della sua mediocre collocazione all'opposizione perenne. 11 _ ....,,.,,.,.w. r .. l . " \ • • . . ...... _ . ······ . ······· ......... ~- .................. . . . . 11 • ...... -......... . ....... . . - . ,le lCJP, ...... - .. -_ .....···•lj,_ i 'f! m ..

{)!LBIANCO ~ILROSSO Miililitd Apropositodi«complotto». Quellovero e'e statofinora di Giovanni Gennari G ran parlare, in questi giorni, - dopo il primo avviso di garanzia inviato dai guidici di Palermo a Giulio Andreotti -, di «complotti» contro la classe politica, e in particolare contro la Dc. I due capigruppo della Dc, al Senato e alla Camera, hanno addirittura presentato un «esposto», con il consenso del nuovo gruppo dirigente. I pentiti, e i magistrati che danno loro credito, naturalmente in combutta con i giornali, sarebbero i complottardi. Sarà, ma c'è qualche cosa che non va, in questo ragionamento, e nella testa di chi lo fa. Non è infatti necessario, per non condividere l'esposto Dc, essere convinti che Giulio Andreotti sia stato, in questi anni, il capo vero, il cervello a Palazzo della mafia, fatto che, nella sua enormità, è paradossale quanto per esempio credere che l'onorevole Cicciolina sia ancora illibata. Tutto può essere, in questo paese di misteri, ma fino a prova contraria il discorso deve restare in materia politica: al resto, oggi, ci pensano i giudici. Di loro compentenza sono tutti i crimini e tutti i reati, tra cui evidentemente anche quelli contro la legge sul finanziamento dei partiti. In verità in questo campo forse tutti sapevano: politici, magistrati, giornalisti ed elettori, e tutti facevano finta di non sapere. Dire basta è giusto: meglio tardi che mai. .. Eppure la totale infondatezza della denuncia di un complotto, dei giudici, e persino dei giornali, contro la Dc, è di una evidenza solare. Basta non aver perduto la memoria. Ho sotto gli occhi un articolo di Pier Paolo Pasolini («Corriere della Sera», 19settembre 1975),oggi pubblicato anche in «Lettereluterane». In esso, quaranta giorni prima di essere ucciso, Pasolini, citando «L'Espresso» del 10 marzo 10 74, riferiva il testo di un «dialoghetto» telefonico, - così lo chiamava lui-, tra Amintore Fanfani e Giulio Andreotti, non smentito. Fanfani minacciava Andreotti di rivelare «imbrogli sul finanziamento dei partiti», e Andreotti replicava minacciando«rivelazioni a proposito dell'affare Montesi». Non basta: in quell'articolo Pasolini riportava anche la citazione di un'intervista di Piero Ottone a Carlo Donat Cattin, allora ministro dell'Industria. In essa Donat Cattin riferiva di possedere «ladocumentazione degli abusi e degli intrallazzi intorno a Gioia Tauro», di averla «passata ad un settimanale», che tuttavia non l'aveva pubblicata, «perché sono coinvolti i socialisti». In Pasolini nasceva allora un interrogativo, sul dialogo Andreotti-Fanfani: «E la Magistratura? Non c'è stato nessun magistrato che abbia provato la curiosità di ascoltare, in merito a due reati così importanti due testimoni così autorevoli?» Era, allora, un interrogativo retorico. La Magistratura, evidentemente, non c'era, e se c'era, non vedeva, e se vedeva non ricordava, e se ricordava, non poteva parlare, per tutelare, evidentemente, il segreto d'ufficio ... Sulla rivelazione invece di Donat Cattin a Piero Ottone, Pasolini faceva una riflessione: «Se un ministro possiede una documentazione sugli abusi e intrallazzi ... non passa tale documentazione a un settimanale: la passa a un Procuratore della Repubblica». Occorre ammettere che anche oggi, «se un ministro possiede qualche documentazione», forse è facile che la passi ad un settimanale, ma questo, oggi, in genere la pubblica. Questo, ricordato citando da Pasolini, è solo un piccolo esempio, uno tra i tanti, ma ci dice che se il complotto c'è stato, non è quello di oggi, ma quello che ieri è durato per tanti decenni.

Jil!LBIANCO ~ILROSSO PiiidlAM Oggi se viene fuori una notitia criminis, la notizia di un reato, i giudici chiamano, i giornali pubblicano, i cittadini discutono, e sanno. Ieri i crimini c'erano, ma i giornali non pubblicavano, i giudici non indagavano, i cittadini ignoravano e, terribile sospetto, coloro che osavano denunciare ... morivano ben presto. Il complotto, dunque, è quello che avveniva ieri, e che per 45 anni ha prodotto i danni che abbiamo sotto gli occhi. Chi grida al complotto, oggi, è uno che bara al gioco; ma non ha più carte buone. Meglio oggi, con buona pace di tutti. Che fare, ora? Proviamo a redistribuire le carte. Emergenzaeconomica: un'agendaper il medioperiodo di Renato Brunetta i ritorna a parlare di Patto Sociale: ma già si S sprecano i distinguo e si profilano diffidenze e indisponibilità. Il rischio è il solito: che si perda inutilmente e conflittualmente tempo. D'altra parte l'attuale «emergenza occupazione», per quanto da tempo temuta, ha colto di fatto impreparati sia il Governo che le parti sociali a causa del sovrapporsi, convulso e accelerato, di processi di ristrutturazione industriali di medio periodo a crisi di chiara origine congiunturale. Bassa crescita del reddito, caduta verticale della produzione industriale e stagnazione dei consumi hanno non solo accentuato i processi di espulsione occupazionale dalla grande impresa, ma hanno pure messo in crisi il tessuto della piccola e media industria, e bloccato quasi del tutto il potenziale di creazione di nuovi posti di lavoro normalmente fornito dal settore terziario (la vera novità di questa crisi). In questa nuova prospettiva la politica economica, la politica del lavoro e la politica industriale assumono significati complemente diversi rispetto al passato: la politica economica dovrà, nel sostenere la crescita, puntare essenzialmente alla concorrenza e alla esposizione strutturale del settore protetto in tutte le sue componenti, compatibilmente con i vincoli posti dal processo di risanamento finanziario in atto. 11 Le politiche del lavoro dovranno mirare non solo e non tanto a garantire i redditi dei lavoratori coinvolti nei processi di ristrutturazione, come è avvenuto in gran parte per la crisi dei primi anni '80, quanto a favorire il mantenimento e la riqualificazione del capitale umano delle forze di lavoro interessate dai profondissimi processi di mobilità e di emersione del sommerso, favorendo nel contempo il reimpiego dei lavoratori considerati esuberanti. E la politica industriale dovrà finalmente contribuire a mettere ordine nello spontaneismo caotico dei processi di natalità e mortalità delle imprese, nelle strategie di formazione del capitale umano e di introduzione di nuove tecnologie, nonché negli equilibri finanziari e di competitività fattoriale del nostro sistema produttivo, all'interno del piu ampio processo di privatizzazione in atto. Il 1993 e in parte il 1994 saranno anni caratterizzati non solo da bassa crescita del Pii, ma anche da continui e profondi processi di ristrutturazione di alcuni comparti industriali e dal declino economico-produttivo di numerose aree di antica industrializzazione. Ne deriva una costante caduta dell'occupazione nella grande impresa, dell'ordine del 4-5% annuo; una stazionarietà occupazione nella piccola e media, e un pericoloso rallentamento del

{)!LBIANCO ~ILROSSO MiiNlit+i terziario nella sua tradizionale capacità di creare occupazione aggiuntiva. Nei periodi di stagnazione, dunque, prevale l'effetto produttività, per cui in ogni settore e comparto si razionalizzano le funzioni di produzione, si effettuano investimenti a bassa intensità di lavoro e si bloccano i turn-over in attesa della ripresa del ciclo. Al contrario, in situazione di ripresa della crescita prevale l'effetto domanda per cui rallenta il processo di riconversione e di razionalizzazione nel settore della grande impresa, e riprendono i turn-over nei comparti terziari collegati. Da queste brevi considerazioni emerge la ferma raccomandazione di aiutare nell'immediato quella parte di società che si sta rimmettendo sotto sforzo; e conseguentemente di forzare la crescita, in maniera finalizzata, così da stimolare, attraverso gli investimenti pubblici, la domanda globale. Ogni frazione incrementale di Pii così indotto avrà contenuti occupazionali più elevati, sia perché operato in comparti ad alta intensità diretta di lavoro, sia per gli elevati coefficienti di attivazione del settore edilizio e delle grandi opere pubbliche. È chiaro che in una congiuntura, come l'attuale, di finanza fortemente restrittiva, dovranno essere realizzati progetti immediatamente cantierabili, utilizzando al meglio i fondi europei già oggi disponibili e finalizzando ai grandi investimenti come l'Alta velocità le risorse aggiuntive che l'Italia ha ottenuto dalla Comunità Europea. A questa spesa pubblica di grandi dimensioni dovrà aggiungersi una sorta di strategia di mobilitazione diffusa dell'impegno di investimento a livello di Comuni, Provincie e Regioni, in aree e settori quali la manutenzione urbana, l'ambiente, l'edilizia pubblica, le reti infrastrutturali locali ecc. Le risorse per il rilancio di questa non secondaria fonte di spesa pubblica potrebbero essere trovate dall'avvio del processo di alienazione dei patrimoni immobiliari posseduti dagli enti locali, nonché dalla privatizzazione delle municipalizzate. Sostenuta così al meglio la crescita economica, esiste tutta una serie di politiche da mettere in atto capaci sia di migliorare ulteriormente l' elasticità occupazione/Pi!, sia di meglio distribuire l'occupazione esplicita e implicita esistente, sia infine di migliorare la mobilità e la flessibilità nell'utilizzo della forza lavoro, sviluppando op12 portuni e selettivi ammortizzatori sociali e specifiche normative salariali e contrattuali, sempre avendo riguardo alla qualità e quantità del capitale umano. Contrariamente a quanto avvenne nel decennio passato, anche questo tipo di politiche (opportunamente riviste) dovrà essere compatibile con il processo di riequilibrio finanziario in atto. In altri termini il costo degli ammortizzatori sociali durante il periodo di stagnazione non potrà più essere scaricato semplicemente sul debito pubblico. Da questo fondamentale vincolo derivano 3 ineludibili conseguenze: la prima il carattere strutturale di questo tipo di politiche, per la cui efficacia occorrerà far riferimento all'intero ciclo di vita dell'individuo, al fine di evitare provvedimenti contrastanti da un segmento all'altro sempre del ciclo di vita (ad esempio se si favorisce l'occupazione dei giovani, ma si penalizzano i quarantenni e i cinquantenni in esubero); la seconda il rapporto costi-benefici di ciascun intervento; il terzo il principio di sussidiarietà tra interventi a livello centrale e interventi consimili a livello periferico (regionale e locale). Come per le politiche del lavoro, le buone politiche a favore dell'industria sviluppano i loro effetti solo nei tempi medio-lunghi. Tuttavia il nostro paese deve avviare una strategia, se possibile, anche più complessa: la messa a punto cioè di interventi di sostegno, a breve, per l'emergenza, in sincronia e coerenza con linee d'azione di risanamento e di adeguamento strutturale per rimanere in Europa e in competizione con i paesi industrializzati. L'emergenza va dunque aggredita con fermezza, ma con interventi che non compromettano lo sviluppo complessivo nel medio periodo. Al di là di una corretta e mirata gestione degli ammortizzatori sociali nella fase di recessione, va ribadita dunque la necessità di rilanciare con efficienza diversa dal passato (come abbiamo già indicato) la politica su alcune infrastrutture chiave (metropolitane, parcheggi, ferrovie, porti, urbanizzazione, edilizia scolastica, manutenzione, ecc.) così da sviluppare al meglio gli effetti moltiplicativi sul reddito e sull'occupazione. A medio termine, ma cominciando da subito, oltre al rilancio delle infrastrutture fisiche vanno perseguiti 3 obiettivi fondamentali: a) i servizi pubblici e privati e le relative reti; b) la scuola e la formazione del capitale umano per tutto il ci-

{)!LBIANCO ~ILROSSO tiiii41Ati clo di vita dell'individuo; c) la politica della ricerca e della tecnologia. Riguardo al primo punto a) è ormai da tutti acquisito che con servizi da paese sottosviluppato si finirà per avere un'industria che progressivamente porterà oltre confine tutto ciò che potrà. Rispetto alle risorse umane, b) che significano iniziativa, innovazione e capacità organizzativa, esse sono alla base del progresso industriale: ritardare ancora, in ragione di malintesi atteggiamenti di superiorità o di autonomia, una seria riforma che avvicini il mondo della scuola e della formazione al mondo della produzione, rischia di essere il più grave vincolo allo sviluppo per il nostro paese. In tema di ricerca e tecnologia c) occorrerà, superando finalmente la pervasiva cultura burocratica, «individuare dove stanno i veri centri di eccellenza, stimolarne l'accorpamento e l'aggre13 gazione, porre i centri privati e pubblici in concorrenza e premiare gli innovatori». Spesso il dover rispondere giorno per giorno a continue crisi porta a trascurare, o a mettere in secondo piano, l'ottica di medio periodo che, invece, appare l'unico orizzonte temporale utile per l'avvio a soluzione delle vecchie e nuove debolezze strutturali del!' economia italiana. È su questi punti che va tentato un vero e proprio patto sociale di lungo periodo (da non confondere con i pur necessari accordi di politica dei redditi), su cui basare la nuova costituzione economica dello Stato italiano, prospettiva questa che richiede il consenso degli autentici protagonisti delle relazioni industriali. Non è più tempo di forzature legate all'emergenza, né di semplici palliativi per nuove e improbabili flessibilità: la posta in gioco è più alta, e va ben oltre le difficoltàesistenziali di questo governo. -\~. $unn:tr d11s1fXrpul cb10.1lt:1.@1l:-~m pi.,.. no bioµ:p:ndtt 111 hgno .11t:1. pu1n11m ~. ·H-1•1•.-•'-----___,,.. I ..

{)!LBIANCO ~ILROSSO J;JliiilAM Droga:larepressione nonserve.Anzipeggiora di Annalisa Quaglia n tremendo delitto è stato commesso ed è stato nascosto per quattro anni dietro le U mura di S. Patrignano, comunità terapeutica per tossicodipendenti, fondata da Vincenzo Muccioli quindici anni fa e che accoglie ora più di duemila ragazzi. Al di là della configurazione giuridica del delitto commesso, sia esso preterintenzionale o sia esso volontario, e sulla complicità di chi sapeva e di chi ha taciuto, su una cosa non si possono avere dubbi, è difficile escludere una responsabilità morale di Vincenzo Muccioli. È stato detto che quello che è successo a S. Patrignano non è S. Patrignano, ma è conseguenza di una «cellula impazzita», però il fatto è successo e non è di poco conto. Non si possono, poi, non ricordare gli episodi che alcuni anni fa hanno visto Muccioli e i metodi della sua comunità al centro di una vicenda giudiziaria. Tuttavia i maltrattamenti e le catene utilizzate non sono Il !I 14 stati considerati penalmente perseguibili dalla Autorità giudiziaria, perché parte integrante di un trattamento terapeutico necessario. Se a questo aggiungiamo le affermazioni di Don Oreste Benzi, fondatore della associazione Papa Giovanni XXIII, che da operatore del settore, ritiene o sa, che dietro le «fughe dalle comunità» si nascondono dei «desaparecidos» tra cui potremmo scoprire «cadaveri», non solo vittime della droga, ma forse anche vittime della comunità, allora il quadro si fa ancora più inquietante. Di conseguenza si riapre il problema della scelta delle metodologie e dei criteri con cui affrontare la tossicodipendenza, fenomeno che presenta sicuramente aspetti complessi e sappiamo di non facile soluzione, sia sul piano del trattamento che sul piano degli interventi. Ciò di cui possiamo essere certi è che a S. Patrignano doveva essere affrontata la verità, qualsiasi essa fosse. Non si può intraprendere un percorso educativo fon-

{)l.L BIANCO ~ILROSSO ikiikli•UM dato sul rispetto della vita e dei valori umani, tenendo nascosto un fatto così grave perché appreso come confidenza e a patto di non rivelarla, a meno che non si inserisca in un contesto di regole e di valori non socialmente condivisi, ma appartenenti ad una sottocultura che quindi noi, comunità esterna non conosciamo. È stata detto che quello che è successo a San Patrignano deve servire come autocritica all'interno e come riflessione all'esterno e quindi come momento di analisi delle e per le comunità che operano nel campo delle tossicodipendenze. Si torna infatti a parlare della necessità di controlli, di nuovi regolamenti, di personale specializzato, di professionalità che si devono sostituire a figure carismatiche o comunque ambigue. Argomenti questi non nuovi per gli operatori, al contrario, elementi di dibattito da tempo che, tuttavia, trovano spazio e investono l'opinione pubblica solo ora, in un momento e in un clima di generale denuncia e di linciaggio che sortisce l'effetto di creare il «caso», il «mostro», senza affrontare i problemi nella giusta dimensione e in concreto. Il rischio è prima di tutto quello di non vedere che dietro tutto questo c'è una assoluta assenza dello Stato, capace di intervenire soltanto con forme repressive di controllo, attraverso sanzioni penali e/o amministrative, delegando ai privati e ai singoli cittadini il compito della cura, della riabilitazione e del reinserimento. Il rischio è che, soprattutto ora, in vista del quesito referendario sulla punibilità/non punibi15 lità del consumatore di sostanze stupefacenti si riproponga una sterile contrapposizione ideologica, una battaglia tra schieramenti, con Muccioli e quindi a favore della legge Iervolino Vassali, contro Muccioli e quindi contro la legge. La dicotomia sembra semplicistica, tuttavia questo è il messaggio che viene veicolato e traspare da gran parte della stampa e della televisione e che investe il grande pubblico. Il dibattito c'è, ci deve essere, ma le contrapposizioni aprioristiche o ideologiche non aiutano a risolvere i problemi veri che esigono, al contrario, capacità di analisi, di proposta, di decisione. È vero che importanti conquiste della società civile sono passate anche attraverso grossi momenti di conflittualità e dure battaglie. Tuttavia il bisogno di scoop e del mostro a tutti i costi è sempre deleterio, soprattutto là dove battaglie sono state fatte e si rischia di tornare indietro e di perdere di vista l'oggetto della discussione. Soltanto una attenta analisi della realtà, delle risorse investite e dei risultati ottenuti ci permette di avere gli strumenti per conoscere, migliorare, sperimentare, modificare una politica di intervento e scegliere nuove strade. È un dato di fatto che soluzioni semplici o valide in modo assoluto non esistono ed è vero che il fenomeno della tossicodipendenza non si risolve con la comunità o con il carcere, ma esige una risposta di carattere più ampio e articolato che privilegi soprattutto il momento della prevenzione piuttosto che quello della rPpr ssionP. I I

{'!LBIANCO a-L, ILROSSO t+iiiiil•ii 1943: crisieconomica. El'Italiariscoprelosciopero di Franco Castrezzati R icorre in questi giorni il 50° anniversario degli scioperi che a macchia d'olio si sono sviluppati in Italia nel marzo '43. Siamo in un periodo critico dell'ultimo conflitto mondiale. La grande spinta offensiva degli eserciti del!' asse si è ormai esaurita e da alcuni mesi si registra ovunque un capovolgimento di fronte: in Russia i sovietici riconquistano Stalingrado; in Africa, dopo la perdita dell'impero (Etiopia, Somalia, Eritrea) l'Italia con l'alleato tedesco che ormai egemonizza la guida di tutte le azioni belliche, sta per essere invasa dagli anglo americani. I bollettini di guerra, smessa l'euforia di una vittoria lampo, si rifugiano nella retorica degli sganciamenti tattico-strategici. La dittatura fascista, con la soppressione di tutte le libertà, può utilizzare il monopolio della informazione a suo piacere, ma la gente si trova davanti ai fatti più eloquenti delle non più credibili versioni ufficiali. In più gli italiani scoprono che i comunicati diffusi dalle radio alleate (da radio Londra in particolare) trovano riscontri sempre più attendibili. Le classi giovani sono impegnate sui vari fronti di guerra, al sud, all'est e all'ovest e sono testimoni dirette dei rovesci militari causati oltretutto dalla povertà e dalla inadeguatezza dei loro equipaggiamenti. Nel territorio nazionale i più anziani, occupati negli stabilimenti, sono costretti ad orari massacranti per fabbricare armi mentre i primi bombardamenti provocano contrazioni sempre più consistenti delle risorse produttive destinate alla guerra. Ormai con la vita stessa dei lavoratori sono in pericolo anche quelle delle donne, dei vecchi e 16 dei bambini. Le case, gli ospedali, le scuole ed i mezzi di comunicazione vengono sistematicamente demoliti da massiccie incursioni aeree che sconvolgono l'esistenza di popolazioni terrorizzate ed allo stremo delle forze. Anche le fasce della piccola e media borghesia che pure avevano favorito l'avvento del fascismo sostenendolo, in cambio di privilegi, specie nelle sue manifestazioni folcloristiche, vedono avvicinarsi la catastrofe. I morsi della fame si fanno sentire in quasi tutti gli strati popolari, anche in quelli meno poveri che devono scambiare i gioielli di famiglia con i generi di prima necessità. È in questo quadro che maturano gli scioperi del marzo 1943 che avranno il loro epicentro a Torino ed a Milano, soprattutto nelle grandi fabbriche, ma che si estenderanno, sia pur in misura ridotta, nelle regioni Piemontesi, Lombarde, Liguri lambendo anche altre zone meno industrializzate come il Veneto, l'Emilia Romagna, la Toscana, ecc ... fino ad interessare la stessa Sicilia. Nel gennaio e febbraio del '43 agitazioni e scioperi più contenuti precederanno e prepareranno quelli ben più vistosi del marzo. I lavoratori più anziani hanno solo un vago ricordo di queste forme di lotta democratica perché da un ventennio è rigorosamente vietata. Inoltre gli stessi Governi liberal-borghesi pre-fascisti non avevano certamente assecondato queste manifestazioni di libertà sindacale. I lavoratori più giovani, che ancora non hanno l'età per essere chiamati alle armi trovano impiego nelle fabbriche insieme alle donne che l'industria bellica comincia a fagocitare, non sanno neppure cosa sia lo sciopero. A rendere più difficili le agitazioni

{)!LBIANCO ~ILROSSO iiikiil•ii persiste e si intensifica la propaganda del regime che si ispira allo slogan: «qui non si fa politica, si lavora». Si tratta di uno slogan che ogni operaio vede - scritto a caratteri cubitali - sui muri delle case, agli ingressi della fabbriche, dentro i reparti e che viene insistentemente spiegato dalla martellante propaganda dei tanti corifei sguinzagliati dai gerarchi fascisti. Occorre aggiungere che le forze clandestine, anche perché i fuoriusciti sono ancora all'estero, sono piuttosto scarse, ma soprattutto sono povere di strutture organizzative e propagandistiche efficaci e capillari. La resistenza vedrà la luce solo dopo 1'8 settembre quando il volto del fascismo, ormai ridotto a strumento del padrone nazista, potrà manifestarsi in tutta la sua ferocia assassina provocando l'inasprimento della rivolta armata da parte del Cln e del Cvi, rivolta che potrà contare su un vasto sostegno popolare nonostante i rischi mortali che esso comporta. Tutti questi elementi favoriranno o nuoceranno alle lotte del marzo 1943perché da una parte il sostegno ed il coordinamento delle forze della resistenza eviteranno gli errori, le ingenuità dell'inesperienza e della spontaneità mentre dall'altra parte pene severissime, compresa quella di morte, comminate dalla Repubblica di Salò, costituiranno un serio deterrente contro le agitazioni dei lavoratori. Di questi scioperi si è scritto parecchio, ed in genere le varie pubblicazioni sull'argomento sono di autori di matrice comunista. Perciò si tende ad attribuire ad essi delle finalità politiche frutto di una presa di coscienza delle masse operaie che sarebbero state pronte ad esercitare un ruolo guida nella guerra di liberazione e nella società post fascista. Appare chiaro che questa visione della realtà risente di una concezione ideologica che il regime sovietico aveva fatto propria e che cercava di divulgare in coerenza con gli interessi espansionistici dell'Imperialismo stalinista e con la prospettiva di affermare una egemonia comunista nel mondo. Questa tesi è particolarmente cara a Umberto Massola di fatto Segretario del Pci (Togliatti è ancora in Russia) in quanto Responsabile cieli'organizzazione clandestina del partito. Grazie a questa sua veste, vuole apparire come l'artefice degli scioperi del marzo '43. 17 Invece secondo Romolo Gobbi, ed è l'opinione comune degli osservatori e degli studiosi, quegli scioperi ebbero carattere prevalentemente economico e quasi dappertutto cominciarono in modo spontaneo, contrariamente a quelli dell'anno seguente che, grazie al consolidamento ed alla diffusione capillare delle organizzazioni clandestine, furono supportati da un congruo periodo di preparazione, e da più efficaci strumenti di coordinamento. Nel marzo del '43 sono scarse le pubblicazioni clandestine fatte circolare fra la gente, e comunque la più costante e la più consistente dell' epoca è quella dell'Unità, organo centrale del Pci. In pratica il periodico comunista è pressoché l'unico strumento antifascista che documenta per iscritto lo svilupparsi delle agitazioni riferendo nomi di aziende coinvolte negli scioperi, la qualità e la quantità delle rivendicazioni, le forme di lotta e la loro durata, l'entità delle adesioni. Spesso l'Unità riferisce quegli avvenimenti, che anche gli alleati anglo-americani hanno interesse a divulgare, con un'enfasi amplificatoria eccessiva per contrastare le versioni riduttive delle autorità del regime. Ciò si verifica quando vengono comunicati i dati della partecipazione agli scioperi (Renzo Del Cazzia scrive addirittura di 133.625 adesioni), sia quando si vuole attribuire ad essi un carattere esclusivamente politico, se non di partito, con evidenti intenti apologetici. Sembrano invece più attendibili le opinioni di chi, come Giorgio Vaccarino, attribuiscono il movente principale degli scioperi alla durissima situazione economica. Lo confermano il fatto che i prezzi si sono sestuplicati dal 1938 al 1943, mentre i salari hanno subito una riduzione del 10%. Anche le rivendicazioni avanzate alla controparte sono di natura economica. Infatti sollecitano il pagamento di 192 ore a tutti i dipendenti (e non solo ai sinistrati), chiedono una indennità di caro viveri, un aumento della razione base di pane, carne e grassi. Inoltre a queste rivendicazioni si aggiungono quelle di poter eleggere dalla base i rappresentanti dei lavoratori e la liberazione degli operai arrestati a causa dello sciopero. Ma ciò non contraddice al carattere sostanzialmente economico della protesta. «L'Unità» clandestina è tuttavia attenta a questo fenomeno rivendicativo, mentre lo stesso Pci

RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==