Il Bianco & il Rosso - anno III - n. 33 - ottobre 1992

~!I.BIANCO lXILROSSO l•Xi#J•Mil Perriformarela democrazia: non regjme, ma governo deipartiti Quale uscita? «Cosa c'è in fondo al tunnel?»: si domanda questa rivista nel dossier pubblicato nel n. 31/32. La domanda non mi convince. La riformulerei così: «come distinguere le uscite giuste da quelle sbagliate del tunnel?». Infatti, sappiamo che, non solo non esiste un'unica soluzione di una crisi politica, ma anche che talune soluzioni lo sono solo in apparenza. Per questo motivo, occorre preliminarmente precisare la natura della crisi, per potere quindi definire, ragionevolmente, il percorso da seguire per uscire, davvero, da essa. Insomma, ci sono uscite diverse da una crisi, e non tutte ci conducono, definitivamente, «fuoridal tunnel». Perché alcune, quelle sbagliate, sono semplici «aree di parcheggio»: fermandosi lì, si ha l'impressione immediata di aver concluso il viaggio, per poi prendere atto che si è semplicemente perso del tempo. Allora, riprendere il viaggio, sarà ancora più difficile. L'uscita sbagliata Dunque: la natura della crisi italiana. Quali sono le sue ragioni? Ancora oggi, le risposte continuano ad essere le più diverse, come testimonia il dossier in questione. Tuttavia, mi pare che tali risposte possono essere raggruppate in due grandì famiglie. Nella prima confluiscono tutti coloro che pongono l'enfasi sulla classe politica: sulla sua bassa qualità morale e professionale, sulle sue inadempienze, sulla sua mancanza di una vocazione pubblica. Insomma, la crisi italiana è dovuta al fallimento storico, pur con ovvie differenze, di una classe politica sia di governo che di opposizione. E, di conseguenza, al fallimento dei partiti politici, dai quali è provenuta (e di Sergio Fabbrini proviene) la classe politica in questione. Per molto tempo, questa interpretazione della crisi è stata dominante nella cultura politica italiana, quella, per capirsi, che viene elaborata e diffusa dai grandi quotidiani d'informazione. Così dominante che a sinistra, sin dagli anni settanta, si è venuto a creare un clima di attesa nei confronti dell'evento carismatico, l'unico ritenuto in grado di alterare l'irrigidimento burocratico dei partiti nazionali. È inutile spendere troppe parole sul riferimento teorico di questo schema interpretativo. Per esso, la democrazia, prima ancora di essere un regime politico, è un regime sociale connotato da un elettorato di massa. Le dimensioni di quest'ultimo hanno accentuato il conflitto tra due modalità della sua integrazione politica: quella burocratica (del partito politico) e quella carismatica (del leader plebiscitario). Perché, dunque, stupirsi dell'involuzione partitocratica dei partiti italiani? La loro vicenda conferma una «legge» già nota: quella di Ostrogorski, non di Michels. E cioè che i partiti, che si costituiscono originariamente come strumenti per l'ascesa della democrazia dei contemporanei, sono destinati «inevitabilmente» a diventare gli strumenti del declino di quest'ultima. Come uscirne? Creando le condizioni per l'affermazione al loro interno (e, se non è possibile, al loro esterno) di leader portatori di una visione anti-partitocratica, capaci di riattivare una comunicazione diretta Ira i cittadini e i detentori del potere pubblico. A sinistra ciò ha implicalo la richiesta del leader federalore, dell'uomo capace di trascendere gli «equilibri esistenti». È inutile aggiungere che l'adozione di tale schema ha portato non 26 pochi commentatori a percepire l'ascesa di leader come Craxi, nell'area di sinistra, e come De Mila, nell'area moderata, come l'occasione del sospiralo e atteso rinnovamento. Molti di questi commentatori sono ancora fermi nel!' «area di parcheggio». Forse si stanno convincendo che non è un'uscita. L'uscita giusta Nella seconda famiglia di risposte confluiscono tutti coloro (assai minoritari, per molto tempo) che hanno posto e pongono l'enfasi sul regime democratico: sulla sua organizzazione istituzionale, sulla sua logica di funzionamento, sulla sua congruenza con la società nazionale. Insomma, secondo questa interpretazione, la crisi italiana è dovuta all'inadeguatezza delle istituzioni della democrazia repubblicana, incapaci di ricondurre a «sintesi politica» il sottostante movimento della società. Ora, poiché una istituzione è un'organizzazione (formale o informale) di principi regolativi, l'enfasi sulle strutture del regime ha coinciso con l'enfasi sulle sue regole fondative. Qui, la degenerazione partitocratica del regime non è ritenuta essere l'esito inevitabile di una democrazia basata sui grandi partiti di massa, bensì è ritenuta essere l'esito, logicamente evitabile, di un inadeguato funzionamento istituzionale. Perché inadeguato? Perché ad una società che chiede «competizione» quelle istituzioni hanno continuato ad offrire solamente «cooptazione». La crisi, dunque, nasce dal fatto che una società aperta si è trovata costretta a convivere con una politica chiusa. La convivenza non poteva durare a lungo. E, per la verità, già negli anni sessanta il patio post-bellico tra società

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