Il Bianco & il Rosso - anno III - n. 33 - ottobre 1992

ISS1120-7930- SPED.ABB.POST. - GR. mnoo/o ~!LBIANCO l.XILROSSO MENSILE DI DIBATTITO POLITICO ~SN.5 ., 5EM... \-{ lfil~ ~ «4 l-- ~ (Y Il .. ., "I CA tn Nuoveregole. Pervecchigiocatori? L di Pierre Carniti a Commissionebicameraleper le riforme istituzionali, presieduta da De Mita, ha iniziatoi lavori. Tra sei mesi sapremo se e quali modifichepotrannoessereapportatealla Costituzione per rianimare un sistema politico che non pochi giudicano ormai al collasso. Di fronte a questo nuovotentativoci si può chiedere se sia concretamente possibile l'autoriforma di un sistemapolitico.Moltiritengonodi no. Perché sostengono che solo avvenimenti traumatici possono produrre le condizioni per cambiamenti istituzionali paragonabili a quelli di cui l'Italiaha bisogno.Nona caso, 33 ANNOIII 0 • OTTOBRE1992 • L. 3.500

Pierre Camiti Raffaele Morese Luigi Colajanni Paolo Giammarroni Giovanni Gennari Giovanni Bianchi Luigi Bobba Giorgio Campanini Sergio Fabbrini Franco Ferrarotti Paola Gaiotti Mario Gozzini Sebastiano Maffettone Ruggero Orfei Gianfranco Pasquino Giulio Querini Fabio Rugge Pietro Scoppola Giuliano Urbani Pierre Carniti Maurizio Rossi Bruno Amoroso Stefano Alllevl Gianpiero Magnani Vaclav Havel IN QUESTO NUMERO EDITORIALE Nuove regole. Per vecchi giocatori? ATTUALITÀ Risposta alla crisi economica: un protagonismo nuovo per tutti Maastricht: il sì francese impone correttivi e concretezza Una rinascita «culturale» per la «questione morale» Le «voci» della Chiesa cattolica nel «silenzio» della politica in crisi DOSSIER Politica: se ci sei ancora batti tre colpi! Autunno o inverno della Repubblica? Democrazia dell'alternanza e presenza cattolica trasversale Alle radici della corruzione: «l'inquinamento clientelare» Per riformare la democrazia: non regime, ma governo dei partiti Oltre la crisi: recuperare l'onore della sinistra Uscire dalla crisi: progetti nuovi e valori trasversali Suicidio dei partiti. Si riparte da zero Politica e morale: né identità né estraneità totale. Si può? Dieci punti di riflessione: ciò che finisce e ciò che può nascere Oltre i partiti: la leadership nelle istituzioni Per un nuovo umanesimo della sinistra europea Solo il ritorno ai valori restituisce l'onore ai partili Una cura per gradi: concretezza, riforme, cittadinanza Recuperare centri di decisione e di successive responsabilità L'EUROPA E IL MONDO La «Sussidiarietà»: per fare o boicottare l'Europa? Sistemi di relazioni industriali: il caso giapponese Il no dei danesi al trattato di Maastricht INTERVENTI La sinistra e la Lega Dalla questione morale alla questione politica DOCUMENTO Intellettuali al potere? VITADELL'ASSOCIAZIONE Dichiarazione ReS del 3 settembre 1992 Immagini: Europa: cartografia nei secoli. pag. 1 pag. 5 pag. 8 pag. 9 pag. 12 pag. 20 pag. 22 pag. 24 pag. 26 pag. 29 pag. 31 pag. 34 pag. 36 pag. 37 pag. 39 pag. 41 pag. 42 pag. 44 pag. 46 pag. 49 pag. 52 pag. 57 pag. 59 pag. 62 pag. 67 pag. 69

.{)JJ, BIANCO '-.XltROSSO •1Dlkl)81111 rilevano, solo la guerra ha travolto il nazismo ed il fascismo, consentendo il passaggio alla democrazia, mentre l'Algeria ha sepolto la quarta repubblica francese ed il comunismo, a sua volta, è nato e morto di golpe. C'è però anche chi pensa che i richiami storici non siano altro che il pretesto per imbalsamare l'esistente. Insomma per non far nulla, neanche ciò che potrebbe essere possibile. Oltretutto, aggiungono, l'emergenza economica e finanziaria, la questione morale, la criminalità organizzata, possono bene essere considerate l'equivalente della nostra Algeria. In questi termini la disputa non ha, francamente, alcun costrutto. Il problema non riguarda infatti il diritto ed il potere del Parlamento di cambiare, in astratto, la Costituzione. Ma l'esistenza o meno delle condizioni concrete per poterlo fare. A incominciare dalla maggioranza richiesta, che l'articolo 138(della stessa Costituzione) esige piuttosto ampia. Si può benissimo considerare la cosa non impossibile, ma questo non significa che sia anche probabile. Il problema, dunque, è soprattutto di capire se la commissione De Mita sarà in grado di fare ora quello che invece non era riuscito alla commissione Bozzi pochi anni fa. Personalmente ho più di un dubbio. E credo per valide ragioni. Intanto, se non si vuole che le riforme istituzionali non si riducano soltanto a formule magiche per stregoni della politica, bisogna sapere che è necessario non solo un «cambiamento delle regole del gioco», ma anche della maggior parte dei giocatori. Quella che l'Italia deve risolvere non è infatti una delle tantissime crisi di governo, ma la crisi del proprio sistema politico. Cosa che comporta anche un radicale ricambio del ceto politico che ha prodotto il declino della Repubblica. C'è uno stuolo di persone in Parlamento, ai vertici dei partiti, negli enti pubblici da essi controllati che non sono riciclabili dalla prima alla seconda Repubblica. Sia chiaro non si tratta di un giudizio moralistico. Prescinde dalla questione, pur essenziale di bonificare la politica dalla corruzione e dal malaffare. Ciò di cui parlo è invece la necessità di realizzare una delle caratteristiche strutturali della democrazia rappresentativa che fonda la funzionalità (ed anche la moralità) del sistema sul ricambio periodico delle dirigenze politiche. Infatti l'invenzione della democrazia moderna è stata quella di garantire che le elites governanti non si distruggessero periodicamente, ma si alter3 nassero nei ruoli di comandare e di criticare e controllare. Il nostro sistema ha invece rifiutato l'alternanza ed inventato il consociativismo. Formula in cui tutti, senza distinzioni di responsabilità, si occupano di tutto e nessuno risponde di niente. Con il risultato disastroso che è sotto i nostri occhi. Proprio per questo il ceto politico che ha gestito il sistema, quando esso cambia, deve passare la mano. Quindi anche a prescindere da considerazioni morali o anagrafiche, non c'è ragione per ritenere che un ceto politico formatosi nel consociativismo possa andar bene anche nel quadro dell'alternanza. Molti politici lo intuiscono e reagiscono seppellendo l'esigenza delle riforme istituzionali sotto le palate di terra degli omaggi rituali e dei rifiuti sostanziali. Che le cose stiano così si capisce anche dalle posizioni di merito delle principali forze politiche. I progetti che si confrontano sono infatti sostanzialmente due: quello di chi propone incentivi alla formazione di coalizioni di legislatura e quello di chi chiede l'elezione diretta del capo dell'esecutivo a tutti i livelli (comunale, regionale, nazionale). I sostenitori del primo progetto sono anche favorevoli al mantenimento di una legge elettorale proporzionale, sia pure riveduta con qualche correttivo maggioritario (sbarramento, premio di maggioranza, ecc.). I sostenitori del secondo auspicano invece l'adozione di un sistema uninominale. I primi ritengono, in sostanza, che il problema principale sia quello di rinnovare, nel limite del possibile, i partiti e rilanciare le coalizioni. I secondi pensano invece che le riforme istituzionali ed elettorali debbono consentire di selezionare un nuovo ceto politico e disegnare due nuovi grandi schieramenti per indurre l'alternanza. Sul piano teorico le due soluzioni istituzionali possono anche essere considerate equivalenti. Crisi analoghe alla nostra sono state superate a volte creando le condizioni per governi di legislatura, altre con l'adozione di sistemi presidenziali. Nel caso italiano non è però difficile capire che il consolidamento delle coalizioni non cambierebbe gran che l'attuale stato delle cose. Mentre l'elezione diretta del capo dell'esecutivo costringerebbe a produrre programmi, schieramenti e candidati alternativi, ponendo finalmente rimedio alla grave atrofia del ricambio di cui soffre il nostro sistema politico, liberando, nel contempo, le istituzioni dall'asfissiante invadenza dei partiti. Purtroppo quest'ultima non è l'opzione del pre-

.{)!I, BIANCO lXltllOSSO 1111 Ikl)11111 I sidente della Commissione per le riforme istituzionali e, dettaglio non irrilevante, nemmeno della maggioranza di Dc, Pds e Psi. È arduo perciò immaginare che sarà la commissione De Mita a varare le modifiche costituzionali di cui l'Italia ha assoluto bisogno per poter funzionare meglio. La precedente commissione Bozzi dopo 14 mesi di lavoro, 50 sedute plenarie e 34 dell'ufficio di presidenza, si è conclusa con un nulla di fatto. Salvo una relazione di maggioranza votata da appeI:Europa immaginata dai cartografi greci (V s. a.C) 4 na 16commissari (su 41) e 6 relazioni di minoranza. Tutte finite nel dimenticatoio. Può darsi che la commissione De Mita abbia maggior fortuna. In ogni caso mi sembra che di una cosa si dovrebbe essere certi: dalla nuova commissione bicamerale potremo al massimo aspettarci qualche misura di cosmesi elettorale, ma non i cambiamenti istituzionali necessari per realizzare la democrazia dell'alternanza. Illudersi del contrario equivarrebbe infatti a credere che l'acqua può scorrere in salita.

"1Jl~ BIANCO lXILROSSO ' ATTUALITA Rispostallacrisieconomica: unprotagonismnouovopertutti di Raffaele Morese a svalutazione della lira ha aperto una fase nuova nell'economia e anche nella vita politica ita- L liana. Il vincolo di cambio rappresentava un punto fermo per la costruzione dell'Europa. Come le vicende dei giorni successivi hanno dimostrato ed in particolare l'uscita (temporanea?) della lira dallo Sme, ormai quel vincolo non esiste più. Almeno fino a quando saranno definite nuove parità e queste siano sostenute da volontà cooperative degli Stati molto elevate. Oltre questo vincolo, la svalutazione ha ribaltato una prospettiva: l'inflazione decrescente. La previsione congiunta che Cer, Irs e Prometeia fanno è che nel 1993 l'aumento dei prezzi si attesti a 5,4%, come nel 1992. Se così fosse, il rimbalzo, rispetto all'ipotesi finora sostenuta dal Governo, sarebbe di 2 punti. Questi due fatti nuovi, minano i capisaldi su cui si basava l'accordo del 31 luglio scorso; esso puntava a sostituire il primato della politica monetarista con il primato della politica dei redditi. Sulla base di questa considerazione, a partire da Trentin, si sostiene che quell'accordo non esiste più. L'affermazione,se serve ad offrire ai militanti della Cgil un senso di liberazione dato che il tormento per l'accettazione è stato grande, può anche essere compresa. Ma resta fondamentalmente oscura. Infatti, lo sconquasso monetario europeo dimostra che la politica monetaria non basta. Non ba5 sta nell'ordinata Germania dove industriali e sindacati chiedono all'unisono che il tasso di sconto cali ben oltre lo 0,5% deciso dalla Bundesbank all'indomani della rivalutazione del marco. Non basta alla disordinata Italia, se è vero che l'azione combinata svalutazione-alto tasso di sconto non ha riportato fiducia sulla lira. Fondamentalmente, è il debito pubblico italiano a fare paura ai capitali esteri, a dirottare risparmio dagli investimenti produttivi, a drogare le aspettative degli italiani. Ma il debito pubblico non è oggi aggredibile dal lato della sua espressione più immediata: i Bot, i Cct, i Cpt, ecc. Sarebbe auspicabile che il loro possesso uscisse dall'anonimato, che fossero compresi nella dichiarazione dei redditi e che il loro rendimento fosse decisamente meno elevato. A questo bisogna arrivare se si vuole ricomporre una frattura nella distribuzione della ricchezza che per oltre un decennio ha diviso la nostra società. Ma nessuna di queste misure è pensabile che sia adottata a breve dal Governo. Il suo fabbisogno è tale che non può far fuggire i risparmiatori dai suoi certificati di credito. Soltanto quando questo fabbisogno si ridurrà si potrà insistere con successo sull'uso di quelle misure. Per intanto, quindi, poche illusioni; l'alternativa alla politica monetaria resta quella dei redditi. Ed in questo senso, dire che l'accordo di luglio non

{)JL BIANCO l.XILROSSO MiiiCiliil esiste più, vorrebbe dire che non esiste più la necessità della politica dei redditi. Anzi, come si è visto, essa resta l'unica strada per il risanamento prima e la ripresa dello sviluppo dopo. Con le recenti misure adottate, il Governo Amato si è mosso in una logica di politica dei redditi finalizzata al risanamento. Essa, com'era prevedibile, è monca dell'attacco alle rendite finanziarie, ma ogni meraviglia sarebbe fuori luogo per le cose dette precedentemente. Questa è certamente un'iniquità palese, perché un'area della ricchezza accumulata viene sottratta dallo sforzo risanatorio. Ma se le iniquità si fermassero qui, in fondo si potrebbe ingoiare il rospo. Il punto è che se la logica è quella della politica dei redditi, la sua esplicitazione non appare equilibrata. Non è questa la sede per affrontare nel merito la proposta di taglio delle spese e di aumento delle entrate, nè di stare ad elencare esigenze di maggiore equità che pure sono state alla base di una mobilitazione dei lavoratori senza precedenti negli ultimi 10anni, con annessi episodi di violenza altrettanto inediti. Mi interessa sottolineare, invece, che una necessità di revisione c'è rispetto all'accordo del 31 luglio; essa non riguarda la messa in discussione della politica dei redditi, quanto il contesto in cui avviene. Se l'accordo del 31 luglio fu ipotizzato in un conteso di graduale riformismo delle istituzioni, dello Stato sociale e dell'assetto produttivo, in questo momento si è tutto accelerato. La politica dei redditi non precede ma è contestuale all'avvio di un cambiamento dello Stato sociale; nello stesso tempo s'incrocia con le modifiche nel sistema produttivo che soprattutto le privatizzazioni delle Pp.Ss. alimentano in modo significativo. E tutt'insieme rendono urgenti quelle riforme istituzionali che i partiti invece tendono a procrastinare insensatamente. La politica dei redditi che si profila è una politica di distribuzione dei sacrifici. Ma non si tratterà di registrare, dal lato dei lavoratori, una minore dinamica dei salari, una contrazione dei consumi e una disoccupazione che, speriamo, sia la meno consistente e lunga possibile. Si tratterà anche di ridisegnare lo Stato sociale e le caratteristiche dell'assetto produttivo. Circa lo Stato sociale ed in particolare le sue due 6 espressioni principali: il sistema previdenziale e quello sanitario, non usciranno da questa fase come prima. Il convincimento che non si può dare tutto a tutti è diffuso. Si tratta di trasformarlo in soluzioni non improvvisate e capaci di segnare una nuova, lunga fase dello Stato sociale. Ed i criteri orientatori devono essere: un minimo di prestazioni assicurato a tutti, un'integrazione di prestazioni assicurata ai meno abbienti, mentre per i redditi medio-alti vanno definite integrazioni di prestazioni o per iniziativa personale o per via collettiva. Ovviamente, tutto ciò deve avvenire gradualmente, in modo omogeneo per tutti i lavoratori dipendenti e con soluzioni istituzionali che reggano nel tempo. Le correzioni alla legge delega e al decreto su sanità e pensioni vanno fatte avendo come riferimento questi criteri. Se no, il rischio è, se si va sul terreno proposto da Amato, di fare i gattini ciechi e se ci si oppone e basta, di non rendere consapevoli i lavoratori che una fase è chiusa e se ne deve inaugurare un'altra. Quanto all'apparato produttivo, crescono i rischi di deindustrializzazione e di vendita di pezzi anche importanti di esso ad investitori esterni. La deindustrializzazione non si frena con la moderazione salariale; questa è utile, ma non sufficiente. Decisiva è una politica dei redditi che tenga sotto controllo l'inflazione e apra prospettive di orientamento del risparmio verso investimentiproduttivi. Nello stesso tempo, però, soprattutto per effetto della scelta di privatizzare le Pp.Ss., si apre la prospettiva che il nostro apparato produttivo si internazionalizzi di più. Non è di per se una iattura, a condizione che non si faccia la fine dell'Inghilterra. Il sistema della Pp.Ss. e delle altre aziende interessate alla privatizzazione è ampio e quindi le soluzioni possono essere molto articolate. In alcuni casi l'internazionalizzazione può essere utile, in altri no; in alcuni casi l'intreccio industria-banche può essere proficuo, in altri no, specie se è la prima che compra la seconda; in altri casi, muoversi lungo la strada di concentrazioni tra privato e pubblico può essere efficace. Credo che attorno alla liquidazione dell'Efim e alla definizione dei criteri di privatizzazione dell'Iri e dell'Eni si giocheranno molte delle ipotesi qui fatte. Ma anche su questo fronte, i lavoratori potrebbero giocare un ruolo, intervenendo nella capitalizzazione delle so-

~JLBIANCO lXILROSSO Millililld cietà da privatizzare. Processi di internazionalizzazione che potrebbero risultare pericolosi o integrazioni monopolistiche che potrebbero comportare concentrazioni di potere troppo ampie, cambierebbero di segno e di qualità se fossero accompagnati e parzialmente sostituiti da presenze istituzionalizzate di fondi alimentati dal risparmio dei lavoratori e stimolati da adeguate agevolazioni fiscali. In questo modo, la crisi produrrebbe una maggiore democrazia economica e con essa un più sicuro mantenimento dell'assetto produttivo. Certo, si tratta di fare un salto di qualità del modo di collocare i lavoratori nella società. Non considerarli più dei salariati e neanche solo dei risparmiatori, ma dei produttori a tutti gli effetti, compreso quello di detenere una parte dell'accumulazione capitalistica. Un salto di qualità che investirebbe anche il sindacato, il cui ruolo rivendicativo sarebbe realmente soppiantato da quello partecipativo. Come si può arguire, troppi cambiamenti si stanno accumulando e possono frastornare la gente. Che invece ha bisogno di sicurezze, di certezze. E le può cercare ovunque, ora che le ideologie non Il «mappamondo»di Krates di Mallo, filosofostoico (Il s. a. C.) orientano più. Le può cercare, anche in buona fede, nell'arroccamento sull'esistente. Non cambiare è una certezza a cui abbarbicarsi. Le può cercare, anche inconsapevolmente, nella identità corporativa, considerandola quella che meglio può offrire nuove certezze. Non deve meravigliare se queste espressioni oggi assumono contemporaneamente sembianze e simboli di sinistra e di destra (ammesso che questi termini abbiano senso). L'orientamento riformista può essere vincente soltanto se il suo progetto è fondato su elementi certi, validi, condivisi. La forza delle cose pretende cambiamento, ma il suo segno è dato dalla forza delle idee e dal sostegno che a queste dà la gente. Non ancora siamo a questo punto. L'orientamento riformista non ancora è un progetto, neanche nel movimento sindacale. E questa lacuna può diventare un handicap nel rapporto con i lavoratori. Non basta chiedere di partecipare ai sacrifici nella massima equità possibile; è necessario accompagnare questo messaggio con un altro; quello di essere portatori di un progetto di cambiamento che fa sentire i lavoratori, i deboli di questa società comunque dei protagonisti. L \ 'ò~;,... .,,..l'1'~\0ç,t C, Q.V.A1"0~\P. -- 7 .At'tl"\ 10P~ c., ~tr~ct.~tS

- I - ~JLBIANCO '-XILROSSO ilii•Kilii• Maastrichitl:sì francese imponecorrettiveiconcretezza di Luigi Colajanni nutile dire quanto sia importante che i francesi, seppure con un «sì»assai risicato, abbiano lasciata aperta la strada ad un ulteriore passo, vedremo quanto ampio ed impegnativo, verso l'Unione europea. Ora dobbiamo tutti interrogarci sulla ampiezza del «no» e chiederci quanto, oltre ai gravissimi errori di un percorso poco democratico, abbiano pesato sia le insufficienze del Trattato in materia di poteri democratici, sia la debolezza delle politiche di intervento nell'economia e nel sociale per controbilanciare l'espansione selvaggia del mercato, sia la contraddittoria e debole architettura della politica estera e di sicurezza, come anche l'avvio importante, ma ancora insufficiente, dei diritti di cittadinanza europea. Su questo bisogna lavorare adesso, soprattutto deve farlo la sinistra, per migliorare il Trattato e convincere i cittadini del continente. Questo ha detto il Parlamento europeo e, speriamo, diranno anche i Parlamenti nazionali, a cominciare da quello italiano. Ma la sinistra deve interrogarsi più a fondo per comprendere se, nel Trattato di Maastricht, insieme all'elemento fondamentale di una scelta epocale d'unione, non ci siano anche elementi di irrealismo che vanno corretti. L'analisi del voto francese indica alcuni punti di riflessione. Intanto, la ristretta maggioranza del «sì» uscita dalle urne del referendum francese non è stata una sorpresa, dopo una campagna in cui i partigiani del «no» avevano mescolato le critiche anche giuste ai limiti del Trattato e alle sue lacune, con questioni di politica interna direttamente o indirettamente legate alla gestione socialista del potere e alla presidenza mitterrandiana. Certamente grande peso, in questo quadro già confuso, ha avuto l'improvviso risveglio di un sentimento di frustrazione davanti al timore di una riduzione della sovranità nazionale, davanti al dilatarsi della potenza economica e monetaria tedesca e alle tempeste 8 monetarie provocate dalla Bundesbank; davanti alle incognite del Trattato sulle questioni sociali, nel momento in cui la Francia denuncia tre milioni di disoccupati e paventa una nuova ondata migratoria facilitata dalla soppressione delle frontiere interne a partire dal 1993. Eppoi la gran massa dei contadini, che addossano alla Pac la responsabilità del calo dei loro redditi, la spaccatura politica di tutti i partiti che contano, da quello socialista a quelli di Chirac, e di Giscard, anche se in misu - ra minore per quest'ultimo. È in questo contesto che i francesi sono andati alle urne per una scelta decisiva alla quale erano del tutto impreparati, come del resto buona parte di cittadini di altri paesi comunitari. Di questo portano una grave responsabilità i governi che hanno scelto di trattare in clandestinità, ai vertici, senza coinvolgere né i Parlamenti ed i partiti, né i cittadini. Alla fine dei conti ha avuto ragione Delors quando, in sede di commento del voto, ha affermato che due mesi di campagna elettorale sul Trattato di Maastricht, di cui solo gli addetti ai lavori conoscevano a fondo il contenuto, non potevano cancellare 40 anni di ignoranza su tutto quello che i vari paesi della comunità avevano ottenuto, sul piano economico e anche su quello sociale, grazie all'esistenza della comunità stessa. Detto questo, e constatata la difficile situazione politica in cui viene a trovarsi oggi la Francia a seguito del referendum (e con una tornata elettorale «legislativa» in calendario per il prossimo marzo), quel che conta per l'Europa, per il varo definitivo del Trattato, è il «sì»pronunciato dalla maggioranza del popolo francese il 20 settembre scorso. Un «sì» che comunque libera i «partners» europei dalle angoscie vissute nella settimana precedente il voto, e in piena bufera monetaria, pensando alle conseguenze catastrofiche che avrebbe avuto per il futuro dell'Europa una vittoria del «no». Ciò non significa affatto che la strada verso la

i.>.lL BIANCO lXILROSSO Mi•Ciliri ratifica definitiva del Trattato, e la sua entrata in vigore alla data prevista, sia ormai senza ostacoli. John Major, presidente di turno della Comunità fino al 31 dicembre, ha convocato per il mese di ottobre un «vertice» europeo dove, a quanto si dice, potrebbe rimettere in discussione alcuni aspetti del Trattato, a cominciare da quelli monetari, nutrendo non pochi dubbi sull'esito del dibattito per la ratifica al Parlamento. Secondo il portavoce del governo tedesco, Dieter Vogel, si dovrebbero operare «aggiunte e chiarificazioni» al Trattato stesso per piegare le resistenze degli «euroscettici» inglesi. E l'Italia? Consolata del «sì»francese ma in piena crisi monetaria, fuori dallo Sme e stravolta dalla pesante «manovra»di risanamento economico progettata dal governo Amato, anche l'Italia comincia a dar segni di esitazione in attesa che la Camera, dopo il Senato, decida la ratifica del Trattato: è così che Craxi chiederebbe una «ridefinizione» di questo Trattato«in alcuni aspetti non secondari», che i missini propongono di organizzare un referendum come in Francia, che quelli di «Rifondazione» affermano che il «sì» francese conta ben poco perché è stato estorto con una campagna «ricattatoria». Ne deriva che il dibattito alla Camera per la ratifica potrebbe anche slittare dopo il vertice europeo d'ottobre. Quel che invece dovrebbe e deve imporre la situazione creatasi dopo il «sì» francese è un'accelerazione del processo di ratifica, è insomma una presa di coscienza politica del valore storico di un Trattato il cui obiettivo è di fare dell'Europa una Unione. Ed è dopo, dopo l'entrata in vigore .del Trattato, all'inizio del 1993, che - come dicevamo all'inizio - i Parlamenti nazionali, il Parlamento europeo e, in essi, le sinistre, dovrebbero seriamente affrontare la battaglia per l'indispensabile miglioramento del Trattato. Questa è la sola strada percorribile per chi ha la volontà politica di realizzare l'Unione. Tutte le altre non provocherebbero che dilazioni e ritardi, col rischio - in definitiva - di bloccare un processo di cui nessuno, in buona fede, può negare la portata storica, per l'Europa e per un nuovo equilibrio mondiale. Unarinascit«aculturale» perla «questionmeorale» di Paolo Giammarroni e he effetto vi fa vedere, per settimane, nella classifica estiva dei libri più venduti le memorie di Falcone e le formiche di Gino & Michele, le analisi su Tangentopoli e i raccontini surreali di Gene Gnocchi? A me ha fatto venire voglia di parlare di cultura ed etica. Il ritorno dello sdegno è un segnale troppo bello per farci sopra mille distinzioni. Ben venga questa ondata di «basta!», gridata nella Padania davanti ai politici corrotti o nelle provincie meridionali dove la mafia conviveva da sempre con il profumo delle zagare. Sui limiti, comunque, di una «nuova»politica da fondare esclusivamente su questo sentimento co9 mune o sull'onestà autodichiarata di aspiranti dirigenti del paese, su queste pagine è già stato scritto abbastanza. Più blanda avverto una discussione di fondo. Se la morale vuol tornare, come giusto, ad un suo ruolo orientante, di quale morale parliamo? E soprattutto: abbiamo idea su cosa vada fondata? Si può rispondere rapidamente che i valori sono già nella Costituzione, in quell'intreccio di valori laici su cui si sono ritrovate da sempre anche le coscienze religiose. Eppure la cultura laica, per non parlare di quella strettamente liberale, vive a dir poco un momento di confusione totale. Pesante è oggi l'incertezza tra

i.>!1- BIANCO U-_11, ROSSO MiiliiilllW apertura o chiusura di frontiere, tra arbitrio del mercato e difesa di nuovi diritti collettivi, tra valorizzazione del singolo e «precettazione» obbligatoria. In questo clima, il secolo si chiude sul trionfo della Chiesa cattolica, con la sua capacità di chiamarsi sopra le parti e proporre messaggi ammodernati, saldati dal richiamo alla sua centralità morale. E il mondo laico è costretto a balbettare, a riconoscere questa superiorità, con non poco imbarazzo di quei credenti (pochi? tanti, ma silenziosi?) che per primi hanno avvertito le contraddizioni di fondo di quella proposta: che sogna una scuola confessionale, disprezza ancor oggi i divorziati, «scopre» le insidie nascoste nelle Messe di Mozart. Una delle poche altenative sul mercato è il fronte della cosiddetta Nuova Resistenza. Torna una lettura del periodo della Liberazione, cara in origine agli azionisti e oggi ripresa con molte similitudini dal trasversalismo post-comunista. L'immagine di un impegno inteso come «moralità armata», di una radicalità progettuale tutta «civile»poi svenduta dai grandi partiti, di uno spirito innovatore meta-politico fondato proprio sullo stretto rapporto tra moralità e cultura. Aldilà dell'utile occasione per una rivisitazione storica, le applicazioni concrete di questo moralismo di moda sono sotto gli occhi di tutti. Andiamo dal sarcasmo anarcoide di Cuore, tutto puntato a sputtanare uomini e idee, fino ai megaraduni tipo la «festa antimafia» a Palermo di metà settembre: 25mila persone commosse per la loro visibilità, ma anche costrette a sorbirsi una filastrocca antimafia da quinta elementare di Jovanotti, Gabriele Laviaa recitare senza voglia Shakespeare e Gassman e far pubblicità al suo Achab. Forse siamo noi a non star più dentro le cose, a poter garantire l'interpretazione autentica di quanto avviene tra la gente: non è comunque un caso se le esemplificazioni che vengono in mente riguardano tutte il mondo dello spettacolo, della cultura, della comunicazione. Ogni discorso etico rischia oggi di risolversiin un nuovo conservatorismo, a forza di universalizzare i temi, oppure in un relativismo, in nome della storicità di ogni valore, che oggi non ci appaga più. Nella dimensione della comunicazione, invece, non c'è spazio per restaurazioni trascendentali. Bisogna accettare, in partenza, la dimensione plurale dei rapporti, la non completa capacità di controllo sugli esiti, l'indebolimento dei soggetti a conronto. Eppure è questo l'unico scenario dentro cui possiamo trovare motivazioni, se non fondamenti. Provare a interpretare senza ricadere nei pregiudizi. Di qui la domanda: quale possibile rapporto tra cultura e l'attuale riscoperta etica? Mi limito a sottolineare solo alcune sottoquestioni. La scuola. Si dice sempre: bisognerebbe cominciare dalla scuola. A che punto è il sistema scolastico? Ha energie proprie, autonome, in parte inspiegabili, che lo motivano aldilà delle burocrazie e delle aule fatiscenti: questo ci dicono gli esperti. Ma se non vogliamo che insegni mero criticismo o pura capacità di adattamento, quale ruolo possiamo realisticamente affidargli? Un'ipotesi di lavoro per una sinistra da ridisegnare passa anche per un proprio progetto sul tormentato ma bloccato rapporto pubblico/privato. Favorire la concorrenza tra sistemi non potrebbe contribuire a rifondare un senso dello stato, visto che finora non siamo stati capaci neanche di insegnare quattro nozioni di «educazione civica»? I soggetti. Gli intellettuali di sinistra sono morti. Hanno fatto la carriera che volevano e hanno imparato a gestirsi i micropoteri, a cominciare dalla scelta dei delfini. Altri hanno saltato il fosso e lavorano per il mondo commerciale, senza rimpianti, anzi giovandosi di una rivalutazione dell'esperienza «sessantottina». Non si sente l'esigenza di nuovi pedagogisti autodidatti, di quelli pronti a spiegarti «cos'è che stai pensando», uno dei parti più pietosi delle politiche culturali degli anni Settanta. Oggi esiste una rete di micro-esperienze, avvicinabili al volontariato, che lavorano nel campo della comunicazione con radicamento sul territorio, ma senza più le ambizioni palingenetiche di un tempo: parlo di gruppi in grado di gestire un Informagiovani, o di realizzare un evento musicale, o di gestire lo sforzocomunicazionale di un ente locale, o di monitorare i Beni culturali di cui è disseminata la penisola (e su cui occorrerà dedicare un discorso a parte, in termini di risorse da cui questo paese può ripartire). Un'ulteriore iniezione di managerialità nei loro confronti non può venire da un progetto mirato alla «trasparenza» e alla «comunicazione» all'interno di una collettività? Sarebbe troppo poco appariscente, oppure lontano dai tradizionali faraonismi programmatori della sinistra?

_.P-!L BIANCO lXltROS.SO MiikCilld Certo saremmo mille miglia lontani dall'uso della cultura a scopo di regime, come è accaduto per il socialismo-imperiale alla Mitterrand. Per la cronaca, chiunque vada in Francia scoprirà, accanto ai Beaubourg e alla Biblioteca nazionale in costruzione, una realtà di Palazzi della cultura in ogni cittadina, attentissimi a valorizzazione ogni realtà artistica in movimento. Lo spettacolo. Un'analisi a sé merita ormai il mondo dello spettacolo, per la sua rilevanza sulla sfera delle «rappresentazioni» collettive. Dunque decisivo nell'orientare una lettura del presente e del futuro. Le cifre italiane 1991parlano chiaro. Su una spesa di 4.146 miliardi, per la prima volta nel dopoguerra la fetta più grande (35%) se ne va in «trattenimenti vari»: quasi 1.400miliardi in discoteche, videogiochi, bowling, villaggi turistici. Pari rilievo economico ha la voce «abbonamenti televisivi»: e non poteva essere altrimenti, visto che le spese in apparecchi tv e videoregistratori viaggiano al ritmo del +6% l'anno, contro un misero 2,2% delle spese per acquistare libri, giornali, periodici. Toltoanche il mondo dello sport (14%), si certifica l'ulteriore crollo del cinema (11%, contro 1'88%che valeva nel 1950)e una tenuta senza ambizioni dell'insieme delle attività teatrali e musicali (7,8%). Queste ultime sono ormai penalizzate anche dall'adeguamento delle tariffe: in media un concerto di musica classica costa 14.700 lire, uno di musica leggera 22.350, un teatro 15.200, un'opera lirica ben 35.000. Parlare di situazione avvilente è poco. Il mondo politico ha avuto grande cura nell'occuparsi del solo ambiente della lirica, dove girano miliardi pubblici e clientele importanti. Il resto dello spettacolo è ancora in attesa di proprie leggi quadro. Finché questa incertezza fisica non sarà superata, difficile chiedere agli artisti di darci segnali di speranze o di lavorare più motivati. Sarà un caso che gli ultimi film di Avati, Amelio, Grimaldi hanno per protagonisti bambini dai grandi occhi e non più adulti che ne hanno viste tante? La ricerca. Nessuno dovrebbe chiedere al mondo della cultura un impegno predeterminato nei contenuti. Richiederlo alle persone, fuori dal reale contributo delle loro opere, ha poi significato minimo: è finito il tempo delle gratuite raccolte di 11 firme sotto manifesti da dimenticare il giorno dopo. Si può indicare solo qualche tema, forzatamente ambiguo, per una possibile ricerca: la Babele dei linguaggi, il ritorno della voglia di piccoli miti, lo scavo nelle nostre radici. Siamo un paese che si vergogna delle proprie origini contadine e che poi lottizza nel verde la propria fuga dalle città. Non abbiamo sciolto il rapporto tra una lingua nazionale, almeno per scrivere, e la sicurezza che ci dà il ricorso quotidiano al gergo e al dialetto. Siamo situati nel cuore della storia mediterranea, ma ci emozioniamo per il ritrovamento di frammenti di statue a Brindisi e lasciamo morire il trallallero dei portuali genovesi e i canti polifonici delle comunità albanesi al Sud. Servono dunque nuovi tasselli per le nostre ricostruzioni. Tasselli meno «trattati» dal gusto della catena di montaggio industriale (i Tazenda sono già troppo consolatori), eppure capaci di stare dentro l'industria attuale, cioè di farsi proposta almeno pubblica, se non di massa. Chi difende a spada tratta il servizio pubblico Rai, incominci a chiedergli maggior conto delle sue programmazioni (e non solo della sua innocuità, tanto cara a Pasquarelli), prima di demonizzare Berlusconi. E speriamo che, da dentro questo fermento sociale che chiede più serietà e propositività, nascano forze imprenditoriali audiovisive capaci di rapportarsi col mondo della cultura, anziché solo dal sottobosco della finanza locale o dalle imprese di mortadelle. Può sembrare una contraddizione finire questo discorso con l'invocare un'imprenditoria specifica, per il settore audiovisivo come per l'editoria. Eppure le dimensioni attuali della comunicazione impongono tanto interventi a favore delle microstrutture locali, quando un'articolazione di proposte ai livelli più alti. Paradossalmente proprio l'attuale febbrile erapida consumazione di ogni oggetto estetico, frutto dello shock collettivo per spaesamento e ipersensibilità, può far risaltare proposte originali, meno superficiali purché meno ideologizzate. Nessuna operazione nostalgia, dunque, nel «ritorno» ai valori nella comunicazione sociale, nonostante le speranze di parroci, ex-settantasettini e rifondazionisti vari. Un progetto ben più rischioso e «laico» per costruire spazi a proposte culturali autonome, capaci di misurarsi con il bisogno collettivo di riflessione e speranza.

OJLBIANCO '-X-lt ROSSO MiiRCiliil Le«voci»dellaChiesacattolica nel«silenzio»dellapoliticaincrisi di Giovanni Gennari 1. La Chiesa «forza sociale»: una situazione nuova e inattesa. Politici giù, vescovi su. Quando nel 1985, a Loreto, Giovanni Paolo II lanciò alla Chiesa italiana il suo monito a diventare sempre più «forza sociale», non poteva immaginare un futuro come l'attuale. In Italia, nella crisi di credibilità morale della politica organizzata, ormai quasi solo capace di parlare per risse interne e per sussulti di aggressività verso l'esterno, i messaggi della Chiesa italiana rivolti alla società si fanno sempre più frequenti, e sempre più accolti dall'opinione pubblica, e dai media, anche da chi cattolico e credente non è. Dai tempi del Convegno di Loreto, in sette anni, è cambiato il mondo, e sta cambiando l'Italia: la politica organizzata nei partiti e nelle Istituzioni appare sempre più in crisi, la società sempre più inquieta, gli esiti delle campagne elettorali vengono determinati anche, se non soprattutto, dalle comunicazioni giudiziarie, e si affermano teorizzazioni di disimpegno, di separatismo, di rifiuto della organizzazione solidaristica e della stessa unità della nazione ... In questo contesto la Chiesa appare, almeno in quanto forza sociale e morale, come punto di riferimento per tanti. Sergio Romano, commentatore politico autorevole, annotava con malcelato malumore, nelle scorse settimane, che non è un buon segno, per l'Italia, se un vescovo appare come l'unico personaggio credibile di una intera città. Ovvio: purché qualcuno non arrivi a pensare, e teorizzare, che sarebbe meglio non ci fosse neppure il vescovo... Difficile ricordare qui tutti gli interventi, anche solo recenti, di vescovi italiani che hanno detto la loro sulla crisi della società e sulla necessità del rinnovamento della politica, che implica, e presuppone, per essi, un rinnovamento della vita stessa 12 delle persone e dei comportamenti sociali delle istituzioni. Solo nelle prime settimane di settembre ricordo la lettera del cardinale Martini, «Stoallaporta», sulla «vigilanza cristiana», di cui diremo in seguito. Contemporaneo il documento del cardinale Giacomo Biffi, arcivescovo di Bologna, dal titolo «Guai a me ... », che tratta del dovere di evangelizzazione che incombe al vescovo,e che si segnala per una notevole diversità di toni e di contenuti, se lo si confronta con lo stile e con le tematiche del cardinale Martini. Per Biffi, infatti, la Chiesa deve difendere la verità, la sua verità, più che dialogare, e diffidare di temi come solidarietà, pace, rispetto, se vengono realizzati in un contesto secolaristico, e possono diventare elementi che distolgono i cristiani dal dovere di annuncio e di testimonianza integrale. Martini e Biffi:per lo meno due diverse maniere di declinare l'annuncio e l'impegno cristiano oggi. Va segnalata anche la lettera pastorale del cardinale Giovanni Saldarini, arcivescovo di Torino, « Voi siete il sale della terra... », dedicata all'impegno dei cristiani nella storia. Di rilievo anche molti interventi meno organici di vescovi italiani, sempre relativi ai problemi attuali dei rapporti tra politica e società. Forti anche gli interventi dell'arcivescovo di Padova, monsignor Mattiazzo, di monsignor Luigi Bettazzi, vescovo di Ivrea, e del patriarca di Venezia, cardinale Marco Cé. In questo contesto si segnala un severo intervento di monsignor Giuseppe Agostino, arcivescovo di Crotone e vicepresidente della Cei, Conferenza episcopale italiana, sulla necessità della riforma morale che tocchi profondamente partiti ed istituzioni italiane, e sulle responsabilità forti dei cattolici e delle istituzioni di Chiesa. Stesso discorso, anche più duro, quello di monsignor Raffaele Nogaro, arcivescovo di Caserta, cui si deve inizialmente la denuncia forte del malaffare di politici

~jLBIANCO '-XILROSSO iliikiiilill Dc della sua città, poi convalidata dalle indagini giudiziarie e da raffiche di avvisi di reato. Di rilievo, poi, e lo vedremo in sintesi, le ultime elaborazioni della Cei in quanto tale. Ora vale la pena di fermarci su qualche intervento in particolare. 2. A partire da Milano. Il cardinale Martini. È noto che nel processo di manifestazione della crisi della politica Milano ha avuto un ruolo centrale, e non certo positivo. Qualche anno fà, in tempi che appaiono lontani come un altro mondo, uno dei segnali della fine di un'epoca, quella del terrorismo, fu la consegna delle armi dei terroristi, da parte degli stessi, all'arcivescovo, Carlo Maria Martini. Oggi proprio davanti a lui, in casa sua, il massimo rappresentante dell'imprenditoria italiana, Cesare Romiti, amministratore delegato della Fiat, è andato a pronunciare parole di grande significato morale: «Come cittadini, e come imprenditori, non ci si può non vergognare di fronte alla società, per quanto è successo. Ed io sono il primo a farlo... Non ho paura di dirlo. Avrei paura di non dirlo, stando qui seduto accanto alla massima autorità morale della città». Giuseppe Turani ha annotato, sul «Corriere», che queste parole a Romiti «nessuno le aveva chieste», e perciò esse sono ancora più significative. Martini. Con lui la Chiesa milanese è diventata più che mai forza sociale, nel senso della autorevolezza e della capacità di parlare a tutti. La sua recente lettera pastorale, «Sto allaporta», sulla vigilanza e sulla responsabilità come doveri morali cristiani e umani, ha colpito nel segno. Lo scritto, al di là delle tematiche che qui ci interessano, appare un piccolo capolavoro di stile anche letterario, di capacità di accostare con rispetto e con delicatezza l'uomo moderno, visto realisticamente alle prese anche con i dubbi e con le difficoltà della cultura contemporanea, con i sospetti nei confronti della istituzione ecclesiale, con le colpe dei cristiani impegnati in politica e delle stesse istituzioni ecclesiali che non vigilano, non verificano, non si prendono le loro responsabilità storiche, preferendo una delega data una volta per tutte, e favorendo così anche i tradimenti della fede e la ripercussione sulla stessa Chiesa delle incoerenze dei cristiani. Con il suo stile discreto e amichevole, con la forza degli argomenti che vengono da sapienza e cui13 tura, con il realismo saggio, mai cinico, che osserva tutti i dati per poi avanzare un giudizio netto sulle cose, ma rispettoso delle persone e delle coscienze, l'arcivescovo di Milano è capace di bussare alla porta di tutti i lettori, e di toccare prima la mente, e poi, eventualmente, i cuori e le coscienze. Anche dal punto di vista letterario la sua lettera è un esempio di stile, di misura, di metodo. Egli è uno che sa dialogare con gli uomini. Ma è l'arcivescovo di Milano, epicentro di Tangentopoli, e non può certo dirsi che non abbia ammonito prima, mentre ancora quasi nessuno protestava, mentre lo stile dei pretoriani della politica contagiava partiti e città, mentre le bande dei professionisti degli affari preparavano questo presente di desolazione e vergogna ... Già l'anno scorso, il 27 novembre, - i nostri lettori hanno potuto leggere il testo intero sul n. 24 di questa rivista, pp.52-53 -, ai politici Dc riuniti ad Assago, Martini aveva richiamato con forza il senso della responsabilità morale nei confronti dello sfascio e della corruzione. Suo, allora, l'ammonimento per una riforma autentica della politica, che non si limitasse alle apparenze, come il «fico dalla foglie belle, ma senza frutti», o ai rimedi parziali, come la «toppa nuova sul vestito vecchio» o il «vino nuovo negli otri vecchi». Si sa che egli non è mai stato un partigiano acceso del partito unico dei cattolici, ma nella circostanza parlava ai Dc e il suo ammonimento era fatto su misura per essi: «Ivalori che domandano l'unità dei cattolici contestualmente giudicano pure uomini e prassi politiche, comportamenti di singoli e di gruppi, programmi e realizzazioni o mancate realizzazioni ... Voidunque comprendete molto bene l'esigenza indilazionabile della riforma del partito. Voi vi rendete conto che per un rinnovamento è urgente sapere suscitare e fare spazio ad uomini nuovi, e porre le condizioni per una loro militanza nel partito, che non comporti compromessi con la coscienza ... ». Un discorso netto come il taglio di un bisturi. Se la sciagurata Irene Pivetti, e con lei il suo capo Umberto Bossi, prima di parlare oggi avessero ascoltato e letto, si sarebbero risparmiati lo sguaiato intermezzo dei giorni scorsi. Ma cultura e senso della misura, si sa, non sono di certo la specialità della Lega ... È del resto singolare che qualcuno chieda ad un vescovo, anche se solo a scopo demagogico, di in-

icllL BIANCO l.XILROSSO Miiliiilill tervenire come giudice nell'ambito strettamente politico. Ancora in quel discorso di Assago lo stesso Martini aveva detto questa chiarissima parola, che dovrebbe servire a mettere le cose al loro posto: «La gente cerca talora nella Chiesa il punto di riferimento per orientarsi, ma la Chiesa deve restare nei suoi limiti». È per questo che sotto la penna di Martini, nel documento recente, «Sto alla porta», dedicato al dovere di «vigilare». viene il richiamo allo «stile cristiano di laicità», una qualità così rara nel mondo non solo politico nostrano. « Vigilanza», «responsabilità», «stile cristiano di laicità»: sono questi i tre nuclei della lettera del cardinale Martini. E non è una predica agli altri, solo agli altri. È il distintivo dei moralisti, quello della predica riservata ai diversi, della sicurezza arrogante da ogni esame di coscienza. Lo hanno notato in pochi, ma Martini predica anche alla Chiesa milanese, e soprattutto ad essa, il dovere della vigilanza e della responsabilità: «Ci troveremmo oggi così amareggiati per tante situazioni incresciose che offuscano la nostra vita politica ed amministrativa, se fossimo stati un po' più vigili, se avessimo alzato lo sguardo, allargando gli orizzonti oltre le comodità e l'interesse immediato?». Non sono poi lontani i tempi in cui i cristiani, i buoni cattolici, consideravano virtù il non farepolitica, il delegare ad altri (i vescovi, la Santa Sede, la Dc...) la propria inalienabile responsabilità anche politica. Un richiamo alla vigilanza e alla responsabilità così insistito presuppone finita per sempre, - e non mi pare un particolare di piccola importanza-, l'epoca in cui ai cattolici bastava votare per un certo partito, e al resto pensavano i politici, magari con l'assistenza autorevole degli uomini di Chiesa ... L'autonomia politica e la libertà del pluralismo delle scelte politiche dei cattolici sono la conseguenza diretta di questa insistenza ricorrente sui concetti di vigilanza e di responsabilità. Mi pare la consacrazione esplicita della autentica laicità delle scelte politiche. Appunto: «lo stile cristiano di laicità», cui Martini dedica i paragrafi 39 e 40 del suo testo. Vorrei notare, tuttavia, che il discorso di Martini non è assolutamente un cedimento alla tesi della separazione tra sacro e profano, del rintanamento dei cristiani nelle sacrestie, che tanto piacerebbe a certo incolto laicismo nostrano, che 14 non ha ancora capito la distinzione tra storia e fede, tra mondo e Chiesa, tra politica e religione nella autentica declinazione della teologia del Concilio. Del resto paiono non averlo capito, questo punto centrale del Concilio, anche certi cattolici integralisti che vogliono servirsi della politica cristiana per affermare il loro potere terreno. Martini, in uno dei punti più precisi del suo ultimo testo, ricorda che «il Cristianesimo non è la religione della salvezza dal tempo e dalla storia, ma del tempo e della storia». Stile cristiano di laicità, dunque. È un tratto importantissimo del discorso martiniano. Per questo quando prova a delineare «alcuni ambiti della vigilanza» (n.26), Martini comincia così: ,<.Anzitutto all'interno dei partiti». «Deipartiti»: questo plurale vuol pure dire qualcosa, se per esempio lo confrontiamo con un passo della recentissima lettera pastorale del cardinale di Torino, Giovanni Saldarini, pubblicata negli stessigiorni di quella di Martini. In essa, ad un certo punto, parlando delle preoccupazioni del vescovo per la coerenza delle «organizzazioni» che vedono i cristiani impegnati nella società, Saldarini esemplifica così: «ilpartito, le Acli, il Movimento Cristiano Lavoratori, ..., le Associazioni ... » (p. 33). Il partito: al singolare. È anche questo un testo significativo, che segnala una differenza tra Martini e Saldarini. È una differenza che oggi è sempre più evidente, e clamorosa, nella intera Chiesa italiana. È pur vero che forsemai, negli ultimi anni di elezioni, i vescovi italiani si sono dichiarati ufficialmente per l'unità dei cattolici, che vuol dire in pratica per il voto alla Dc, come hanno fatto in vista del recente 5 aprile, e tuttavia il risultato del voto, rafforzato recentemente dal crollo di Mantova e dalle previsioni catastrofiche di vari sondaggi, ha cambiato profondamente il clima che oggi si vive nella Chiesa italiana. Difficileche la cosa si ripeta così. Il malumore dei vescovi italiani ha avuto modo di manifestarsi chiaramente anche nei confronti del cardinale Ruini, che aveva così apertamente spinto per il voto alla Dc. Sono ormai molti i vescovi che mal sopportano, e non lo nascondono, un appoggio unilaterale della Chiesa italiana al partito storico dei cattolici italiani, così cambiato rispetto alle sue origini e allo stile di vita e di coerenza cristiana di altri tempi. Negli scandali non si può certo dire che i Dc siano assenti, o in seconda fila rispetto ai politici di altri partiti. Non

{)JL BIANCO lXILHOSSO Miiliiiilil è più, posto che lo sia mai stato, un problema di tessera di partito, e il solo appiglio di interessi materiali e di protezioni politiche risulta del tutto indigeribile alla stessa avvertita coscienza di massa dei cattolici italiani, e degli stessi preti e vescovi. È probabile, voglio dire, che questa Dc o cambia radicalmente o sarà costretta, e presto, a rinunciare all'appoggio ufficiale dei vescovi italiani. Già qualche esempio forte si è realizzato. Ne ricordo uno per tutti. Il vescovo di Caserta, monsignor Raffaele Nogaro, noto per le sue denunce delle collusioni tra camorra e politica, ha recentemente dichiarato ai giovani delle Acli che «LaChiesa viene delegittimata da una Dc che è sopravvissuta perché ha cancellato l'aggettivo cristianae si è specializzata in affari. Essaoggi non deve mai fare partito, ma deve essere casa dell'ospitalità per tutti gli uomini. Dal secondo dopoguerra abbiamo politicizzato la Chiesa, oggi per fortuna finisce l'uso ideologico della fede e può rivelarsi la vera anima missionaria dell'annuncio cristiano» ( «Adista» 26/10/92). 3. Unmessaggio complessivo: i comandamenti dei vescovi alla società incerta. Non credo che i vescovi italiani si siano accordati, di questi tempi, per concentrare i loro interventi sulla speranza e sull'impegno necessari per uscire dalla crisi molteplice che attanaglia il paese, e tuttavia è chiaro che alcuni orientamenti di fondo si possono ricavare, dai diversi e numerosi interventi che si sono succeduti di recente . . ==~...r.: .1....=~=- ' I ~rr Il mondo secondo Eratostene (III s. a.C.) 15 Senza la pretesa di dire tutto, e di toccare tutti i temi affrontati, vale la pena di provare a sintetizzare, tenendo presenti soprattutto i documenti dei singoli vescovi ricordati sopra (Martini, Biffi, Saldarini, Mattiazzo ecc.) e quelli della Cei, in particolare la Conclusione, resa nota il 28 settembre, dell'ultima sessione del Consiglio Permanente della Cei. È innanzitutto chiaro che tutti gli interventi danno per scontata la situazione contemporanea. Le ideologie sono finite, tutte o quasi, salvo quella del profitto assoluto e del mercato come unico metro del progresso, ma gli uomini di Chiesa non guardano alle idee. Essi pensano agli uomini concreti, e pur nella loro diversità di cultura e di sensibilità personale su cose e persone, esprimono una serie di orientamenti comuni. A) - Ruolo religioso della Chiesa. Il primo è quello del ribadire la natura religiosa e pastorale del proprio intervento. I vescovi ricordano ai loro interlocutori che essi sono vescovi, cioè sono uomini di religione, cui spetta non la gestione o il giudizio diretto sulle cose sociali e politiche, ma l'annuncio del Vangelo e, con esso, l'illuminazione delle coscienze. Gli interventi diversi («Vigilate», di Martini, «Guai a me se non annuncio il Vangelo», di Biffi, « Voisiete il sale della terra», di Saldarini) partono dal Vangelo. La Chiesa e i cristiani come tali non sono prima di tutto altro che segni di Cristo Salvatore. È un forte senso della distinzione tra fede e politica, tra illuminazione delle coscienze e gestione

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