ISS1120-7930- SPED.ABB.POST. - GR. 111/70% ~!LBIANCO '-X-IL ROSSO MENSILE DI DIBATTITO POLITICO Oltrel'orrore essuno li ha ferma ti ed hanno ucN ciso il giudice Borsellino e cinque agenti della sua scorta. La nuova strage di Palermo, a due mesi da quella che costò la vita a Giovanni Falcone a sua moglie e ad altri agenti di polizia, ci riporta alla memoria una frase di Joseph Roth. Poco prima della sua morte a Parigi nel 1939 in piena persecuzione razzista, lo scrittore austriaco scriveva: «Nullapuò ormai suscitare orrore. E questo è il vero orrore». Il nostro tempo sembra ormai consumarsi all'insegna di questa disperata rivelazione. L'assedio di una violenza inumana sta diventando 31/32 ANNOIII 0 •AGOSTO/SETTEMBRE Jq 2•L.7.000
*** Pierre Carniti Stefano Allievi Pietro Merli Brandini Paolo Tufari Arie Oostalnder Livia Ricciardi Francesco Paolo Conte IN QUESTO NUMERO EDITORIALE Oltre l'orrore Un passo avanti e uno indietro ATTUALITÀ Algeria: lo strano silenzio dell'Europa Incompatibilità Ira Parlamentare e Ministro Legalità e solidarietà DOSSIER Cosa c'è in fondo al tunnel? Dibattito Ira Pierre Camiti, Gianni Baget Bozzo, Enzo Bettiza, Gian Primo Cella, Claudia Mancina, Giuseppe Tamburrano: Una crisi di sistema. C'è un futuro per i partiti? La crisi italiana e il problema delle moralità della politica La crisi italiana, la sinistra, la riforma dell'economia L'EUROPA E Il.. MONDO Cause e fattori della crisi jugoslava. E l'Europa? INTERVENTI Lavoro che manca, lavoro che cambia SCAFFALE «La fabbrica delle pensioni»: per vederci più chiaro Immagini: disegni architettonici di Antonio Sant'Elia pag. 1 pag. 3 pag. 5 pag. 8 pag. 10 pag. 15 pag. 16 pag. 25 pag. 36 pag. 45 pag. 59 pag. 64
~jJ,BIANCO l.XILROSSO •IUiki)i1iiMH soverchiante. Dopo quello che è successo non possiamo continuare a scrutare ansiosamente il deserto dei Tartari dalle torri della fortezza Bastiani. l:invasione mafiosa è già avvenuta e ci stringe da vicino. Possiamo pensare che alla fine non vincerà. Perché ha solo ferocia, non verità. Ma con questa prospettiva i conti sono aperti e non c'è da illudersi sulla durata e la difficoltà del passaggio. Per poterlo affrontare dobbiamo ricostruire una speranza. Non solo per il futuro, ma per l'oggi. Perché questo possa avvenire occorre realizza - re subito una duplice condizione: uno Stato che funzioni nell'azione preventiva e repressiva contro la criminalità organizzata ed uno Stato credibile sul piano politico ed istituzionale. Bisogna riconoscere che oggi non c'è né l'una né l'altra condizione. Il rischio peggiore per le sorti della democrazia è che tutto si risolva quindi in una invettiva irrimediabile contro la politica. Per recuperare credibilità e scongiurare questo pericolo bisogna che la politica accetti davvero di essere giudicata abbandonando la pretesa di potersi autenticare al di sopra di una misura morale. D'altro canto se la politica si ritenesse ingiudicabile le persone per bene avrebbero più di una ragione per non frequentarla. Poiché molti fatti, compresa la tragedia dell'ultima strage di Palermo indicano che la crisi di credibilità dello Stato è arrivata a soglie intollerabili, nessuno può illudersi che si possa incominciare a superarla senza un profondo cambiamento della politica. Che vuol dire rinnovamento di regole, di comportamenti, di uomini. Le questioni che si pongono nella lotta contro la mafia sono irte, difficili, a volte addirittura terribili, ma non insuperabili. A patto però che si dia al paese la visibile dimostrazione che la politica ha voltato davvero pagina. Ha rotto ogni contiguità. Se questo non avvenisse non basterebbero certo personali oneste indignazioni, a rimuovere, nel paese, il rimorso del «vero orrore». * * * Unpassoavantie unoindietro di Pierre Carniti L a manovra economica, con la quale il governo spera di ridurre di 30 mila miliardi un disavanzo che diversamente rischia di farci affondare, induce ad alcuni apprezzamenti, qualche riserva ed un dubbio. L'apprezzamento è per il fatto che le misure escogitate da Amato per la maggior parte innovano vecchi ed assai discutibili criteri di intervento correttivo dell'andamento del bilancio. Uno dei principali elementi di novità è infatti la scelta di colpire il meno possibile redditi e consumi e tassare invece la ricchezza. Per la prima volta al posto dei redditi si toccano i patrimoni. Pagano soprattutto quelli che hanno «soldi». Sia sotto forma di «conti bancari» che di «mattoni». Non sarà certamente il massimo dell'equità, ma sicuramente è meglio di idee cervellotiche come l'addizionale lrpef, di cui si è parlato quest'anno, o la raffica di aumenti dei beni e servizi acquistati dai consumatori, con inevitabili effetti inflazionistici praticata gli anni precedenti. 3 Oltretutto non dovrebbe dispiacere il fatto che per la prima volta pagheranno anche quelli che prendono tangenti, i mafiosi, gli evasori totali. Tutte persone che non possono fare a meno di servirsi largamente dei conti bancari sui quali detengono spesso somme cospicue e che investono prevalentemente proprio nel settore immobiliare. Certo, forse sarebbe meglio che di queste persone si occupasse soprattutto il giudice penale ma, in attesa che ciò avvenga, non si capisce perché di loro si debba disinteressare anche il fisco. Si deve inoltre apprezzare il fatto che i provvedimenti, in particolare quelli contenuti nel disegno di legge delega, configurano parecchio di più di una delle consuete manovre tampone. Contengono infatti, almeno il proposito, di correzioni strutturali dei meccanismi che hanno finora generato disavanzi ed impedito il buon funzionamento dei mercati. Questi sono, dunque, i principali elementi positivi del provvedimento. Veniamo alle riserve. Sol-
_p-l), BIANCO lXILROSSO •MUikUAl11M leva perlomeno perplessità il nuovo assetto delle Partecipazioni Statali. Intanto non è chiaro chi incasserà i proventi delle quote azionarie messe sul mercato. Andranno al Tesoroo saranno invece utilizzati per ricapitalizzare le società? Comunque si dovrebbe pensare che facendo capo al Tesoro un parziale processo di privatizzazione potrebbe risultare più spedito. Ma, almeno per quanto si è capito finora, con la costituzione delle due super holding il risultato potrebbe invece essere un ulteriore zavorramento del metodo decisionale e della sovrastruttura burocratica delle imprese pubbliche. Nel caso dell'Iri, ad esempio, al di sopra delle aziende d'ora in poi avremo le finanziarie, il gruppo e la super holding, oltre, naturalmente, il ministero che dovrebbe continuare ad esercitare funzioni di indirizzo e di controllo. Si tratta di un modello organizzativo-burocratico di stampo sovietico e, per sua natura, poco adatto a sorreggere un processo selettivo di privatizzazioni. Processo che dovrebbe consentire di rettificare una espansione delle Partecipazioni Statali avvenuta nel corso degli anni in modo casuale e non di rado cervellotico. Cioè senza nessun disegno strategico che non fosse quello di assicurare un «pronto soccorso» ai fallimenti dei privati. Un altro punto che non convince è la detassazione degli utili reinvestiti dalle imprese. Le finalità dichiarate, soprattutto in una fase di grande difficoltà per l'occupazione, possono anche apparire lodevoli. Ma una simile misura concorre, tanto all'umento del disavanzo, quanto alla selva delle agevolazioni fiscali che andrebbe invece urgentemente e drasticamente disboscata. Alle stesse imprese, del resto, più che discutibili iniziative «promozionali» come questa, gioverebbe molto di più una riduzione del disavanzo pubblico. Perché è da lì che passa una riduzione del costo del danaro e quindi una maggiore competitività del sistema produttivo. E veniamo, infine, al dubbio. È piuttosto improbabile che la manovra ottenga i risultati auspicati dal governo. Non tanto perché all'interno della maggioranza (oltre tutto già assai ristretta) si sentono crescenti mugugni ed è difficile immaginare un benevolo atteggiamento di supplenza delle opposizioni. Ma perché la guerra dei tassi che si è dovuta ingaggiare per difendere la lira costerà al Tesoro (in termini di maggior interessi sul debito) qualcosa come 1500miliardi in più al mese. Il che significa che se l'attuale tasso di sconto rimanesse 4 invariato fino alla fine dell'anno si creerebbe nel bilancio 1992un altro buco da coprire di oltre 10 mila miliardi. Cosa che renderà inevitabile, a settembre-ottobre la ricerca affannosa di altri tagli e di altre entrate. Poiché a settembre il governo dovrà presentare la legge finanziaria per il 1993 c'è chi suggerisce di anticipare gli effetti di alcune misure all'ultimo trimestre del 1992. La sostanza non cambia. Nell'uno o nell'altro caso saremo condannati ad una rincorsa senza fine e senza speranza tra tentativi di risanamento e presa d'atto del continuo avvitamento della situazione economico e finanziaria. ** Al punto in cui siamo governo, forze politiche e parti sociali non possono più eludere il dato di fatto che il risanamento comporta per tutti conti difficili da regolare con se stessi e con il cambiamento che dobbono imporsi. Una cosa infatti è certa. Questo passaggio arduo non si supera con l'esercizio indolore di una fervida propaganda. Perché l'emergenza nella quale ci dibattiamo non è un nemico venuto da fuori, ma è il prodotto di una somma di comportamenti sregolati che bisogna radicalmente correggere se si vuole costruire un rapporto corretto tra consumi privati, bisogni sociali ed esigenze di accumulazione. Bisogna allora sapere che fuori da un confronto coraggioso, con il dovere di una correzione complessiva, ci sono soltanto gesti sbagliati e soluzioni finte.
~!LBIANCO l.XILROSSO ATIUALITÀ Algeria:lostranosilenziodell'Europa di Stefano Allievi assassinio di Mohamed Boudiaf ha aperto un nuovo capitolo della crisi algerina, ma non ha LI certo contribuito a chiarire il quadro della situazione, men che meno agli occhi dell'osservatore europeo. È per ora inutile, data la scarsità di fonti dirette, addentrarsi nelle ipotesi su chi sia stato e perché. Restano i dubbi, e molto spessi, sulle troppo frettolose versioni ufficiali finora avanzate. Ci si può limitare a registrare il paradossale risultato che un atto così grave, che ci si sarebbe aspettati di veder provocare un'ulteriore radicalizzazione delle posizioni, stia servendo invece a una resa dei conti all'interno del potere e stia spianando la strada, pare, a una qualche forma di riconciliazione nazionale, su cui sarà bene comunque, per ora, non sbilanciarsi troppo. Quello che invece inquieta, anche perché ci coinvolge direttamente, è il ruolo, o la mancanza di ruolo, dell'Europa, su cui vale la pena di spendere un ragionamento. Il silenzio, e un silenzio alquanto imbarazzato, è calato sull'Algeria già da tempo. Fin da quando, nel gennaio di quest'anno, il Fronte Islamico di Salvezza, che già aveva vinto le elezioni municipali, aveva vinto anche nel primo turno delle elezioni generali e si apprestava a un ingresso trionfale in parlamento nel secondo turno. Senonché, vale la pena ricordarlo, quello che non si può definire di5 versamente che un golpe militare ha sospeso, come si dice eufemisticamente, il processo elettorale, arrestato i leaders del Fis insieme a migliaia di militanti islamici, instaurato lo stato d'assedio ecominciato una nuova «fase di transizione», non è chiaro verso che cosa. L'Europa si è sollevata in una corale disapprovazione? I governi hanno dichiarato l'embargo? La sinistra, così giustamente sensibile alla difesa dei diritti umani e della democrazia, ha mobilitato le masse? Il sindacato ha espresso indignazione? Ci sono state manifestazioni, appelli, inviti al boicottaggio? Se non ricordiamo particolarmente male, se non siamo stati sordi e ciechi, niente di tutto questo è accaduto. Della comunità europea meglio non parlare: anche in questa occasione ha manifestato l'inconsistenza della sua politica estera e, fatto più grave, l'inesistenza della sua politica mediterranea, al di là della sfera meramente economica. Ma anche i singoli stati non hanno fatto migliore figura. L'unico che si è esposto, e in controtendenza, dopo un primo momento di imbarazzo, è stato ancora una voltaMitterrand; e questo a dispetto della forte presenza algerina nel suo paese, forse più schierata con il golpe che contro, almeno per quel che riguarda i settori dell'intellighenzia che hanno accesso ai media, e a dispetto anche dei legami storici, finita la guerra d'indipendenza, tra i dirigen-
~!LBIANCO lXILROSSO iliiiilillll ti socialisti e il Fin che ha governato fino ad ora il paese. L'Italianaturalmente non ha battuto ciglio: la sua politica algerina è tutta più o meno riconducibile al gasdotto, e più in là non vede. E la sinistra? Silenziosa e complice. Né manifesti, né manifestazioni.Un sospiro di sollievo,in perfetta sintonia con i governi europei, per l'avvenuto colpo di stato, ma a bassa voce e di nascosto, perché non sta bene che la sinistra approvi un golpe. E il silenzio sul resto: gli arresti, i campi di concentramento nel deserto, la sospensione delle garanzie costituzionali, la repressione armata. A darle man forte, e un alibi in più, ci hanno pensato anche gli intellettuali arabi che vivono in Europa. Quegli stessi che magari hanno tuonato, e giustamente, contro la guerra del Golfo (altra occasione di riflessione persa per l'Europa, basti pensare al silenzio in cui è passato il primo anniversario di quella carneficina, che l'occidente ha già dimenticato, ma che il mondo arabo non scorderà tanto presto) 1 , ma che sul caso algerino hanno preferito glissare, o rifugiarsi in una ambigua approvazione del colpo di stato2 . Come e perché è potuto accadere? Le ragioni non mancano. 6 Per i veterani del terzomondismo si trattava dell'ennesimo mito che crollava in pochi mesi, e non è facile accettarlo quando non è rimasto in piedi praticamente nient'altro. Una sinistra le cui conoscenze dell'Algeria erano nutrite dall'epica popolare di un film come La battaglia di Algeri, e per il resto si limitavano allo scambio di visite di cortesia con i dirigenti dell'Fln, dopo tutto eredi di una rivoluzione che si è creduto socialista, non poteva certo capire la protesta popolare, e men che meno che se ne facesse interprete un movimento islamico, che come tutto ciò che è religioso è per questa cultura sinonimo di medioevo. E qui si innesta un altro problema, che travalica i confini dell'Algeria e ci tocca fin dentro l'Europa: quello del rapporto con l'Islam. Credo e temo che una sinistra che è ancora culturalmente, al di là dei diversi accenti di oggi, se non atea militante perlomeno areligiosa, ma in generale un occidente poco propenso alle spiegazioni religiose dell'esistente e poco abituato, grazie a un processo di secolarizzazione che ha più o meno coinciso con quello di democratizzazione, a un ruolo attivo e determinan- ,\
~JLBIANCO l.XILROSSO Miikiiiilil te della religione in politica, sia singolarmente poco attrezzato per comprendere i movimenti islamisti e, più in generale, l'Islam, e il rapporto complesso e contradditorio di questo con la democrazia rappresentativa così come essa è intesa in occidente. Il caso algerino è in questo senso esemplare e paradossale. Era il regime al potere, di ispirazione socialista e modernizzante, di fatto ampiamente occidentalizzato e sentito come culturalmente più vicino dagli europei, che aveva governato in maniera non democratica il paese, ed era ancora esso a temere maggiormente le elezioni, meccanismo simbolico esemplare della democrazia rappresentativa. Era invece il Fis, sentito (prima ancora di tentare di conoscerlo) come culturalmente estraneo all'Europa, e dunque anche alla democrazia rappresentativa, ad usarne con abilità e successo i meccanismi. E dopo tutto era pur sempre giunto legittimamente al potere nelle città in seguito a libere e democratiche elezioni. Ora è possibile, come è stato detto, che il Fis volesse usare la democrazia per giungere al potere, per poi abolirla sostanzialmente, ma qui si tocca un tasto ulteriore, che è quello del rapporto tra democrazia e Terzo Mondo, e forse più in genera e del rapporto tra sistema elettivo-rappresentativo e democrazia. Un nesso che forse bisognerebbe ricominciare a considerare come non scontato. An7 he nel Primo Mondo. E anche se significherebbe una marcia indietro non da poco per la cultura politica occidentale, e segnatamente per quella di sinistra, che storicamente ha fatto del suffragio universale e del sistema elettorale la chiave per far accedere le masse popolari (o meglio, chi le rappresentava) nelle stanze del potere. Questo ragionamento nulla toglie ai problemi che in Algeria la presenza del Fis, la sua ideologia e il sistema che si proponeva di instaurare poneva e pone. Anche per esempio in termini di diritti umani, sociali e politici delle minoranze dissenzienti, che è poi la cartina di tornasole che rende visibile una democrazia effettiva. Ma può forse aiutare a comprendere quanto deviato e tutto sommato superficiale sia stato fino ad ora il dibattito sull'Algeria, e quanto invece sia necessario andare più a fondo, in maniera radicale. Letteralmente: alle radici. NOTE 1 Su questo argomento rinvio al mio Mass media, immigrazione araba e guerradel Golfo, ricerca svolta per conto della Cee e pubblicata su Dimensioni dello sviluppo, n. I, 1992; cfr. in particolare l'introduzione su Le due guerre del Golfo. 2 Penso per esempio all'articolo di Tahar Ben Jelloun, pubblicato sulla prima pagina del Corriere della sera del 13gennaio 1992, all'indomani del colpo di stato, sotto il titolo, che suona tristemente ironico, di A scuola di democrazia.
,P!L BIANCO l.XILROSSO MiikCiliri ~ incompatibilità traParlamentaereMinistro di PietroMerliBrandini equilibrio politico del dopo guerra si è gradualmente decomposto negli ultimi due anni. LI Nel corso del tempo, talvolta impercettibilmente, talvolta con svolte improvvise, il potere si è dislocato sempre più dalle istituzioni ai partiti. È contro questa dislocazione impropria che si è levata la voce dei cittadini, sia con l'imponente sì alla preferenza unica, sia con il voto del 5 aprile. In questi 45 anni si sono infatti creati differenti equilibri con un progressivo distacco dalla Costituzione formale. Questo distacco è stato legittimato in modo soffice e sottile dalla cosiddetta «costituzione materiale». In questi tre lunghi mesi, nei quali si sono confuse crisi istituzionale e crisi politica, sono emerse due cose precise: 1) l'epoca della trasgressione .allaCostituzione formale, per piegarla con la copertura della «costituzione materiale» alle necessità dei partiti, è finita. Al crescere della trasgressione crescevano i costi dell'intera gestione politica, con gli esiti a tutti noti; 2) si apre ora l'epoca difficile e controversa, di riassorbire la «costituzione materiale» per tornare alla Costituzione formale, far funzionare lo Stato eliminare inefficienze e sprechi. Per questo processo ci si è molto affidati a Scalfaro come a colui che crede nella centralità del Parlamento e alla forma ed alla lettera della Costituzione. Da molte parti e per molto tempo si è premuto sul Capo dello Stato perché riportasse la gestione della crisi nelle istituzioni e perché utilizzasse in pieno i poteri conferitogli dalla Costituzione all'art. 92, secondo il quale è il Capo dello Stato a nominare il Presidente del Consiglio e i ministri su segnalazione di quest'ultimo. 8 Ma non tutto è andato così. Il potere è ancora nelle mani di partiti anche se affaticati e stanchi, con istituzioni ancora troppo timide nel rivendicare il proprio ruolo. Poiché non si può dubitare delle buone intenzioni del Capo dello Stato, occorre prendere atto della forte «vischiosità» opposta dai partiti fuorusciti dai limiti loro propri secondo la Costituzione. Ma in questi giorni è emerso un fatto nuovo ed imprevisto. Forlani, con un piede dentro e uno fuori dalla Segreteria, ha proposto l'incompatibilità tra cariche parlamentari e cariche governative. Questa mossa imprevista, al di là degli imprescrutabili motivi interni che l'ha generata, è un colpo di acceleratore sui cambiamenti istituzionali necessari a dare al Paese uno Stato degno di questo nome. Essa è un colpo alla Costituzione materiale e favorisce il ridislocamento del potere dai partiti alle istituzioni. Chiude l'era del Governo d'Assemblea che, più o meno necessariamente, si è imposto sul Paese. Ha sorpreso e spiazzato alleati ed avversari. Ha proiettato effetti, ora positivi ora negativi, sulla compagine governativa. Infatti Amato, in bilico tra passato e futuro, ha perduto la presenza di uomini rappresentativi, ma insieme al Presidente della Repubblica ha definito un governo a mezza via tra il vecchio manuale Cencelli e le candidature risultanti della selezione voluta da Forlani per gli uomini della Dc. Molti grilli parlanti dal fondo della loro saggezza convenzionale hanno ricordato che non «sipossono cambiare le regole in corsa». Argomento che non manca di suggestione intellettuale. Si sono sentiti molto meno grilli parlanti quando si sono «cambiate le regole in corsa» per passare dalla Costituzione formale a quella materiale. Si sono avanzate obiezioni irreprensibilmente logiche contestando l'estemporaneità dell'iniziativa.
i.l.!L BIANCO l.XILROSSO MiAOiillll Non senza convincente ragione si è fatto notare come l'autonomia reciproca tra Parlamento e Governo e quant'altro, facciano parte di una riforma istituzionale più ampia che preveda, anche, l'incompatibilità tra le responsabilità di parlamentare e di ministro. Questo impianto logico formale benché ineccepibile, fa tornare alla mente l'acuto rilievo del Principe di Salina sulla necessità che «tutto cambi perché nulla cambi». Ma senza questa mossa imprevista, estemporanea, priva di quadro di riferimento, la prospettiva di un ritocco istituzionale nel rapporto tra Parla-· mento e Governo sarebbe altrettanto forte e credibile come appare ora? Non c'è forse un rapporto immediato tra questa decisione e il saggio suggerimento di Montesquieu sull'a divisione dei poteri? Rivelando che con essa le cose funzionano e, senza di essa, si cade nella situazione semi caotica che conosciamo da tempo. Ma la mossa di Forlani significa qualcosa di profondo anche per la Dc. Con essa il partito accetta di restituire «quel più» di potere che, nel suo stesso interesse non avrebbe mai dovuto avere. Con essa ha cominciato e continuerà a selezionarsi la sua classe dirigente. Con essa il suo stesso gruppo dirigente fornisce una credibilità diversa al rinnovamento del partito e del sistema dei partiti. In definitiva, con essa la Dc ha sconfittouna con9 statazione finora irrefutabile: l'inemendabilità del sistema dei Partiti. La proposta indica che è possibile restituire poteri non propri, tornare al ruolo «vero» dei partiti, come sede di pura politica e spiace che eguale prova di emendabilità non abbiano saputo dare i partiti altrettanto necessari al sistema democratico e al futuro del Paese. I cambiamenti indotti da una decisione unilaterale già considerevolmente applicata per gli uomini della Dc, sono stati profondi e significativi e si intensificheranno nel prossimo futuro. Dibattiti, scontri e conflitti interni ai partiti, che appaiono già vistosamente in questi giorni, tenderanno ad intensificarsi. Sono i costi visibili di un inevitabile e necessario processo di ristrutturazione e rinnovamento del sistema politico. Questa è l'ora di ritrovare i fondamenti veri di quell'equilibrio democratico voluto dalla Costituzione che si fonda sulla stabilità delle procedure e sulla divisione dei poteri. Oggi sappiamo quanto è costato al Paese allontanarsene. Ma sappiamo anche quanto sia necessario e benefico per tutti, ritornarvi, anche se i costi saranno alti. Per questo l'incoraggiamento al cambiamento è indispensabile anche se comporta costi. Chi, nell'intento di evitarli, rinvierà ogni scelta non farà altro che peggiorare la situazione e rendere ancora più costoso l'aggiustamento futuro.
- I - ,P.tL BIANCO lX1tnosso Miiklilld Legalitàe solidarietà di Paolo Tufari 1tema della legalità è venuto clamorosamente alla ribalta in questi ultimi mesi, con diretto riferimento alla vita pubblica in genere e, molto più esplicitamente, con gravissime imputazioni contro quegli apparati di Partito che da mezzo secolo hanno messo le mani sullo Stato fino a farne cosca e cosa loro. Indubbiamente, questa esplosione di marciume è un fatto positivo perché si è usciti dalle invettive o dalle insinuazioni generiche contro la classe politica mettendo a nudo, invece, luoghi, circostanze, entità, meccanismi e soprattutto nomi e incarichi di una nomenclatura così altolocata quanto corrotta. Se questo è indubbiamente un fatto positivo per chi crede nella politica come missione o servizio per gli interessi generali della collettività nel massimo rispetto della legge, non si possono però solo per questo mettere a tacere alcuni dubbi che la situazione così come la stiamo vivendo o, meglio, così come ce la stanno rappresentando, necessariamente solleva. Dubbi sul quando: i reati contestati «oggi» agli Amministratori pubblici risalgono a fatti e misfatti compiuti anni addietro, con il concorso di moltissime persone implicate a vari livelli di responsabilità in una vera e propria forma di associazione per delinquere che non ha risparmiato né i vertici dei Partiti politici né funzionari di alto livello né grandi industriali né Presidenti e presidenze di importanti Enti a partecipazione statale. Quanti sapevano, per quanto tempo hanno taciuto e perché? Ma soprattutto: per quanto tempo ancora questa rete omertosa di consociazione a delinquere avrebbe continuato a funzionare se non fosse intervenuto a romperla non un sussulto di moralità generale ma la ribellione e l'astuzia di qualcuno fra i tanti «piccoli tartassati» capace di incastrare con uno stratagemma qualche noto e incallito professionista della tangentocrazia? Dubbi sul dove: l'attenzione si è appuntata su Milano e sulla Lombardia. Come mai si parla ancora 10 tanto poco e ancora così marginalmente di altre realtà, ugualmente e notoriamente corrotte, come Napoli e Roma? Il Deputato verde Mauro Paissan ha dato voce a questo dubbio con una interrogazione parlamentare al Ministro di Grazia e Giustizia (Il Manifesto, 10giugno 1992)ma, date le circostanze, c'è molto da dubitare che una tale interrogazione abbia la dovuta risposta, perché snellezza o no dell'attuale governo i politici che controllano le realtà politiche di queste due metropoli sono sempre al loro posto di controllo e comando per interposta persona. Pensiamo alla Napoli altro che milionaria! Del dopobradisismo e della perdurante Italstat. In ogni caso, lo scandalo di tangentopoli si allarga, se non a macchia d'olio come vogliono far credere certi giornali, perlomeno a macchia di leopardo, che in una Italia dell'omertà e della consociazione partitico-mafiosa è già molto. Col denaro che gira e con l'indistinzione che si è istaurata fra poteri di gestione e poteri di controllo, forse è «inevitabile che avvengano gli scandali» e c'è solo da sperare che sia vero anche il «guai a coloro per colpa dei quali avvengono gli scandali», guai, naturalmente, con la giustizia, come si addice a uno Stato di diritto; guai proporzionati al danno che questi cosiddetti signori hanno provocato alla collettività, anche in termini economici, ma soprattutto in termini di moralità e fiducia nella partecipazione dei cittadini alla politica come servizio in nome di grandi ideali, nell'interesse di tutti. I segni e i sintomi di questo degrado della moralità pubblica non si contano, dall'assenteismo sempre più esteso nelle consultazioni elettorali al trionfo del «Ci vorrebbe un amico» non, come dice la canzone, per aprire l'animo ma per aprire le porte, del Palazzo, del Comune, della Usl, della Circoscrizione e del Collocamento. Tra questi segni e questi sintomi mettiamo anche la stupefacente dichiarazione fatta pubblicamente in Campidoglio dal Presidente della Camera di Commercio
~ll_.BIANCO lXltROSSO MiiiCilil• di Roma del «meglio ladri che spia» contro il metodo adottato per incastrare uno fra i vari signor mazzetta che imperversano sul Lazio. In un certo senso, però, il «meglio ladri che spia» contiene un giudizio di valore che, fatti tutti i debiti distinguo, si può accettare, almeno come linea di indirizzo e auspicio: la speranza, cioè, che per smascherare i ladri di partito e i magnaccia dell'amministrazione pubblica non si debba ricorrere a quelle stesse precauzioni dell'anonimato e a quelle stesse trappole segrete che invece e per ovvie ragioni di incolumità personale possono diventare necessarie quando si tratta di veri e propri mafiosi. Ma quanti cittadini che pure gridano allo scandalo di fronte a storie di mazzette e tangenti sono pronti a venire allo scoperto, in nome della legalità e nell'interesse di tutti? Quanti degli industriali e dei commercianti che hanno denunziato e giustamente i ricatti subiti per ottenere una licenza o un appalto sarebbero altrettanto pronti a denunziare apertamente i soprusi che ogni giorno vengono compiuti con l'occupazione abusiva del suolo pubblico, con la cementificazione dell'ambiente, con l'incuria colposa e spesso anche dolosa in cui vengono lasciate le strutture pubbliche di assistenza e sanità per favorire sullo stesso territorio strutture private a carissimo prezzo e ad altissimi benefici per i loro gestori e per i loro tutt'altro che santi protettori? • 11 Quanta gente che grida se le vengono pestati i piedi girano invece gli occhi dall'altra parte se a essere pestati sono gli altri, specialmente se il «pestaggio» economico e professionale viene a colpire o un rivale in affari o quella massa di cittadini inermi che col potere non hanno mai avuto niente a che fare perché non hanno mai avuto niente da vendere e niente da garantire. Di fronte all'illegalità il silenzio non è mai d'oro, tranne un caso: quando ad alzare la voce e a predicare la moralità pubblica sono gli stessi che per anni e anni e anni hanno avuto da tangentopoli tutto il denaro che hanno voluto per le loro Opere, le loro Banche e la loro Corte. Si possono cacciare i mercanti dal tempio solo se quel tempio non è stato costruito con i soldi e l'intercessione stessa di quei mercanti. «Guai a coloro che per colpa dei quali avvengono gli scandali» ma guai anche a tutti i farisei che senza aver mosso un dito per impedirli sul nascere se ne scandalizzano poi al momento «giusto» e cioè quando il polverone s'alza e la marea trascina. Bisogna aspettare i fatti di Milano per scandalizzarsi di fronte a certe campagne elettorali miliardarie da parte di candidati notoriamente nonricchi di beni propri, né intellettuali né patrimoniali? Bisogna proprio passare per tutte le alchimie delle Commissioni e per tutti gli equilibrismi dei capibastone per vedere finalmente rimosso e sepolto quell'anacronistico istituto che si chiama
,il!L BIANCO l.XILROSSO MiiiiMilll l'immunità parlamentare? Bisogna aspettare che l'Amministrazione Comunale di Roma abbia dilapidato tutti i miliardi messi in bilancio a beneficio di un certo Census per venire finalmente a sapere (se mai lo faranno sapere) che una buona parte del patrimonio immobiliare pubblico e delle ex-Ipab a Roma sono appannaggio di privati il cui grande merito si fa per dire è quello di avere un qualche santo in qualche paradiso partitico, bancario, giornalistico, sindacale e parastatale della Roma che conta? Bisogna aspettare i risultati di uno strapagatissimo censimento affidato a privati per scoprire che Presidenti e Vicepresidenti di Istituti pubblici godono di una specie di jus primae noctis sulle liste degli appartamenti disponibili nel proprio Ente e ne dispongono secondo criteri che niente hanno a che fare né con la giustizia né con l'equità? Bisogna correre ancora il rischio di accendere la tv e vedersi sullo schermo un onorevole ( !) strainquisito fare il cavaliere senza macchia e senza paura dicendosi pronto a incontrare i giudizi senza neppure attendere la neppure certa autorizzazione parlamentare sull'immunità? Bisogna proprio aspettare che un amministratore sia preso in flagranza di reato per vederlo non diciamo in manette ma quantomeno rimosso dalla poltrona che così disonorevolmente occupa e così malaffaristicamente usa? Dopo decenni di comode ambiguità ora si comincia finalmente a suggerire l'incompatibilità fra 12 l'incarico ministeriale e quello parlamentare. Ma che dire di Amministrazioni come quelle di Roma e di Milano onorate fino a qualche settimana fa dalla presenza (e più spesso dalle assenze) di signori Ministri e Consiglieri comunali allo stesso tempo? È vero che in moltissimi casi potere è sedere, ma chi ha già una poltrona a due piazze può anche rinunziare allo scanno. A proposito di Roma, circola in questi giorni (ultimi di giugno '92) una lettera aperta al Signor Sindaco con accuse molto pesanti e circostanziate a carico del suo Assessore ai servizi o, meglio, disservizi sociali della Capitale. La lettera, come è naturale chiede la rimozione del personaggio dall'incarico, in nome di dell'efficacia contro l'improvvisazione e della trasparenza contro l'arbitrarietà e gli affari sottobanco. Una lettera analoga di due anni fa primo firmatario il Direttore della Caritas non fu neanche degnata di risposta e anche questa non avrà sorte migliore a meno che questa volta il do ut destra partiti, correnti, notabili e portavoti non prenda un'altra piega, non in forza di un'improvvisa conversione alla legalità generalizzata ma in virtù, com'è sempre capitato, di nuovi equilibri e nuovi orizzonti di carriera. Beati i monocoli in questa genia di strabici che sa tenere mossa per mossa un occhio sul Campidoglio e l'altro sulla Casa-madre dove la partita s'imposta e le pedine si piazzano. Un caso come questo non è né il primo né il so-
i.>!L BIANCO lXILROSSO MiiRCillll lo nella dissestata geografia della vita pubblica dove in chissà quante altre situazioni del genere la cacciata di personaggi inetti e per giunta intrallazzoni potrebbe segnare un bel passo avanti verso la ripresa e la crescita della politica in genere e di quella sociale inanzitutto. La politica è progettazione e indirizzo, rispetto delle regole, efficienza e verifica dei risultati in sede pubblica, a tempi e su parametri prefissati. Per tutto questo lavoro, la legalità è condizione essenziale, da supporre sempre e da ristabilire senza misericordia se un politicante bara e il cleptopartito s'associa a delinquere. Ma la condizione non è lo scopo e con le mani pulite si può fare anche una politica che con la solidarietà ha poco o niente a che vedere. Il «rigore» che tanti invocano è solo un'altra maniera per dire tagli anche molto pesanti all'occupazione e alla spesa sociale senza neanche un accenno invece a quella drastica potatura che invece bisognerebbe fare e immediatamente su tutti i rami della parassitologia pubblica, dagli enti inutili alle assemblee pletoriche, dalla fungaia di Consigli Nazionali e Organismi sottogovernativi all'intermediazione superflua di padrinati e patronati d'ogni specie. Il rigore che purtroppo si pratica è fatto perlopiù di imposte indirette e perciò indiscriminate, vere botte da orbi a dove coglie coglie, tali da stendere a terra i deboli e buone neanche j ' 13 a fare il solletico sui grossi pachidermi del pubblico e del parastato, da maxistipendio e pensione dorata. Quanto più la politica arretra di fronte alle esigenze e agli impegni già presi della solidarietà, tanto più si fa strada nei fatti e nell'immaginario collettivo l'importanza del volontariato. Anche nell'immaginario, perché mentre si esaltano le opere di persone e gruppi sparsi «volontariamente» per l'Italia a servizio del prossimo, si perdono di vista tutte quelle areee e tutte quelle storie di ordina·rio abbandono che la collettività in quanto tale, e cioè le istituzioni pubbliche, dovrebbero invece affrontare, non per bontà, ma per dovere di ufficio, dovunque s'incontrano e con tutti i mezzi richiesti. La solidarietà è un'organizzazione delle parti e non un'improvvisazione di interventi o un generoso accorrere dove si grida di più e s'invoca soccorso. La solidarietà in termini e in prospettiva di politica sociale è una rete di servizi «ordinari», gestita ordinariamente e cioè continuativamente da persone qualificate, regolarmente retribuite e perciò passibili di denunzia se tradiscono gli impegni presi e non soggette a venerazione, gratitudine, medagliette e applausi se semplicemente e cioè bene fanno quello che sono chiamate a fare. Beata quella nazione e beato quell'Ente locale che può contare su questo genere di «involontariato».
C'è sempre un po' di Eni intorno a noi. In ogni momento della nostra vita, in quasi tutto ciò che facciamo, c'è il lavoro di un grande Gruppo energetico - il Gruppo ENI - che da 40 anni si dedica allo sviluppo della società italiana. L'energia per muovere il Paese: 394 milioni di tonnellate di petrolio e 400 miliardi di metri cubi di gas naturale disponibili nei nostri giacimenti in Italia e ali' estero. 12.000 distributori di benzina, 23.000 Km di metanodotti, 130.000 Km di tubazioni che portano il gas. La ricerca che prepara il futuro: ENI produce circa 200 nuovi brevetti l'anno. È impegnato nell'energia, nella chimica, nello studio di nuovi materiali, anche con il contributo della Fondazione ENI Enrico Mattei. Le risorse per muovere il sistema: ENI investe complessivamente circa 7.000 miliardi all'anno in settori fondamentali per il futuro del Paese. Investire sul domani di tutti è per ENI la miglior forma di progresso. ~Eni Finché c'è ENI, ci sarà energia.
~IL BIANCO '-XILROSSO DOSSIER Cosac'èinfondoal Tunnel? Questo Dossier. Che in Italia la politica sia in crisi è di evidenza solare. Che il 5 aprile abbia dimostrato che gli effetti della crisi cominciano a manifestarsi nel sistema, correndo il rischio di un blocco senza futuro e senza respiro, è ormai sotto gli occhi di tutti. Che i partiti siano ammalati, tutti, e che il loro collegamento con la realtà del paese che cambia stia venendo meno è anche questa una constatazione più ovvia che sorprendente. Più di due mesi ci sono voluti per avere un Governo nuovo che al di là dei meriti di chi lo guida e di chi lo compone, non pare carico di novità, e pare prefiggersi lo scopo di «salvare il salvabile» ... E intanto i giudici hanno portato allo scoperto realtà di cui tutti mormoravano, e che sembrano essere diventate la «regola» del rapporto tra politica e affari. In questo contesto arriva l'Europa, e l'economia italiana appare di corto respiro, destinata al collasso, senza competitività internazionale, con la lira in difficoltà, l'occupazione in calo... Il sistema istituzionale italiano è alle corde, trale difficoltà delle regole elettorali e la mancanza di ricambio credibile... Un intrico di problemi sotto gli occhi di tutti. «Il Bianco e Il Rosso» ha voluto dare inizio, per la sua parte, ad una riflessione ad alta voce, su questi punti. Il 23 giugno u.s. si sono incontrati in redazione, con Pierre Carniti, Gianni Baget Bozzo ed Enzo Bettiza, europarlamentari del Psi, Gian Primo Cella, Prorettore dell'Università di Brescia, Claudia Mancina, della Direzione del Pds, e Giuseppe Tamburrano, Presidente della Fondazione Pietro Nenni. Ne è nato un dibattito che riportiamo di seguito con lo scopo di far pensare i nostri lettori e di suscitare altreriflessioni. Il tema è grande come la realtà italiana, ma valeva la pena di cominciare a mettere in comune alcune idee, diverse, ma convergenti alla ricerca di una uscita dalla crisi in cui siamo immersi. (G.G.) 15
.P.!J, BIANCO lXILROSSO l•ti®ilil l. Una «crisi di sistema». C'è un futuro per i partiti? CARNITI Il primo problema che vorrei porvi è il seguente. La continuazione del governo Amato ha formalmente chiuso la crisi politica. Ma la crisi investe ormai il funzionamento del sistema più che le sue dinamiche. Questa valutazione appare suffragata da indiscutibili dati di fatto. Con la fine del comunismo è finito anche l'equilibrio bipolare a livello mondiale nel quale il nostro sistema politico è nato. Sul piano interno è sempre più evidente la divisione in due dell'Italia (più che in tre come le Gallie di Giulio Cesare, o le Repubbliche di Bossi). Il Sud chiede protezione. Il Nord chiede autonomia. C'è addirittura chi, come Bocca, ritiene che sia già cominciata la guerra di secessione. Le cose probabilmente non sono ancora a questo punto. Si deve comunque prendere atto che la forze politiche tradizionali sembrano perdere il loro insiediamento nazionale. Infatti: Dc e Psi si meridionalizzano; il Pds si regionalizza; le leghe si insediano al Nord; la criminalità organizzata al Sud. In diverse regioni, sopratutto al Nord, il disamore per la politica tende a trasformarsi in rifiuto della politica. In indignazione, invettiva, moralismo giacobino. In pericoloso esorcismo per la salute della democrazia. Il rischio è che si approfondisca il solco tra ampi strati della società ed il sistema democratico e che i difetti evidenti dei partiti che lo compongono possano venire confusi con la democrazia stessa. Se questi sono i termini della situazione quali sono gli esiti possibili? C'è un futuro per i partiti? È possibile una democrazia senza i partiti? BAGETBOZZO Il rischio si chiama Bossi... La crisi del partito leninista, secondo il modello pensato dopo la rivoluzione in Urss, da noi ha avuto effetti in tutti i partiti. Il leninismo aveva portato al vero una figura di partito giacobino che in qualche modo ha avuto una parte anche nella storia dei partiti italiani. Nessun paese, come l'Italia, ha subito l'influenza del leninismo e del comunismo, anche sul piano dello stesso mondo cattolico. Non è quindi un caso, forse, che l'Italia sia il paese che subisce maggiormente la crisi dell'Est. 16 C'è anche, curiosamente, un altro elemento comune, tra l'Italia e la crisi dell'Est: emerge anche da noi l'etnicismo, e anche qualcosa di più. È difficile liquidare Miglio con questo nome, quando egli sostiene che c'è un'Italia alpina ed una mediterranea - sono definizioni di carattere antropologico del nostro paese - ed è singolare che lui, di provenienza cattolica, applichi alle due Italie le differenze che sono classicamente applicate quando i protestanti definiscono i due mondi: il loro è il mondo del rapporto con la legge con la persona, e quello cattolico è il mondo del rapporto della persona con le persone, e quindi della clientela. Io non credo che questo fenomeno ponga problemi alla Chiesa come tale. Ho scritto su «LaRepubblica» che Ricardo è più a Ginevra che a Roma e credo che sia vero. La prospettiva di Miglio è chiaramente rivolta verso il mondo protestante. E la cosa è singolare ... CARNITI La Lega, allora, la vedi più come movimento ereticale che come movimento politico? BAGETBOZZO No, no. Si deve distinguere. Per ora c'è la dimensione politica. Bisogna aspettare. Miglio ha scritto che Ricardo che è più a Ginevra che a Roma prima che poi Bossi lo facesse proprio. Quindi ha avuto un'ulteriore conferma da questo fatto. La divisione, perciò, è molto più profonda di quello che non si creda. Resta il fatto che questo è un movimento analogo a quello che accade all'Est. Tuttii paesi che hanno avuto il comunismo reale hanno poi avuto l'etnicismo. Noi abbiamo avuto il comunismo di piazza, in parte reale, ed anche noi abbiamo di conseguenza l'etnicismo e quindi il separatismo. Io credo sia vero che l'intenzione sia separatista. Quindi se diciamo crisi della democrazia, occorre dire una cosa diversa da quella che è stata la crisi - per esempio - fascista o nazista della democrazia o da quella comunista. Qui il rischio, invece, è appunto il disegno di Bossi che è molto chiaro: diventare Sindaco di Milano, prendere nel '95 molti Comuni, e formare la Repubblica dell'alta Italia, creando un problema di questa natura. Questa è la strategia, in concreto, della Lega Lombarda, delle Lega Nord cioè crear:e il separatismo. Questo è un problema che riguarda non la demo-
{)JI, BIANCO ~JLROSSO l•X•#JiltJ crazia come tale, ma l'unità nazionale come tale, e quindi indirettamente la democrazia. Mi sorprende il fatto che i partiti nati ora, che per la prima volta sono venuti al mondo in queste elezioni - la Lega e la Rete - non abbiano statuti democratici. Essi hanno, sia la Lega che la Rete, degli Statuti in cui tutto il potere va in mano ad un uomo. Nella Rete a due uomini, all'organizzatore Orlando ed al garante Novelli, ma - in fondo - il concetto è lo stesso. E per la Lega è chiarissimo. Bossi molte volte ha parlato di una compulsione fisica sui parlamentari da parte degli aderenti. Ha detto che lui andrebbe ad investire con la sua auto il parlamentare che si defilasse dallo schieramento leghista; ha parlato di kalashnikov. Cioè, nei fatti, ci sono alcuni elementi nel movimento leghista che fanno pensare a questa realtà. Anche la Rete, in fondo, è un movimento populista di dubbia democrazia, legata al carattere tipico della figura di Orlando. Questi movimenti hanno questa possibilità reale, ed io credo che in questa forma si possa sul serio parlare di rischio per la democrazia ... CELLA La crisi della politica in una società senza volto Alla domanda innanzitutto dobbiamo rispondere tenendo conto di cosa sta cambiando sullo scenario mondiale. Dobbiamo tenere conto che siamo di fronte a quello che forse è stato il più grande fallimento politico della storia dell'umanità, con il sovraccarico anche di speranze e di tragedie legate a questa vicenda politica. Dire il più grande fallimento politico della storia dell'umanità per alcuni aspetti vuole anche dire fallimento della politica, perché i giacobini dell'89 furono niente, in questo campo al confronto di cosa ha fatto il dominio comunista, cioè l'esaltazione della politica sulla società e sull'economia. Tutto nel sistema comunista era ridotto alla politica, e sottomesso ad essa. Allora il fallimento di questo disegno, di questa speranza e di questa tragedia politica in sé comporta anche notevoli difficoltà della politica come tale. E come poteva, un fenomeno come quello, non produrre un effetto pesante anche nel nostro paese? Questo paese è un paese di frontiera, un paese che aveva costruito i propri equilibri politici attorno alle logiche della Guerra Fredda e della divisione dei mondo. 17 Perché questa fine non dovrebbe avere un effetto profondo, per alcuni aspetti disastroso anche sul nostro paese? In effetti dobbiamo leggere quello che accade in tutte le parti del mondo come legato - in fondo - da alcuni caratteri comuni. Non è casuale che negli stessi anni capitino le terribili guerre etniche in Iugoslavia, le guerre in Unione Sovietica, le spaccature in Cecoslovacchia, i passaggi improvvisi da maggioranze a minoranze oppresse in alcuni stati Baltici, ed altro ...Ci sono, poi, i fenomeni di localismo serpeggiante, e il ritorno di molti fenomeni indipendentisti, in Francia ed in Spagna. Sorgono fenomeni localisti, o di frammentazione, nel nostro paese, ma si verifica anche l'apparire, sulla scena della politica Nord Americana di questo miliardario Ross Perot che, in effetti, identifica una sorta di rifiuto della politica o di rifiuto delle vecchie tradizioni politic~e americane. Ci sarà qualche cosa che tiene assieme tutto questo? Per un aspetto sono questi gli effetti di un clamoroso fallimento. E tuttavia, per tornare da noi, qualcuno degli uomini politici ha pensato che tutto potesse andare avanti come prima, solo con qualche adeguamento. Se noi pensiamo - tanto per fare dei nomi - alla campagna elettorale fatta dalla Dc, attraverso Forlani, e anche alla politica praticata dal Psi attraverso Craxi, noi tocchiamo con mano il fatto che si sono verificati dei messaggi politici, che in fondo prescindevano, come se nulla fosse successo, da questo enorme cambiamento. Allora il più grande fallimento politico della storia dell'umanità - mi si perdonerà l'enfasi, che poi è realtà seria-, vuol dire anche crisi della politica, e crisi di quella forma di organizzazione della politica che era il partito politico, come ha ricordato giustamente Boris Eltsin. In fondo il partito leninista è stata l'espressione massima della vecchia idea giacobina che tutto potesse essere pensato ed attuato a partire dalla posizione di una élite politica che dominasse sulla società. Perciò noi, da questo punto di vista, scontiamo l'esito di questa vicenda tragica - e per alcuni aspetti terribile - lo scontiamoancora senza guerre interne, ancora senza frammentazioni clamorose, ma lo scontiamo sicuramente. E lo scontiamo in una situazione molto particolare, perché scontiamo il risorgere del localismo in una situazione nazionale nella quale il senso dello stato è sempre mancato, per cui da noi il localismo assurge ad una
~JJ,BIANCO l.XttROSSO liX•#lilil dimensione molto particolare, potenzialmente più dirompente, proprio perché una delle caratteristiche di questo paese è stata, molto semplicemente, quella di assenza di senso nazionale, l'assenza di identificazione nella cosa pubblica, traducibile in quella constatazione molto semplice, e frequente, per la quale le case degli italiani sono pulitissime al loro interno, ma questa realtà convive con il fatto che esse, e le strade, restano sporche all'esterno. La carenza di senso dello stato ha identificato tutta la storia di questo paese. Solo il fascismo ha potuto pensare di risolvere questo problema con qualche marchingegno, e senza riuscirci. E questo resta. Quarant'anni di potere democristiano non hanno sicuramente rafforzato il senso dello stato, o l'identificazione dei cittadini con la res publica, e perciò da noi questi effetti di carattere localistico pesano molto di più. D'altra parte, da noi, il fallimento o la fine della politica nata dalla Guerra Fredda, ha effetti potenzialmente più gravi, perché prende piede in una società nella quale la politica ha dominato, nella quale la politica ha sostanzialmente governato la società ed ha in qualche modo ridotto fortemente le autonomie della società. Perciò questa crisi della politica da noi si sente di più perché c'è meno società, c'è meno organizzazione della società. E se guardiamo quanto capita nei paesi dell'Est scopriamo subito proprio questo. Il dramma - mi sembra - più terribile dei paesi ex comunisti non è il fatto che occorre cambiare il sistema politico, perché il sistema politico lo si cambia facilmente: si fa una costituzione anche in un paio d'anni. No. Là manca l'organizzazione delle società. Dietro a quel sistema politico non c'è la società perciò se la società entra direttamente nel sistema politico si hanno effetti disastrosi. Guardate alla Polonia, guardate alla Cecoslovacchia: le frammentazioni entrano direttamente nel sistema politico proprio perché la società non è mai stata organizzata adeguatamente. Anche noi, per concludere questo ragionamento - scontiamo due cose: il risorgere dei localismi e la frammentazione di carattere etnico, da una parte, e la crisi della politica e delle sue forme tradizionali di organizzazione. E lo scontiamo con effetti potenzialmente più gravi di altri perché da noi la res publica, l'identificazione nella cosa pubblica è sempre stata debole, e perché la politica in quarantacinque anni, attraverso i partiti politici, non ha teso ad altro che ad invadere la società, che 18 ora cerca di prendersi la rivincita sulla politica, con effetti di divisione, di frammentazione, di moltiplicazione di partitini, di idee, di proteste ... MANCINA Un nuovo «patto» costituzionale per uscire dalla crisi Non so se stabilire una correlazione così forte tra la crisi italiana e la crisi dei paesi dell'Est sia poi veramente utile da un punto di vista conoscitivo. Naturalmente lungi da me diminuire l'importanza mondiale della crisi dell'Est, della crisi del comunismo ed anche il rilievo particolare che questa ha in Italia, che è un paese che più di altri ha subito l'influenza della divisione del mondo secondo uno schema bipolare. Il contraccolpo, quindi, è certamente forte. Però io credo che le ragioni della crisi italiana siano molto italiane, e non siano recenti, ma affondino le loro origini negli ultimi vent'anni. Credo che il patto tra i partiti italiani, che ha dato origine alla forma di stato repubblicano, ha cominciato a venire meno negli anni '70, attraverso quella forma di accordo che è stata la «solidarietà nazionale». Proprio lì è venuta a termine anche questa forma di stato. Un termine che si è realizzato però in modo processuale ... Oggi siamo effettivamente di fronte ad un passaggio da una forma di stato ad un'altra. La prima forma di stato era caratterizzata da una certa funzione dei partiti costituzionali, quelli che hanno fatto la Costituzione, e da un certo rapporto tra questi partiti. Questo rapporto nell'ultima fase ha preso la forma del «consociativismo»,che poi ha dato origine anche a fenomeni perversi come quelli che identifichiamo quando evochiamo il termine generale di «questione morale». Io credo che effettivamente la fine dei partiti - non come tali, ma come noi li abbiamo·conosciuti, cioè dei partiti che hanno una fortissima funzione di sostegno dello stato, come i nostri e come - in forma più o meno simile - i partiti europei, io credo che questa fine sia effettivamente possibile. Ma non la identificherei con la fine della democrazia. Penso che dire che non ci può essere democra - zia senza partiti, e che la fine dei partiti significa la fine della democrazia, sia un modo per esorcizzare la fine dei partiti, cioè per non affrontare veramente il problema di come i partiti devono trasformarsi se voglio sopravvivere, oppure di come
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