~li- BIANCO l.XILHOSSO Ui•MINU • Sud e cooperazione un'esperienzapositiva di Saverio Lamiranda P rima di entrare nel merito di singoli aspetti critici e problematici, credo di potermi concedere due osservazioni in positivo. La prima riguarda il «mensile di dibattito politico» che ospita l'articolo, con ovvio riferimento al numero monografico che in precedenza (mi riferisco al fascicolo di agosto-settembre) aveva presentato un «dossier» sui rapporti tra Mezzogiorno e società civile. È un insieme di contributi che si distaccano notevolmente da quella specie di «binario morto» in cui è finito il dibattito meridionalistico, specie a far testo dalla stanca e quasi rituale sequela di «commenti» che ha accompagnato anche quest'anno l'uscita dell'ennesimo Rapporto Svimez. La seconda osservazione, per quanto resa al positivo, prende contradditoriamente spunto dalla palude limacciosa in cui sembra impantanarsi il dibattito meridionalistico a esito istituzionale-legislativo. Vale a dire quello che si viene a dislocare sì oltre la liquidazione della Cassa, ma quasi scorrendo a precipizio lungo uno spettrale od immobile «programma triennale». L'impressione, resa al positivo per l'appunto, è che nonostante tutto ormai nessuno sia più in grado di «circuitare a tutto campo» il Mezzogiorno. Circa dieci anni fa o poco più, cioè all'inizio della nostra esperienza di «giovani imprenditori della cooperazione» in Basilicata, temevano soprattutto chi era in grado di farci fare «corto circuito»: di liquidarci come «economia protetta» (sul tipo della pseudo-cooperazione gestita dagli Enti regionali di sviluppo agricolo), quando noi chiedevamo soltanto «assistenza tecnica» (qualcosa di diverso dall'assistenzialismo perché parametrato a forme concrete di sostegno dello sviluppo). Corti circuiti di questo stampo sono sempre alle porte: in passato ne abbiamo avuti molti, si può dire siano intrinseci al ruolo della cooperazione meridionale. Nella nostra breve ma : 12 intensa storia, tuttavia, di veramente importanti ne abbiamo avuto soltanto due. Il primo non siamo riusciti a sventarlo perché era opera della natura e non degli uomini: mi riferisco, infatti, al terremoto irpino o calabro-lucano del 1980. Alla fine di quell'anno, cioè esattamente dieci anni fa, stavamo per chiudere una prima costruttiva fase della nostra esperienza: nel giro di un quinquennio, partendo da una realtà di sole tre cooperative giovanili a carattere culturale e di solidarietà sociale, eravamo riusciti a «coordinare» nella neonata Unione della Confcooperative di Basilicata circa duecento aziende cooperative con un discreto consolidato economico di imprenditorialità e di fatturato. Gli effetti deleteri e devastanti del sisma avrebbero potuto cancellare ogni segno della nostra esperienza, far rientrare nell'ombra quanti di noi erano riusciti nell'intento di assottigliare le fila di un'ancora massiccia disoccupazione. Fortunatamente, insieme al «messaggio della cooperazione», funzionò per noi quella sorta di «solidarietà a esito di assistenza tecnica» che funziona (e si invoca) anche al Nord in caso di calamità naturali: né più né meno, forse con qualche piagnisteo in più, ma quasi nelle forme di un intervento a carattere «ordinario» tenuto conto della straordinarietà del disastro. Così la nostra esperienza riprese il suo corso, consolidandosi via nel fatturato annuo, nella sua realtà di «sistema di imprese» connotate da un'economia forse ancora assistita ma certo non più protetta: e ciò fino al traguardo dei «meccanismi autopropulsivi dello sviluppo». Non era ancora la capacità di «stare sul mercato», anche se di questa questione si era incominciato presto a discuterne a fronte di chi non tralasciava occasione di agitare lo spettro della crisi dello Stato «sociale» a cornice dello slogan - allora d'obbligo - che voleva «meno Stato e più mercato». In tal modo si arrivò al-
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