Il Bianco & il Rosso - anno I - n. 9 - ottobre 1990

L. 3000 nwnsilt· di dibattito politico Sped. in abb. postale -Gr. 111/70% . Anno I sommario ottohrt· 1990 20 22 23 24 25 26 DOSSIER: Istituzioni: quali riforme per l'alternativa? Nessuna alternanza senza Repubblica presidenziale, di Ettore Rotelli Decisiva la spinta dei re/ erendum, di Augusto Barbera Al centro resti il Parlamento, di Guido Bodrato Oltre ogni democrazia consociativa, di Felice Borgoglio Riforma della Costituzione necessità primaria, di Giuseppe Cotturri I cinquepunti del Psi:più potere agli elettori, di Giulio Di Donato Fedeltà al mandato degli elettori, di Francesco D'Onofrio n nodo: la riforma della pubblica amministrazione, 27 di Giovanni Ferrara Se i partiti accettassero i loro limiti, di Ciso Gitti· 28 Un sistema misto di tipo tedesco, /orse, di Mariella 2!J Gramaglia Per la vera riforma una seconda rivoluzione demo- 30 cratica, di Giovanni Moro Unaforma di governo del "Gabinetto", di Gianfran- 31 co Pasquino Elezione diretta del presidente del Consiglio, di Giu- 32 seppe Tamburrano Riforme tra le pagine, di Biblo 33 ALL'INTERNO: altri articoli di P. Camiti, F. Reviglio, G. Querini, M. Bordini, G. Gennari, S. Lamiranda, B. Amoroso, G. Benvenuto, G. Biondi, M. Sepi, N. Di Meola Crisi del Golfo: rischio od occasione? di Pierre Camiti D agli inizi di agosto, quando è scoppiata la crisi del Golfo, gli esperti delle varie istituzioni economiche internazionali stanno lavorando per valutare i contraccolpi della crisi sull'economia mondiale. L'orientamento prevalente è che il rischio di un terzo shock petrolifero, almeno per ora, resti un'ipotesi remota. Se non precipita la situazione in Arabia Saudita i paesi industrializzati dovrebbero essere in grado di fronteggiare lo stato delle cose senza conseguenze disastrose. Le previsioni sono comunque concordi nel sostenere che la crescita economica, già in rallentamento, subirà nuove inevitabili frenate, mentre i prezzi tenderanno a camminare verso l'alto. Anche se in quadro di generale preoccu-

~J),BIANCO lXltROSSO ii 111D11l1i1i pazione le valutazioni non sono, però, catastrofiche. L'Italia costituisce, tuttavia, un'allarmante eccezione. Intanto tra i maggiori paesi industrializzati abbiamo la maggiore dipendenza dal petrolio e quando il petrolio rincara risale l'inflazione ed i conti pubblici si fanno insostenibili. «II livello di indebitamento del settore pubblico italiano - scriveva qualche tempo fa The Economist - fa sembrare, a confronto, quello americano un modello di rettitudine fiscale». Eppure in cifre assolute il debito degli Stati Uniti è quattro volte superiore a quello italiano. Ma se si guardano le proporzioni ci si accorge che la situazione italiana è ben più grave. L'economia americana, infatti, ha una dimensione sette volte maggiore della nostra. Così se misuriamo il debito pubblico in rapporto al prodotto interno lordo possiamo constatare che il nostro è ormai superiore al reddito, mentre negli Stati Uniti è poco più della metà. Le conseguenze in termini di fabbisogno sono ovvie. L'Italia ha, a questo riguardo, un indiscutibile primato tra i paesi industrializzati. In rapporto al prodotto interno lordo il nostro fabbisogno è 8 volte quello della Francia, 6 volte quello della Germania, 5 volte quello degli Stati Uniti, 4 volte quello del Canadà, per non parlare del Regno Unito e del Giappone dove il problema è inconsistente. «L'Italia - ha scritto l'Ocse - è appesa ad un filo sopra l'orlo di una trappola debitoria, se i tassi reali di interesse continueranno ad essere superiori a quelli di crescita e se, come nel caso italiano, è lo stesso governo ad essere causa del deficit (dato che le spese, incluso il pagamento degli interessi sul debito continuano a superare le entrate) allora le teorie economiche ammoniscono che il tasso debito-prodotto interno lordo potrebbe crescere senza limiti». È il debito stesso, infatti, ad autogenerarsi. Il debito di un anno sommato anche solo agli interessi porta ad un debito comunque maggiore per l'anno successivo. Il meccanismo determina una quota di interessi da pagare ancora maggiore l'anno dopo. E così di seguito. In una situazione del genere l'ultima cosa che il governo dovrebbe fare per contrastare le tendenze inflazionistiche è di utilizzare misure monetarie. Un aumento del costo del danaro dell' 1 per cento comporta, infatti, per lo Stato circa 10.000 miliardi di interessi in più da pagare. Ma quello che il governo (in teoria) dovrebbe evitare è invece costretto a fare (in pratica) per coprire il fabbisogno. Se vuole che la gente continui aprestargli i soldi mentre l'inflazione cresce è costretto ad aumentare i tassi di interesse (e quindi il costo del debito). Al di là delle chiacchiere è del tutto evidente, del resto, che il livello dei tassi di interesse è una variabile dipendente dalle condizioni della finanza pubblica. La situazione non induce, perciò, ad ottimismi. In questo quadro, a partire dalle prime settimane di settembre, è ripreso il rito della Finanziaria. La stampa nazionale, con la consueta tendenza ad enfatizzare l'inconsistente, ci descrive ministri alacri ed insonni intenti ad arrotare la scure, a preparare stangate, a spiegare l'inderogabile necessità di rigorose misure di risanamento. Le confabulazioni ministeriali non sembrano, però, nemmeno in grado di contrastare le tendenze al peggio. Il disavanzo previsto per il prossimo anno dovrebbe, infatti, superare i 160.000 miliardi. Sarà il record planetario assoluto. Nessun paese, nemmeno gli Stati Uniti riuscirà ad avere un deficit maggiore del nostro. Prospettiva che induce persino l'onorevole Andreotti, abitualmente incline a minimizzare, a riconoscere che «siamo con le spalle al muro». In una situazione simile, certo, spetterebbe soprattutto al governo il dovere di promuovere un accordo politico-sociale per il risanamento della finanza pubblica, con una equilibrata redistribuzione delle risorse e dei costi. Ma credo che non ci si debba fare illusioni. Sia per la precarietà della situazione politica, sia perché è stato lo stesso governo ad assecondare una politica salariale nel settore pubblico che teneva d'occhio più le elezioni di maggio che i conti dello Stato. Salvo, dopo le elezioni, presentare, con ponderata arbitrarietà, il conto della disinvolta politica contrattuale in termini di rincari dell'acqua, del gas, delle poste, della benzina, di bolli vari, in attesa che maturino nuove idee. Intanto comunque le discussioni fervono intorno alla necessità di una manovra di 50.000 miliardi per la Finanziaria 91. Il copione è quello consueto. L'unica cosa che cambia è la cifra della manovra. Che ogni anno aumenta. Proprio come il deficit. La conclusione che si dovrebbe trarre è che con queste manovre annuali, con una politica di meri tagli, non si arriva da nessuna parte. Ma questa presa d'atto stenta a farsi strada. Per risanare la finanza pubblica si deve soprattutto agire dal lato delle entrate. E piuttosto dolorosamente per alcune categorie che oggi pagano poco o non pagano nulla. Calcoli di diverse fonti hanno concordemente messo in evidenza che l'evasione fiscale, so-

~JJ. BIAJ\CO lXltROS..~ IIU•kHAiiii lo degli ultimi 10 anni, assomma ad una cifra analoga a quella dell'intero debito pubblico. Il problema fiscale ed il funzionamento della pubblica amministrazione restano nodi mai sciolti nella storia unitaria d'Italia. È proprio su questo terreno che (anche a causa del fatto che la storia della sinistra in Italia è stata soprattutto una storia di divisioni) si misura tutta la debolezza del riformismo italiano. Questione fiscale e funzionamento della pubblica amministrazione sono perciò discriminanti di una battaglia riformista chiamata, non soltanto a salvare il salvabile di conti pubblici disastrati, ma soprattutto a fornire nuove e, possibilmente, solide basi allo Stato di diritto ed allo Stato sociale, maggiori ed incompiute conquiste del riformismo in questo secolo. Qui sta la sfida per l'azione socialista nel governo. Ma questo è anche il banco di prova per le intenzioni riformiste del nuovo Pci. Se invece di cogliere questa occasione il Pci continuasse Alcide De Gasperi e Giovanni Leone (1947) = J a spendersi in battaglie più clamorose che vere (come quella recente sugli spot televisivi), o si arroccasse nella difesa di interessi cooperativi, comunque destinati alla sconfitta perché sarebbero anch'essi travolti da un'ondata di inflazione e di svalutazione, risulterebbe arduo pronosticargli un futuro nella costruzione di una alleanza riformista in Italia. Ma come in ogni crisi la situazione che viviamo esprime un rischio ed una opportunità. Il rischio è che si consumino gli stessi riti, si faccia un gran spreco di tempo e di parole mentre le cose precipitano. L'opportunità è invece che si possa creare un'ampia convergenza riformista capace di sbarrare la strada alla rovinosa distorsione di privilegi ed ingiustizie e ricostruire le motivazioni di una nuova speranza civile. La speranza, naturalmente, è che guardando tra qualche anno ai problemi di oggi si possa dire con Vico: «Parean traversie ed erano invece opportunità».

~-lJ,BIANCO l.X11. nosso iiikiil•P La novità del terzo Oil-Choc di Franco Reviglio N ell'ipotesi che con la soluzione della crisi irachena e il ritorno ad un mercato nuovamente normale il prezzo del petrolio si assesti nella forchetta di 23-27 dollari, l'impatto sul1'economia italiana per le sue modalità quantitative e qualitative sarebbe abbastanza diverso da quello avvenuto in seguito al precedente shock del 1979-1981.Il maggior costo per il consumatore italiano, pari a circa 7.000-9.000 miliardi raggiungerebbe soltanto un terzo di quello sopportato a seguito del precedente rincaro. La fattura energetica pari a circa 21.000 miliardi salirebbe a circa 26-28.000 miliardi, un po' meno dell'aumento del prezzo del petrolio, grazie all'effetto parzialmente compensativo delle prevedibili maggiori importazioni di merci italiane da parte dei paesi Opec. In termini di punti di Pil, la fattura energetica salirebbe da 1,6 a 2,2 punti, ben lontani dagli oltre 5 punti del Pil raggiunti dopo il secondo oil ·shock. Anche dopo il recente aumento, il prezzo reale del petrolio, al netto cioè del deprezzamento della moneta, rimane ancora al di sotto di quello esistente nel 1979. Si deve tenere presente che nel 1979-85 oltre la metà dell'aumento della fattura petrolifera ed energetica fu determinata dall'apprezzamento del dollaro, mentre, invece, oggi l'andamento del cambio gioca in direzione opposta, riducendo per il consumatore il costo dell'aumento del barile espresso in dollari. Di conseguenza, dovrebbe essere minore rispetto al passato l'impatto riduttivo del Pil (0,5 punti l'anno prossimo, circa un punto nel 1992) portando il livello dell'inflazione oltre il 7 per cento. Inferiore al passato dovrebbe pure essere il peggioramento dello sbilancio esterno di parte corrente, che salirebbe dal livello attuale (1,4 punti del Pil) a quasi 2 punti. Lo shock petrolifero colpisce il nostro paese in un momento in cui esso si trova in condizioni decisamente migliori di quelle esistenti prima del precedente rincaro del petrolio, Il nostro paese è più attrezzato a ricevere gli effetti negativi di uno shock interno di quanto lo era negli anni '70. Se si esclude la situazione della finanza pubblica che è rimasta oltremodo difficile per il progressivo aumento del debito pubblico (ma la spesa pubblica non pare essere fuori controllo almeno nella misura in cui lo era nei primi anni '80) risultano migliori le condizioni dell'economia. Grazie al risparmio energetico degli anni '70 e della prima parte degli anni '80 il contenuto di petrolio per ogni unità di prodotto nazionale si è ridotto anche se, esauritasi nella prima parte degli anni '80 la ristrutturazione energetica dell'industria, sono successivamente aumentati i consumi di petrolio in tutti gli altri settori e la dipendenza energetica è risalita all'82 per cento. Per queste tendenze, il nostro paese risulta più fragile agli effetti di shocks petroliferi esterni relativamente alla media degli altri paesi industriali. Nel complesso, tuttavia, l'impatto sulla crescita del rincaro unitario del petrolio è divenuto strutturalmente inferiore a quello del passato. Il sistema produttivo si è ampiamente ristrutturato e i conti delle imprese sono molto migliorati. L'economia si trova in una congiuntura ancora di espansione, anche se in decelerazione. Prima della crisi irachena, il tasso di crescita dell'anno in corso era previsto intorno al 3 per cento, rispetto al 3,2 per cento dell'anno scorso e per il 1991 si prevedeva un'ulteriore riduzione al 2,5 per cento. A causa del rincaro del petrolio, il tasso di crescita dovrebbe ridursi ulteriormente, intorno al 2 per cento l'anno prossimo. Si tratta di un tasso di crescita ancora ampiamente positivo, ma inferi ore a quello che si ritiene necessario per ridurre il nostro elevato tasso di disoccupazione. L'inflazione è inferiore al 6 per cento, mentre, invece, nel 1979 essa era del 15 per cento.

.{)11. BIANCO l.XII. ROS.."4:) iiiiiii•h Il ministro Romita annuncia la vittoria della Repubblica, giugno 1946 I prezzi delle materie prime diverse dall'energia sono in discesa. L'indicizzazione della scala mobile non incide più per oltre 1'80, ma solo per il 46%. Infine, la politica monetaria è maggiormente sotto controllo rispetto alle due precedenti occasioni, anche se essa subisce i vincoli della riduzione della banda di oscillazione della lira all'interno dello Sme. Il cambio stabile, che ha consentito nella prima parte dell'anno una efficace gestione del debito pubblico riducendo i tassi di interesse e i differenziali nei tassi grazie alla riduzione del premio necessario per compensare il rischio sul cambio per gli investitori richiederebbe che la deflazione prodotta dallo shock esterno andasse a carico della domanda interna, per consentire il trasferimento di ricchezza ai paesi produttori. Ma la riduzione della domanda comporta costi politici e socialisti che il sistema italiano ha nel passato dimostrato di non voler assumere. Teoricamente non dovrebbero più essere possibili svalutazioni competitive e, perciò, le rigidità dei costi salariali rischiano di ridurre ulteriormente i margini delle imprese e la concorrenzialità del sistema produttivo, particolarmente nei settori non protetti dalla concorrenza internazionale. Questo peggioramento competitivo si aggiunge a quello che è in corso, sia pure lentamente, negli ultimi due anni. Esso non può più essere compensato, come è ampiamente avvenuto nella prima parte degli anni '80 attraverso le fiscalizzazioni degli oneri sociali finanziate dal «fiscal drag» da interventi di politica fiscale a causa della necessità di riportare sotto controllo la dinamica tendenziale del disavanzo e del debito pubblico con una manovra in ■ - ■ - ----- - -~- -- ~ tre anni di ampie dimensioni per poter giungere all'appuntamento del 1992 in una situazione di maggiore convergenza del nostro sistema economico e non perdere contatto con i paesi più forti dell'Europa nel processo di integrazione economica e politica ed evitare nei fatti l'Europa a due velocità. Anzi, l'aggiustamento necessario nei conti finanziari pubblici potrebbe anch'esso contribuire a peggiorare ulteriormente la posizione competitiva del sistema produttivo. La risultante erosione dei margini delle imprese potrebbe finire con l'innestare una crisi competitiva, i cui segni esterni più vistosi sarebbero l'aumento del disavanzo esterno di parte corrente e crescenti difficoltà per il suo finanziamento. Alla fine verrebbe posto in pericolo la stessa stabilità del cambio. A questi pericoli occorre rispondere con saggezza e preveggenza affrontando in una impostazione pluriennale di ampio respiro i nodi strutturali che attanagliano il nostro paese e che ne imbrigliano la competitività e ricercando con le parti sociali accordi compatibili con la nuova realtà e le serie sfide del futuro. I settori sui quali occorre incidere profondamente sono ben noti; le evasioni ed erosioni del sistema tributario e contributivo, le inefficienze dei servizi, gli sprechi delle politiche sociali che sono oramai dominate da meccanismi fuori controllo, le divergenze negli andamenti salariali e le rigidità ancora esistenti nel mercato del lavoro, le distorsioni nell'azione per lo sviluppo del Mezzogiorno. L'obiettivo a cui tendere è la graduale riduzione degli scarti di inflazione e di disoccupazione che sussistono tra il nostro paese e i partners battistrada dell'Europa.

B _.l>_J.I.BIANCO \Xli.ROSSO iii•iiliil Si ricomincia da Babilonia di Giulio Querini L a povertà, su scala mondiale, verrà dilatata dalla attuale crisi petrolifera. Tuttavia questo fenomeno è molto più complesso di quanto intuitivamente possa sembrare. Una analisi di tale complessità può portare a conclusioni interessanti. La povertà, nei Paesi in via di sviluppo (Pvs), è difficile non solo da misurare, ma anche da definire: in sostanza, possiamo considerarla la condizione di impossibilità degli individui e delle famiglie a partecipare, con dignità, alla vita della propria collettività. L'attuale aumento del prezzo del petrolio determinerà un aumento della povertà (intesa in questo senso) dell'insieme dei Pvs sia in assoluto che rispetto ai Paesi industrializzati, aggravando molti altri squilibri internazionali. Dal punto di vista dei Pvs, l'attuale crisi petrolifera presenta una duplice caratteristica, che la differenzia da quelle del 1973 e del 1979: da una parte l'aumento del prezzo del petrolio è per ora molto più contenuto, dall'altra la quota dei Pvs sul consumo mondiale di petrolio è notevolmente aumentata (dal 18% del 1973 al 28% nel 1989). Gli effetti economici reali saranno negativi per la maggior parte dei Pvs: la Banca Mondiale infatti ritiene che solo undici Pvs potranno beneficiare, in quanto esportatori netti di prodotti petroliferi, dell'aumento dei redditi conseguenti alle maggiori esportazioni. Per tutti gli altri Pvs l'aumento del prezzo del petrolio nella sfera economica assumerà connotati negativi per i seguenti motivi: a) deterioramento della bilancia commerciale e conseguenti restrizioni all'importazioni di beni sia di consumo che di investimento; b) aumento delle spinte inflazionistiche e dell'instabilità dei cambi; c) aumento dei tassi di interesse, aggravamento del servizio del debito estero e maggiori difficoltà di finanziare investimenti per lo sviluppo. Effetti prevalentemente negativi si avranno anche in altri settori, e cioè in ambito sociale, ecologico e della stabilità politica generale. Gli squilibri sociali, all'interno dei Pvs più poveri, saranno accentuati dagli effetti dell'inflazione, che colpirà in modo particolarmente grave le famiglie e gli individui a più basso reddito, mentre si verranno a dilatare le sacche di profitti speculativi a favore della borghesia commerciale. In molti Pvs, inoltre, il mercato del lavoro sarà sconvolto dal ritorno di ingenti masse di emigrati che hanno perso la loro occupazione nei Paesi del Golfo. Il fragile equilibrio ecologico di molte regioni del mondo sarà messo a dura prova dalle conseguenze del rincaro dei prodotti petroliferi. Non bisogna dimenticare infatti che oltre un miliardo di uomini dipende dal legno come fonte primaria di energia: la deforestazione e l'uso dei combustibili impropri (ad esempio di letame, od altre forme di biomassa utilizzabili come concime) verrà fortemente incentivato, specie in Africa e in America Latina. In altre regioni - in particolare nell'Europa dell'Est - l'inquinamento verrà accentuato dal ricorso all'utilizzo sia di carbone ad alto tenore di zolfo, sia di centrali nucleari obsolete. Sul piano politico infine - all'interno dei Pvs, ma anche a livello internazionale - la crescita degli squilibri economici, sociali ed ecologici rafforzerà le tendenze destabilizzatrici. A tale proposito va chiarito che non ci sono affatto motivi per rimpiangere la precedente «stabilità», che ora viene resa ulteriormente precaria: in particolare non saranno certo i poveri dei Pvs a rimpiangere il tendenziale declino della «ragione di scambio» per le materie prime, l'emigrazione di massa come fonte di sussistenza, la elevata dipendenza energetica dal petrolio importato, il prevalere di regimi autoritari o feudali sostenuti dall'estero. Quello che è interessante notare è che in presenza di forti elementi di iniquità - polarizza-

iiikiil•h zione del potere in gruppi economici e politici insensibili alla povertà di massa - le sollecitazioni al cambiamento derivanti dalla attuale crisi energetica spingono i Pvs verso situazioni sempre più insostenibili. Questa crisi - che sotto molti aspetti poteva essere per i Pvs un'occasione per allentare i vincoli di dipendenza dall'Occidente - dimostra invece il contrario nel contesto del vigente ordine internazionale, di fronte a situazioni di crisi economiche mondiali, la povertà e la marginalizzazione dei Pvs non possono che aumentare. Trova quindi conferma l'ipotesi che - in antitesi con tante teorie vetero-marxiste sull'imperialismo - conferma che, fino a quando il sistema finanziario internazionale ·regge, ogni crisi economica rafforza, e non indebolisce, la dipendenza dei Paesi poveri dal capitalismo occidentale. La conclusione politica pertanto è che la dipendenza dei Pvs va ridotta innanzitutto con misure «interne» ai Pvs stessi, e non con mitici tentativi di correzione del sistema degli scambi internazionali. Lo sgretolamento dell'Opec, paradossalmente, potrebbe essere - con il mettere fine all'illusione di riequilibrare il mercato delle materie prime nel contesto del sistema attuale - un primo passo nella giusta direzione: ancora una volta, «si ricomincia da Babilonia». Dopo la <<Mammì» di Massimo Bordini L a ricerca di senso come corso ordinato dalle cose, delle innovazioni tecniche di tante certezze si va, ovunque, dissolvendo. E allora, come fa chi coltiva ancora l'utopia di un sindacato confederale a dare significato forte a quanto sta avvenendo con le norme e con l'organizzazione del sistema radiotelevisivo in Italia? Se il faro forte, l'idea guida come si diceva una volta - del pluralismo limpido ed estremo nell'informazione avesse ancora un senso robusto, dovremmo esser qui a strapparci i capelli: tre emittenti televisivepubbliche in mano a tre aree di partiti e un oligopolio privato ci daranno tutta l'informazione che costruisce il mondo come immagine. E così i timori che ci insegnarono Theodor Adorno e Max Horkeheimer sull'omologazione della società guidata da visioni stereotipate dovrebbero travolgerci. Ma poi scopriamo che negli Stati Uniti, malgrado gli oligopoli e i monopoli settoriali, la moltiplicazione vertiginosa dell'informazione ha richiesto (non solo permesso) che si presentassero alla ribalta culture e subculture di ogm genere e minoranze di ogni specie. Siamo al punto che l'occidente vive una situazione esplosiva, una pluralizzazione che appare irresistibile e che nessun monopolio del1'informazione è in grado di piegare. Forse le immagini di Saddam Hussein dopo l'invasione del Kuwait in diretta hanno mostrato meglio d'ogni altra comunicazione la possibilità di infrangere qualsiasi ipotesi di informazioni guidate con fondamenti «rassicurativi». E allora come non avvertire una sproporzione abissale tra il portato concreto della recente legge che disciplina il sistema radiotelevisivo pubblico e privato e le dispute, gli scontri laceranti che l'hanno accompagnata? In realtà la moltiplicazione di orizzonti e di argomenti sollevati contro, ma anche a sostegno della legge appare una sorta di supermarket di immagini, costumi e maschere che molti possono vestire a piacimento. Molti, ma, mi sembra, non il sindacato confederale. E non solo perché le divisioni tra sindacalisti che si ispirano ai diversi partiti, annulla il

~_tJ.HIANO) l.XII.UOSSO iiiiiiiiQ significato stesso delle proposizioni confederali (che pure esistono, sono messe bene, li in bella copia nei comunicati ufficiali) ma perché è proprio il terreno specifico prioritario e cruciale, per il sindacato, ad essere escluso dalle attenzioni politiche sia della legge che della discussione avvenuta nel deposito delle maschere dei partiti. Mi riferisco all'organizzazione del lavoro, alla tutela nei sistemi radiotelevisivi delle fasce meno protette rispetto al proliferare - particolarmente nel segmento pubblico - di prof essioni, ruoli, posti e incarichi ridondanti e ipergarantiti. Mi riferisco alla ricerca di una mediazione tra valorizzazioni professionali dei singoli e nuove legature sociali da definire. È questo un campo faticoso da arare, meno brillante rispetto agli interessi suscitati dalla discussione politica; fa i conti con gli aspetti più duri della lottizzazione. Perché proprio le diverse influenze dei partiti e delle loro correnti impediscono, nel segmento pubblico, una forte e autorevole presa confederale; mentre le condizioni di mercato, ricondotto alle sue connotazioni più classiche, fanno esplodere nel segmento privato lavori discontinui, precari, saltuari con caratteri di marginalità che non hanno neppure i braccianti immigrati e stagionali nelle campagne. Su questo terreno c'è da fare per il sindacato: solo da qui si può ripartire per dare senso ancora ad una presenza confederale e solo dopo una ricucitura con l'organizzazione del lavoro di chi opera nel sistema radiotelevisivo, dopo, soltanto dopo si potrà riprendere amacinare proposte politiche e ipotesi di riforma autorevoli. Alcune nuove e inaspettate condizioni ci sono. Nessuno, prima, aveva immaginato che gli stravolgimenti mondiali dell'89 sarebbero ricaduti come un macigno sulle ragioni storiche del voto anticomunista che hanno dato un forte collante per 40 anni alla Democrazia Cristiana. Non occorre sforzarsi molto per capire cheJa discussione e la lacerazione democristiana nella leggeMammì ha trasformato le questioni del1'emittenza in un puro pretesto per far emergere il senso del nuovo scenario politico. Per il Sindacato la lezione dischiude una possibilità finora impensata, quella di approfittare della caduta delle ragioni storiche della divisione sindacale, per riproporre un nuovo programma, un patto, un manifesto per l'unità sindacale. Le condizioni materiali ormai mostrano che la vera divisione nel mondo sindacale non passa più tra sindacati comunisti o socialcomunisti e tutti gli altri ma tra chi insiste sulla possibilità di far vivere un sindacato che media tra le varie figure professionali nel mondo del lavoro e chi esclude dalla propria azione quell'orizzonte. E nel settore dell'emittenza radiotelevisiva questa nuova discriminante appare con evidenza unica. Cattolici e politica: la svolta possibile di Giovanni Gennari Sono in molti a chiedersi, oggi, se si possa aprire una nuova stagione politica per i cattolici italiani. Io lo credo, perché c'è qualche autentica novità, ma il discorso è piuttosto articolato. Innanzitutto è chiaro che qui, quando si dice «cattolici», non si intende un dato puramente anagrafico, che riguarderebbe il 950Jo degli italiani, ma credenti autentici, anche se più o meno praticanti, che cercano di prendere sul serio la fede e le sue implicazioni, e che si sentono parte, pur con tanti problemi, della

iiiiiii•h Chiesa attuale. Quanti sono, in Italia, questi cattolici? Certamente tanti, un numero tale che potrebbe contare parecchio, con i suoi spostamenti, anche sugli instabilmente immutabili equilibri politici nazionali. Ebbene, oggi c'è, anche per i cattolici in questo senso, una situazione nuova sia per quanto riguarda la Dc che per quanto riguarda, più o meno, gli altri partiti. A. La Dc. Ha problemi di credibilità politica, sul versante anche della coerenza di condotta, di persone e di partito intero, con i valori, ed ha problemi interni di strategie, di equilibri, di convivenza di anime diverse, di conflittualità sempre più aspre. Si sta preparando ad un Congresso in cui tutto è aperto, e le armate in campo fanno già molto rumore, ma è certo che nessuna di esse può inalberare la Croce. Si dirà che quanto alla rissosità interna la Dc è stata sempre così, ma oggi la novità assoluta è che per essa è venuto meno il possibile appello all'argine anticomunista, che nella realtà dei fatti ha contato molto per tener assieme, nel partito, tutto e il suo contrario, e per attirare tanti voti. Non c'è più il comunismo internazionale, e quello nazionale è, come tale, al lumicino, comunque vadano a finire le vicende della «cosa» occhettiana. Il comunismo, nel senso forte che questa parola ha avuto, non esiste più, e ogni appello politico basato sull'anti-comunismo è del tutto inutile e senza senso. Montanelli, oggi, non inviterà mai a «turarsi il naso» e «votare Dc», per fare argine ad un Pci forte e potenzialmente egemone. Ma la novità, almeno parziale, è anche altrove, e cioè in campo ecclesiale. Oggi il cardinale J oseph Ratzinger dichiara ad alta voce, in Italia, che «la Chiesa non si deve mai identificare con un partito» e che il pluralismo politico e partitico dei cattolici è normale. Dottrinalmente niente di nuovo, perché è scritto già nella «Octogesima Adveniens» di Paolo VI, dal 1971,ma è pur sempre un segnale. I Vescovi italiani alle prossime elezioni faranno più fatica a ripetere il ritornello dell'unità politica dei cattolici, che vuol dire «votare Dc». Un cattolico italiano oggi «può», certo, ma non «deve» più votare Dc. E allora il problema è, a naso non turato, cioè con piena libertà di analisi critica, quale odore hanno i partiti, Dc compresa. Ci può essere, e c'è, tra i cattolici italiani, chi pensa che anche oggi la Dc, questa Dc, sia tra i partiti italiani il minor male possibile, anche se divisa tra signori delle tessere e degli appalti, tra predoni di clientele e di poltrone, tra destra, centro e sinistra, tra correnti vecchie e nuove. Ora c'è anche la «rete» di Leoluca Orlando, che per ora a Palermo ha portato 70.000 voti alla Dc siciliana, che è sempre quella di Salvo Lima, e ha ridotto il Pci a meno del lOOJo.Orlando vuole diventare segretario di questa Dc. Che Dio gliela mandi buona, ma per ora i suoi metodi dividono, più che unire, e la demonizzazione di tutti i diversi non aiuta nella linea giusta. Non è credibile, in alcun modo, la pç>ssibilità di un «secondo» partito cattolico. Per fondare il primo ci sono voluti 50 anni di lotte, tra veti ecclesiastici e scomuniche ai fondatori. L'approvazione venne, alla Dc di De Gasperi - e basta ricordare la storia degli anni '40 -, solo in funzione di diga anticomunista. Oggi in Italia una seconda formazione politica cattolica, o anche «di cattolici», non avrebbe mai il placet della Chiesa, e quindi non potrebbe mai nascere come vera forza politica. Nessuna forza cattolica organizzata, come tale, sia essa religiosa, come l'Azione cattolica, o sociale, come le Acli, potrebbe scegliere di aderire ad un altro partito italiano che non sia la Dc. Sarebbe subito colpita e privata di ogni approvazione ecclesiastica, come capitò alle Acli, venti anni fa, ai primi accenni di distacco dalla Dc. Ciò vuol dire, per concludere questa parte, che tutti coloro che parlano di secondo partito cattolico, o anche di confluenza e di simpatie di forze cattoliche organizzate, come tali, per altri partiti, lo fanno solo a scopo di lotta tattica dentro la Dc, come ricatto per rafforzare la propria posizione nel partito. Cielle ha fatto finta di accostarsi al Psi, due anni fa, solo per cacciare De Mita, e certa sinistra Dc, compresa la «rete» di Orlando, pare oggi dialogare con la «cosa» di Occhetto solo per tornare a contare di più, nella Dc, per affermarsi in essa e imporre le sue scelte. Non per nulla Orlando afferma che vuole cacciare Andreotti e fare il segretario della Dc, non certo fondare un'altra formazione politica. B. Gli altri partiti. Una volta chiarito il discorso relativo alla Dc resta aperto il problema degli altri partiti, e in particolare di Pci, Psi e partiti detti «laici». Come possono far sì, questi partiti, che i cattolici che non votano, o non votano più, Dc, possano orientarsi elettoralmente e politicamente verso di loro? È un discorso complesso, in parte eguale e in parte diverso per ciascuna formazione politica.

i.)_lJ, BIANCO lXll,HOSSO Uiiiil•d .. ,. ........ . .... ,,....• !e,[ ......... _. 1• .. .. , ... ··••'-•~··· -...--..----.-•-"-- .......... ______ ....._...,.,_... .. I ---- ........... ....... __. ....... e-- ...... , ...-- .•-=:::.:::-:-.~ - I SOGNO C8fflllAIIIO Dlii ITAUAOII STEI COIIWOOU F UNAlii llaSAIUlTA' BEPUBBLIUAt EDO fu cotlln&ita paaieatemea,. con iJ ~ • iJ dobe di milioni di JaYoratori: l'idea eh• OS1l1i tr oa1o fu combattuta da tutte I• Ione mobwt• contro Ja Libertà. Jcr democ:ruia • il p,ogr1ao clalJa nccJaia daw diric,eat• - lddio heaedice la nasce.aterepubbl.ica, alla qual• è coauaeao il compito tremeac:fo • mercnigJi090 di riacattme. nella concordia • neJ JaYOro, aelJcr gìu.■tisicr • aelJa libertà il pa.DJto d' .ipomiaicr deUa moaarcllicr• del lmcismo ATTO L•e• re \ Grazie a Nenni 1110 giugno di VIVALAREPUBBLICA I ·~. - -. naacita ,._.. - ......_ * r- - .., ss:..~.:-:I :lami • .,._. "- • _ ... _., .. culw ti a • W 1 I etaNe .. ........ :.Z:...~ :..:;-.: 1 !.•.._•..•~.;·,.:_~-.·.·.•.•.,~,_- ,_~; - - - • _,_ - E -■l'IMII .............. 411 ,.o_ "':.:"..:-:... •••-' - .. -.. -·••"·--~··' - , .. - .......... ----·-·-- _.,.. ... . ,. ___ -·-- ..... .,. ----·-•--- - ·-·-- ---·---- ,..._ _ _,,,. ......... - .... ------- L-•~• . .o--·--.•..., __ .......... __ ............... ~- ,. .. _......., ... _ ..................... . ..... ........_ ..................................... ,,. .................... _ ... .. ....... ,.... .,. ........ .. -._,..,,._, ,..._r..._.............. ......._,,,_,......,..,..,.. Ha vinto la Repubblica (5 giugno 1946) La prima cosa da mettere in rilievo è che i partiti debbono presentarsi come bisognosi dei voti dei cittadini, anche di quelli cattolici, e non come il centro dell'universo positivo che «consente» agli elettori, anche diversi, «persino cattolici», di banchettare alla sua mensa, di partecipare al progresso, di realizzare la scelta liberatoria e definitiva. In ciò il discorso è decisamente relativo al Pci, che dovrà, comunque si chiamerà, e comunque uscirà dal prossimo Congresso e dalle eventuali divisioni, cambiare molto del suo atteggiamento passato, molto più degli altri partiti. Finora esso si rivolgeva ai cattolici come dall'alto di una visione non solo diversa, ma anche superiore, che si riteneva l'unica progressista e moderna, scientifica e razionale, e che continuava a contrapporsi a quella detta sorpassata, conservatrice e non scientifica di chi si richiamava a fattori religiosi. Pur avendo superato teoricamente con Berlinguer la visione atea e antireligiosa, nella prassi il Pci è rimasto un partito con una sua «visione del mondo e della vita» non solo laica, ma anti-religiosa ed ostile a tutto ciò che dice coscienza cristiana. Perciò un cattolico era volentieri «ospitato» nel partito, ma sempre come un «diverso», additato come tale, e come tale «arruolato» nelle sue liste. Nei fatti un cattolico che restava e voleva restare religiosamente cattolico aveva vita quasi impossibile, nel Pci, a meno che non mettesse il silenziatore :::::=--....-.·- r.. .. ::~-.;;::;.:.~; : ,• .. ·•--·••· !_'=.:::.:::-.:.:...· ... --- ·---- 1 __ ...... .,,__ . ,., l :-_:.:~.:.·.-·. ___ ._ . .. .... ,_ su tutto ciò che come tale lo segnalava, salvo essere tirato fuori, all'occasione elettorale, per attirare voti e consensi su materie miste. L'appello del Pci ai voti «cattolici» ha avuto spazio, per esempio, anche nei referendum (divorzio e aborto), con la opportuna distinzione, poi presto dimenticata e contraddetta, dopo l'esito vittorioso, fra il problema etico e la legge civile. Infatti, può dirsi che il Pci, nel suo complesso, per esempio dopo il 17 maggio '81, si è comportato, nella realtà e nell'impostazione anche culturale e teoretica, come se quel giorno avesse vinto Pannella e cioè l'aborto fosse stato totalmente liberalizzato. La cultura del Pci ha praticamente trasformato l'aborto in «diritto civile», e messo a tacere ogni voce diversa, anche quella di quei cattolici che pure erano stati ospitati e propagandati nella battaglia referendaria. È solo un esempio, ma se ne potrebbero addurre molti altri. Di più; negli ultimi anni c'è stata una progressiva irrilevanza degli eletti e degli eventuali elettori cattolici, nel Pci, e un progressivo emergere, nell'arretramento della ideologia marxista, di una cultura radicale assolutamente estranea ed ostile ad ogni visione etico-religiosa di ispirazione cristiana. Il Pci non è diventato, da partito ateo che era, un partito davvero «laico», capace di lasciare cioè alle diverse coscienze dei cittadini il giudizio su tutto ciò che non è politico, ma partito '- . - - I IO

... - _p_tJ. BIANCO '-Xli.ROSSO iii•iii•h di ispirazione laicista e radicale, nel senso pieno del termine. Difficile, oggi, che questo Pci, non solo perché in crisi politica e ideologica, in presenza della fine del comunismo come tale, ma anche per ragioni di natura culturale e ideale, possa attirare ancora voti di cattolici che non votano Dc. Detto del Pci, restano gli altri partiti. Mi pare che in essi non ci sia da superare una vera tradizione atea ed anticristiana, ma occorre che la loro «laicità» tradizionale perda sempre più, se occorre, i suoi caratteri di monocultura ideologica e acquisti lucidamente quelli di un «metodo», che distingue il religioso dal politico, non avanzando soluzioni ideologiche in contrasto con la coscienza dei suoi elettori, sia credenti che no, e rispettando, nei campi misti, la diversità ideale sempre possibile e necessaria. Ciò vuol dire che nella pratica i partiti, tutti, debbono guardarsi sempre dal comportarsi come chiese, che cioè pretendano di avere delle dottrine filosofiche e morali discriminanti. Una chiesa ha come tale una sua visione del mondo e della vita, e non può essere pluralista nei principi, mentre può esserlo nella prassi, in cui i principi non sempre sono implicati. Un partito invece, per essere tale, e non chiesa, non deve avere un'unica visione del mondo e della vita, e deve badare all'unità pragmatica e operativa dei suoi membri, in armonia con le decisioni prese democraticamente dai suoi organi. La «laicità» è un metodo, non un contenuto ideologico, e può essere di credenti e non credenti, cattolici e non cattolici, mentre il suo opposto è l'integralismo clericale, che anch'esso può essere di credenti e no, cattolici e non cattolici. Un paese in cui vige l'ateismo imposto per legge non è un paese «laico», ma clericale anch'esso, pur di segno opposto, come lo è quello in cui una religione è obbligatoria per tutti i cittadini. Occorrerà lavorare sodo, nella cultura e nella pratica degli altri partiti, tutti, perché i cattolici che non si sentono di votare la «vecchia» Dc e il «nuovo» Pci possano sentirsi elettoralmente attratti a votare per essi. È evidente che sui temi di frontiera, tra coscienza cristiana e coscienza detta «laica», nel senso di ispirata non a radici religiose, sarà essenziale l'equilibrio che non impone principi dottrinali unici e che si limita a presentare comportamenti pratici unitari. Difendere, per esempio, la legge 194, ma senza far diventare l'aborto una cosa indifferente, o addirittura positiva, senza presentarlo come un «diritto civile», e comprendendo nella difesa la parte preventiva e dissuasiva, che nella legge c'era e c'è. Non tocca ai partiti come tali avere una «dottrina» su matrimonio e famiglia, su sessualità e scuola di religione, sul papa come tale e sulla libertà dei teologi nella chiesa. È allora evidente che dentro ogni partito ci possono e debbono essere, a parità di diritti e doveri, diverse ispirazioni ideali, e occorre che la prassi non contraddica i principi propri delle diverse coscie·nze. È chiaro, per fare un esempio relativo al Psi, che la posizione sofferta e problematica di Giuliano Amato sul tema dell'aborto, manifestata più volte, che non mette in questione la 194, ma critica la prassi della sua attuazione, con la ideologizzazione del «diritto» della donna, e con la totale «dimenticanza» della prevenzione, è una posizione che è particolarmente adatta a favorire un consenso di cattolici. Lo stesso può dirsi della posizione di Claudio Martelli nei confronti del problema immigrazione, con la presa a carico del primato delle persone dei più deboli e con il rifiuto di ogni egoismo razzista e leghista. È un discorso aperto sul futuro ... Due ultime osservazioni, che sarebbero implicite nel discorso già fatto, ma che vale la pena di ribadire. La prima è che i partiti cometali non dovrebbero cercare rapporti politici con organizzazioni cattoliche nel loro complesso, ma con i singoli cittadini cattolici. Le organizzazioni, come tali, non avrebbero mai la libertà di manifestare la loro adesione senza incorrere nelle censure ecclesiastiche, e la cosa sarebbe propaganda rovesciata. La seconda osservazione è che tutti i partiti non dovrebbero, sempre come tali, privilegiare i rapporti con la chiesa ufficiale, pur rispettandone competenze e ambiti, e non meravigliandosi, o addirittura protestando, se essa si pronuncia nel suo spazio dottrinale e morale. L'ufficialità ecclesiastica è ancora, soprattutto nella sua realtà italiana, per ragioni storiche e di potere umano, molto legata alla realtà della Dc, ed è illusorio pensare che se ne distacchi nei fatti prima che questa sia ridimensionata dalle scelte degli elettori, anche cattolici. Dopo, il realismo consiglierà. È solo un inizio di riflessione: Riformismo e Solidarietà ha intenzione di affrontare il problema intero dei rapporti tra cattolici e politica, in Italia, in un prossimo «seminario» di due giorni, che si terrà probabilmente a Venezia. Ci sarà modo di riparlarne. ■ Il

~li- BIANCO l.XILHOSSO Ui•MINU • Sud e cooperazione un'esperienzapositiva di Saverio Lamiranda P rima di entrare nel merito di singoli aspetti critici e problematici, credo di potermi concedere due osservazioni in positivo. La prima riguarda il «mensile di dibattito politico» che ospita l'articolo, con ovvio riferimento al numero monografico che in precedenza (mi riferisco al fascicolo di agosto-settembre) aveva presentato un «dossier» sui rapporti tra Mezzogiorno e società civile. È un insieme di contributi che si distaccano notevolmente da quella specie di «binario morto» in cui è finito il dibattito meridionalistico, specie a far testo dalla stanca e quasi rituale sequela di «commenti» che ha accompagnato anche quest'anno l'uscita dell'ennesimo Rapporto Svimez. La seconda osservazione, per quanto resa al positivo, prende contradditoriamente spunto dalla palude limacciosa in cui sembra impantanarsi il dibattito meridionalistico a esito istituzionale-legislativo. Vale a dire quello che si viene a dislocare sì oltre la liquidazione della Cassa, ma quasi scorrendo a precipizio lungo uno spettrale od immobile «programma triennale». L'impressione, resa al positivo per l'appunto, è che nonostante tutto ormai nessuno sia più in grado di «circuitare a tutto campo» il Mezzogiorno. Circa dieci anni fa o poco più, cioè all'inizio della nostra esperienza di «giovani imprenditori della cooperazione» in Basilicata, temevano soprattutto chi era in grado di farci fare «corto circuito»: di liquidarci come «economia protetta» (sul tipo della pseudo-cooperazione gestita dagli Enti regionali di sviluppo agricolo), quando noi chiedevamo soltanto «assistenza tecnica» (qualcosa di diverso dall'assistenzialismo perché parametrato a forme concrete di sostegno dello sviluppo). Corti circuiti di questo stampo sono sempre alle porte: in passato ne abbiamo avuti molti, si può dire siano intrinseci al ruolo della cooperazione meridionale. Nella nostra breve ma : 12 intensa storia, tuttavia, di veramente importanti ne abbiamo avuto soltanto due. Il primo non siamo riusciti a sventarlo perché era opera della natura e non degli uomini: mi riferisco, infatti, al terremoto irpino o calabro-lucano del 1980. Alla fine di quell'anno, cioè esattamente dieci anni fa, stavamo per chiudere una prima costruttiva fase della nostra esperienza: nel giro di un quinquennio, partendo da una realtà di sole tre cooperative giovanili a carattere culturale e di solidarietà sociale, eravamo riusciti a «coordinare» nella neonata Unione della Confcooperative di Basilicata circa duecento aziende cooperative con un discreto consolidato economico di imprenditorialità e di fatturato. Gli effetti deleteri e devastanti del sisma avrebbero potuto cancellare ogni segno della nostra esperienza, far rientrare nell'ombra quanti di noi erano riusciti nell'intento di assottigliare le fila di un'ancora massiccia disoccupazione. Fortunatamente, insieme al «messaggio della cooperazione», funzionò per noi quella sorta di «solidarietà a esito di assistenza tecnica» che funziona (e si invoca) anche al Nord in caso di calamità naturali: né più né meno, forse con qualche piagnisteo in più, ma quasi nelle forme di un intervento a carattere «ordinario» tenuto conto della straordinarietà del disastro. Così la nostra esperienza riprese il suo corso, consolidandosi via nel fatturato annuo, nella sua realtà di «sistema di imprese» connotate da un'economia forse ancora assistita ma certo non più protetta: e ciò fino al traguardo dei «meccanismi autopropulsivi dello sviluppo». Non era ancora la capacità di «stare sul mercato», anche se di questa questione si era incominciato presto a discuterne a fronte di chi non tralasciava occasione di agitare lo spettro della crisi dello Stato «sociale» a cornice dello slogan - allora d'obbligo - che voleva «meno Stato e più mercato». In tal modo si arrivò al-

~.lt BIANCO lXILHOSSO iii iii i iii Pietro Nenni vota per l'Assemblea Costituente, 2 giugno 1946. l'appuntamento del 1984,che per noi ebbe quasi l'avvisaglia di un tentato «corto circuito a scala sismica»; questa volta però, in quanto voluto dagli uomini, si riuscì a scongiurarne gli effetti. Si riuscì ad evitare, insomma, che la liquidazione della Cassa per il Mezzogiorno coincidesse - sull'ondata di critiche che si stava abbattendo sullo Stato sociale - con la «circuitazione a tutto campo» della politica meridionalistica. Per evitare questo siamo ancora in trincea e, per inciso, non siamo affatto disponibili a rinunciare al «messaggio meridionalistico» in quanto tale: al suo essere, per noi, messaggio «autentico». Non c'è ombra di polemica in questo rilievo, ma certo dovremmo dissentire da Bruno Manghi che «firmando un suo articolo nel precedente numero di questa rivista (come sopra ricordato) - lascia intendere il rischio di essere «traditi dalla retorica» qualora ci attestassimo sulle vecchie frontiere del meridionalismo. Noi siamo ancora pronti a scommettere sull'autenticità di questo «messaggio» perché, proprio nel suo nucleo originario e centrale, abbiamo intravisto quel «gruppo di continuità» che non solo ci ha impedito di fare corto circuito ma di crescere quasi senza interruzione. È lo stesso risultato complessivo della nostra esperienza, che ci vede ormai elemento qualificante di un sistema agro-alimentare della dorsale appenninica, a stimolarci a continuare a far perno su un concetto di Stato sociale caratterizzato più in termini di «progetto di sviluppo» che di «normativa d'intervento», cioè processualmente «sovradimensionato» rispetto al modo tradizionale di intendere lo Stato sociale. Vale a dire quell'ispirazione «keynesiana» che al massimo arriva all'economia del benessere, mentre noi intendiamo operare nel più ampio contesto dell'economia dello sviluppo. Quello stesso ambito, cioè, che già nel 1980 ci consentì di intendere la politica meridionalistica come anticipo di una emergente «politica dei meridiani». Politica che, con la rotazione «planetaria» dello scontro Est-Ovest al confronto Nord-Sud, è a sua volta elemento qualificante di quello «sviluppo dei popoli» che - se non altro al dire della «Populorum Progressio» - sembra (Medio Oriente permettendo, ma forse proprio per la minaccia insita in quell'area) ormai unicamente declinabile come «nuovo nome della pace».

_p_l), BIANCO '-Xli-ROSSO Ui•iil•P Liberismo economico e dislivelli produttivi di Bruno Amoroso e onsapevole di porsi controcorrente rispetto all'atteggiamento dominante di «esaltazione generica o di critica pregiudiziale dei tentativi di integrazione europea» e nel rifiuto di «lasciarsi rimorchiare dagli eventi, anziché seguire e - nei limiti del possibile - antivederne gli sviluppi» (Caffé, Sguardi su un mondo economicoin trasformazione in Saggi critici di economia, De Luca Editore, Roma 1958, p. 61-75), il professor Federico Farré segnalava all'indomani della firma dei «Trattati istitutivi della Comunità Economica Europea» (marzo 1957) i rischi di un programma di integrazione economica basato su «di uno spensierato liberismo economico» che avrebbe portato ad «aggravare i dislivelli produttivi e di tenore di vita nelle varie zone, anziché colmarli» con una ripetizione delle vicende «della unificazione politica italiana ed alle connesse ripercussioni economiche sulle regioni meridionali del paese». Considerazioni, queste, che anticipavano quelli che sono stati gli sviluppi interni alla Cee, tra le sue varie regioni ed in particolare rispetto all'Europa del Sud, e gli sviluppi che hanno assunto i rapporti tra la Cee e le regioni del Sud e del Mediterraneo in particolare. L'ipotesi imperiale, cioè di una Europa che concepisse il rapporto di concorrenza con le altre due grandi potenze industriali (Usa e Giappone) in termini di imitazione del loro ruolo mondiale, tra cui la creazione di vaste zone di dominio neo-coloniale, sembra confermata da una serie di recenti indagini. La Relazione in merito alla «Politica mediterranea della Comunità europea» (Relazione Amato), elaborata per conto del Comitato economico e sociale delle Comunità europee (Bruxelles, 26 giugno 1989), conferma con una accurata documentazione che «dopo più di un decennio di questa politica, gli obiettivi che essa si era posta sono ben lontani dall'essere stati raggiunti ed anzi, per certi versi, sono diventati più lontani». Recuperando un importante dibattito sui modelli di sviluppo, che la retorica liberista e del mercato degli ultimi anni ha in parte oscurato, la Relazione conclude che ogni tentativo di estendere o esportare il modello di sviluppo industriale nei paesi mediterranei e del terzo mondo oltre ad essere irrealistico è indesiderabile. La rilevanza di questo problema si è manifestata nei recenti dibattiti nella Cee intorno al problema della «dimensione sociale» e del «dumping sociale». Il concetto di «dumping sociale» ha infatti trovato una strana elaborazione che riflette il pensiero dei paesi «forti» della Comunità su questo problema. Il «dumping sociale»viene definito come il rischio che i paesi meno sviluppati della Comunità (Grecia, Portogallo, Spagna e Italia) possano esportare verso altri paesi prodotti agricoli o industriali a prezzi competitivi con quelli, ad esempio, della Germania o dell'Olanda, servendosi del minor costo del lavoro in questi paesi. È ben noto che i paesi «forti» della Comunità (Germania, Francia, Olanda, ecc.) invadono i mercati degli altri paesi con prodotti a basso costo grazie al loro vantaggio relativo dovuto all'abbondanza di capitale e di tecnologie avanzate. Avviene così, per ragioni misteriose, che un modello di sviluppo e un sistema industriale che, in base a scelte proprie di razionalità, impieghi un sistema di produzione ad alta intensità di capitale, venga definito come competitivo ed efficiente, mentre un altro sistema industriale che per ovvie e legittime ragioni dia priorità a un sistema di produzione basato su una più alta intensità di manodopera, venga giudicato inefficiente ed accusato di praticare concorrenza sleale. Insomma, il dumping tecnologico dei paesi «forti» è buono, quello della mano d'opera e

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