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Andrea Costa

Ai miei amici di Romagna

La Plebe, n. 30, 3 agosto 1879

Miei cari amici, fin da che uscii dal carcere di Parigi e potei ritornare a me stesso e parlare e scrivere liberamente, pensai di rivolgervi alcune parole, che vi dimostrassero come io, nonostante la lunga separazione e le pratiche diverse della vita e gli avvenimenti, era pur sempre vostro e non domandava di meglio che di riprendere con voi l’opera della nostra comune emancipazione; ma le poche notizie che aveva del movimento attuale italiano, le tristi condizioni di buona parte dei nostri amici e un po’ anche il mio stato di salute, mi trattennero dallo scrivervi. [...] Miei cari amici! Noi ci troviamo, parmi, alla vigilia di un rinnovamento. Noi sentiamo tutti o quasi tutti che ciò che abbiam fatto fino ad ora non basta più a soddisfare né la nostra attività, né quel bisogno di movimento senza cui un partito non esiste: noi sentiamo insomma che dobbiamo rinnovarci o che i frutti del lavoro che abbiam fatto fin qui saran raccolti da altri. Io sono ben lungi dal negare il passato. Ciò che facemmo ebbe la sua ragion d’essere; ma se noi non ci svolgessimo, se non offrissimo maggior spazio alla nostra attività, se non tenessimo conto delle lezioni che l’esperienza di sette od otto anni ci ha date, noi ci fossilizzeremmo: noi potremmo fare oggi a noi stessi le medesime accuse che facevamo ai Mazziniani nel ‘71 e nel ‘72. Quando non si va avanti, si va necessariamente indietro: io credo che noi vogliamo tutti andare avanti.
Noi facemmo quello che dovevamo fare. Trovandoci da un lato tra un idealismo stantìo (il Mazzinianesimo) che senza tener conto dei postulati della scienza metteva la ragion d’essere dei diritti e della nobiltà dell’uomo non nell’uomo stesso, ma al di fuori di lui -in Dio-; trovandoci dall’altro tra un partito d’azione generoso, ma cieco e senza idee determinate, vagante dalle elevate concezioni della democrazia alla dittatura militare, (dei partiti governativi e del clericale non parlo perché sono fuori di discussione), noi rivelammo energicamente ed affermammo la forza viva del secolo -la classe operaia; ma senza racchiudervi in uno stretto cerchio di casta, voi accettaste il concorso fraterno di quella piccola parte della borghesia, di quei giovani soprattutto, che, i privilegi della loro classe, essendo loro odiosi, si mescolarono fra di voi, e vi sostennero coi mezzi medesimi che la borghesia loro aveva dati, aprendo ad essi l’adito alla scienza. Nel tempo stesso che noi affermavamo l’emancipazione dei lavoratori (cioè coloro che producono cose utili), noi sollevammo ed agitammo tutte le questioni che vi si riferiscono: proprietà, famiglia, stato, religione, dando ad esse una soluzione in armonia con la scienza e con la rivoluzione. Oltre a ciò noi non negammo le tradizioni rivoluzionarie del popolo italiano e soprattutto quel principio che inspirava fin dal ‘57 i nostri eroici precursori della spedizione di Sapri, la propagazione delle idee per mezzo dei fatti. Donde, il lavoro che facemmo contemporaneamente: lavoro di svolgimento intellettuale e morale per mezzo delle conferenze, dei giornali, dei congressi e tentativi rivoluzionarii per abituare il popolo alla resistenza e propagare colla evidenza dei fatti le idee ed ove fosse possibile attuarle.
Ma i tentativi di rivoluzione falliti avendoci privati per anni interi della libertà, o avendoci condannati all’esilio, noi ci disavvezzammo disgraziatamente dalle lotte quotidiane e dalla pratica della vita reale: noi ci racchiudemmo troppo in noi stessi e ci preoccupammo assai più della logica delle nostre idee e della composizione di un programma rivoluzionario che ci sforzammo di attuare senza indugio, anziché dello studio delle condizioni economiche e morali del popolo e de’ suoi bisogni sentiti ed immediati. Noi trascurammo così fatalmente molte manifestazioni della vita, noi non ci mescolammo abbastanza al popolo e quando, spinti da un impulso generoso, noi abbiamo tentato d’innalzare la bandiera della rivolta, il popolo non ci ha capiti, e ci ha lasciati soli.
Che le lezioni dell’esperienza ci approfittino. Compiamo ora ciò che rimase interrotto. Rituffiamoci nel popolo e ritempriamo in esso le forze nostre...
Noi dobbiamo fare assai più di quel che facemmo sino ad ora; ma in sostanza dobbiamo restare quel che fummo: un partito di azione. [...] Ma essere un partito d’azione non significa voler l’azione ad ogni costo e ad ogni momento. La rivoluzione è una cosa seria. [...] Un partito deve comporsi di elementi diversi che si compiano a vicenda. Ed un partito come il nostro che si propone di affrettare la trasformazione inevitabile delle condizioni sociali e dell’uomo -che s’inspira alla scienza- che non vede limiti al suo svolgimento - che non si occupa solo degli interessi economici del popolo, ma vuole soddisfatte tutte le sue facoltà intellettuali e morali, oltre al proletariato -uomini e donne- deve necessariamente comporsi della gioventù, dei pensatori e delle donne della borghesia a cui l’attuale stato di cose riesce odioso e che desiderano maggiore giustizia nei rapporti sociali: esso deve infondere nell’uomo uno spirito nuovo e -per quanto lo permettono le tristi condizioni sociali in cui viviamo e la cattiva educazione che abbiamo tutti ricevuta- dare a’ suoi membri quella forza e quella vita morale che li renderà un esempio vivente di vita nuova.
Non pensiamo che basti gettare al popolo il grido del «Pane!» per sollevarlo. Il popolo è di natura sua idealista (il Lazzaretti ce l’ha provato) e non si solleverà se non quando le idee socialistiche abbiano per lui il prestigio e la forza di attrazione che ebbe un tempo la fede religiosa.
Ma verrà tempo di occuparci come conviene anche delle questioni morali. Ora ne abbiamo altre che ci stringono più da vicino.
La rivoluzione è inevitabile; ma l’esperienza ci ha, credo, dimostrato che non è affare né di un giorno né di un anno. Perciò, aspettando e provocando il suo avvenimento fatale, cerchiamo quale è il programma generale intorno a cui si raccolgono tutte le forze vive e progressive della generazione nostra. Questo programma è, secondo me: il Collettivismo come mezzo, l’Anarchia come fine -programma d’oggi, che fu il nostro programma d’ieri. Intorno al Collettivismo si raccolgono oggi non solamente gli operai italiani che si occupano della loro emancipazione, ma la maggioranza degli operai francesi, belgi, spagnuoli, tedeschi, danesi e gran parte dei nichilisti russi. Non solo, ma il suo avvenimento inevitabile è così evidente, che dei pensatori usciti dalla borghesia, degli economisti, dei professori all’università di ogni nazione lo accettano a fondamento inevitabile del riordinamento sociale.
L’accomunamento della terra e degli strumenti da lavoro avrà per conseguenza necessaria l’accomunamento dei prodotti del lavoro; e quando questo accomunamento abbia luogo, ogni legge che regoli i rapporti fra gli uomini deve necessariamente sparire giacché e l’abbondanza della produzione e la nuova educazione, che le nuove condizioni sociali e la pratica della solidarietà umana daranno all’uomo, le renderanno inutili. Allora potrà attuarsi quel comunismo anarchico che oggi apparisce come il più perfetto ordinamento sociale. Ma per noi non si tratta solamente di proporre un ideale lontano che fra qualche anno forse potrà sparire offuscato da un ideale ancor più luminoso. Per noi si tratta di sceglierci un programma immediatamente attuabile, e questo crediamo di trovarlo nel collettivismo considerato come fondamento economico della società e nella federazione dei comuni autonomi considerata come organamento politico. Giacché la rivoluzione si compierà e non potrà compiersi che in condizioni economiche e morali relativamente all’avvenire assai tristi e non attuerà immediatamente, se non ciò che la maggioranza avrà dentro. Onde la necessità di un ordinamento interno. Quanto tempo questo abbia a durare, non so; ma esso si trasformerà ogni qualvolta ne sarà sentito il bisogno e si andranno man mano scoprendo le leggi dei rapporti sociali, giacché i fenomeni sociali come i naturali avvengono secondo leggi determinate, che non s’inventano né si decretano ma si scoprono; e l’uomo naturalmente -senza violenza alcuna- vi si uniformerà come si uniforma oggi alle leggi della gravitazione.
Il programma largo ed umano che mi sforzai di tracciarvi è oggi sostenuto dalla maggior parte de’ socialisti; ed io spero che sarà accettato da tutti coloro che non vogliono chiudersi la via ad un’azione efficace sul loro secolo e sul loro paese. Or mi resterebbe a dirvi quali mezzi pratici io penso che si debbano mettere in opera per farci sempre più largo tra il popolo, quale condotta dobbiamo tenere, sia verso il governo, sia verso gli altri partiti politici e quale importanza daremo alle riforme politiche, nella speranza delle quali si culla oggi gran parte del popolo italiano; ma la mia lettera è già troppo lunga; ed io spero che tali questioni le risolveremo insieme in un Congresso che si terrà quando che sia. Per ora, secondo me, la cosa più importante da farsi è quella di ricostituire il Partito socialista rivoluzionario italiano, che continuerà l’opera incominciata dall’Internazionale e che, federandosi o prima o poi coi partiti simili esistenti negli altri paesi, ristabilirà su basi solide la Internazionale, ora dappertutto in isfacelo. L’Internazionale -come esistè fino ad ora- rappresentò un momento storico della vita delle plebi; ma non potrebbe rappresentare tutta la loro vita: noi non abbandoneremo per altro il nome dell’Internazionale; ma vogliamo che non sia un semplice spauracchio, si bene che si fondi sull’organamento solido de’ partiti socialistici esistenti ne’ paesi diversi.
Questo, amici miei, è quanto doveva dirvi. Come vedete, non si tratta di rigettare il nostro passato, di cui, nonostante le sventure e i molti disinganni sofferti, possiamo per sempre andar fieri: né di cessar di essere quel che fummo; si tratta solamente di far di più e di far meglio. L’Internazionale ha fatto molto in Italia. Pensate a quel che eravamo sette od otto anni fa e a qual punto siamo ora, e vedrete. [...] Coraggio adunque ! Pensate quanti tentativi falliti prima che l’indipendenza d’Italia si compisse; e non isgomentiamoci se fino ad ora non ottenemmo tutto quello che avremmo voluto. Prepariamoci ad ottenere maggiormente. Grande compito è il nostro, o amici; e il momento di attendervi è propizio. Il movimento di pacificazione fra le diverse fazioni di socialisti, incominciato al Congresso di Gand, si va operando, grazie sopratutto alle persecuzioni internazionali dei governi. I vari partiti socialistici desistono dalle loro pretensioni assolute e, in luogo di cercare la divisione, si cerca dappertutto il contatto fraterno perchè si sente che s’avvicina un tempo in cui dovremo disporre di tutte le forze nostre. Gli uomini, conosciutisi meglio, cominciano a stimarsi; e, se non vanno compiutamente d’accordo, non ricomincieranno giammai le polemiche dolorose degli anni passati. Le idee e il sentimento umano che si svolge ogni giorno più in noi ci animano alla lotta.
All’opera dunque! All’opera!
[...] Il vostro Andrea Costa

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