Alfabeta - anno X - n. 112 - settembre 1988

pagina 34 Saggi Alfabeta 112 o eventoGelsenso? Il testo che segue riproduce la seconda metà della conferenza di Karl - Otto Ape/ pronunciata al convegno internazionale Ermeneutica e filosofia pratica (Catania, Facoltà di Magistero, 8-10 ottobre 1987). Ringraziamo Anna Escher Di Stefano, organizzatrice del convegno e traduttrice del testo, per averne autorizzato la pubblicazione anticipata rispetto agli Atti. U na singolare e secondo me deplorevole conseguenza dell'ermeneutica post heideggeriana -sembra consistere nella recente e totale caduta dell'interesse nei confronti delle fatiche decennali spese a distinguere e a connettere accuratamente i possibili metodi consegùiti, nonché i problemi e gli interessi che stanno a fondamento di quei metodi. Da un lato si tende a interpretare i metodi ermeneutici, insieme a tutti gli altri metodi scientifici, al logos cartesiano del Gestell (Heidegger) e ad assoggettarli, insieme alla «metafisica logocentrica», alla «decostruzione». Dall'altro lato, specialmente dopo la ricezione anglosassone di Heidegger e di Gadamer e dopo la «New Philosophy of Science» post-kuhniana, si inclina a estendere positivamente la nozione di ermeneutica alle metodologia di tutte le scienze. Come era già avvenuto col programma della scienza unificata nomologica, anche qui si trascura la distinzione capitale tra una forma di conoscenza scientifica, i cui presupposti ermeneutici riguardano soltanto il lato soggettivo - cioè la pre-comprensione esistente nella comunità degli scienziati - e le scienze realmente ermeneutiche, che presuppongono un rapporto comunicativo con il loro oggetto e perciò devono presupporre e comprendere la lingua, le intenzioni, le convenzioni, le tradizioni, la comprensione, la pre-comprensione ecc., in quanto appartenenti a lato dell'oggetto o, meglio del sogge(to-oggetto. Oggi si·è d'accordo almeno su questi punti, che ormai in tutte le scienze si dovrebbe operare un ridimensionamento degli antichi ideali dell'obiettività, della capacità di progredire illimitatamente e di giungere alla verità, un ridimensionamento che prima si riteneva inevitabile soltanto per le scienze spirituali o Humanities affini all'arte. La tendenza di oggi alla de-differenziazione o addirittura alla obsolescenza dell'epistemologia e della teoria della scienza all'insegna di una panermeneutica, non è secondo me di grande aiuto. Pertanto preferirei tener fermo ai risultati di differenziazioni compiute in passato e soprattutto al ricorso - sul piano dell'antropologia della conoscenza e nella dimensione pragmatica-trascendentale - a diversi problemi umani e ai differenti interessi che orientano il conoscere, che di quei problemi stanno a fondamento. In-questo contesto posso solo soffermarmi brevemente su di un tipo peculiare di scienze socio-psicologiche, in cui i metodi ermeneutici debbono essere mediati con i metodi di spiegazione funzionale, ma non, come avviene per le scienze sociali che comportano l'applicazione di tecnologie sociali, nel senso che il comprendere si metta al servizio della spiegazione nomologica e della previsione ma, al contrario, nel senso, che la spiegazione causale e funzionale di rapporti di determinazione più o meno inconscia o coattiva si mette al servizio dell'approfondimento della comprensione ermeneutica, e dunque della comuhicazione umana e della comprensione di sé. Indubbiamente, le difficoltà metodologiche in questi campi sono ancora molto più grandi che nei campi classici delle scienze della natura o dello spirito. Inoltre, i modelli finora sviluppati della mediazione del comprendere e dello spiegare di cui si parlava (psicoanalisi e critica dell'ideologia marxista o neo-marxista) sono tutt'altro che esenti da difficoltà e problemi. Ciò ha indotto sia all'esaurimento o al discredito dell'intero progetto, sia a un allargamento e a una ulteriore differenziazione di esso, per esempio nel senso d'una distinzione e mediazione delle scienze ermeneutiche e critiche, che ricostruiscono razionalmente le competenze umane da un lato e dall'altro, delle teorie funzionali dei sistemi. Ma per quanto intricato e complesso sia il modo in cui si sono sviluppate le scienze umane, mi sembra che sia tuttavia incontestabile che sia interesse della ragione pratica Kart - Otto Ape/ rendere intelligibili le condizioni complesse dell'integrazione e della evoluzione sociale non comunicative a un gx:ado tale che agli uomini resti una possibilità di intendersi tra loro sui sistemi e le istituzioni sociali, talché essi mantengano, nei confronti di questi sistemi e istituzioni, l'iniziativa dell'agire politico retto da una responsabilità collettiva e solidale. Naturalmente non ci può aspettare che le scienze che possono esser poste al servizio della comprensione ermeneutica rendano totalmente trasparenti i rapporti umani. Ma questo non vuol dire che le impostazioni metodiche da mediarsi non possano essere sussunte all'idea regolativa dell'approfondimento della comprensione di sé dell'uomo, e quindi della possibilità dell'azione solidale. Questo che ho detto da ultimo vale, secondo me, in modo particolare anche per le conquiste quanto mai ambivalenti della semiotica strutturalistica e post-strutturalistica, se la si considera dal punto di vista di una semiotica ermeneuticotrascendentale. Anche qui ritengo che si tratti di far luce su strutture e processi anonimi, dunque non immediatamente interpretabili come intenzionali. Queste strutture e questi processi delimitano, prima facie, la trasparenza possibile Personaggio ispirato da George Grosz; foto di Vasco Ascolini della comprensione di sé dell'uomo e dell'intesa comunicativa. Ma il discorso provocatorio sulla «fine dell'uomo», che viene fatto da quelli che teorizzano la determinazione dei rapporti umani da parte di strutture e processi anonimi, risulta a priori paradossale già nelle loro stesse formulazioni. In_quanto in generale le loro ricerche producano risultati validi, di esse può dirsi quel che s'era detto dei risultati della psicoanalisi e aella teoria dei sistemi: risultati validi possono in generale avere un senso come estensione e approfondimento indiretti della comprensione di sé dell'uomo e dell'intesa comunicativa mediante l'agire imputabile. In questo senso si può per esempio concedere, con Peirce e Derrida, che i processi cognitivi umani, in quanto processi di interpretazione di segni mediati da segni siano empiricamente infiniti e sottostanno, a cagione della differenza costitutiva del senso tra il singolo atto d'uso dei segni ed il modello iterabile della forma significante, a un eterno giuoco di dislocazione differenziale del senso ( diff érence) e alla dissémination. Nondimeno da ciò non consegue che i processi ermeneuticamente rilevanti dell'interpretazione dei segni, secondo i loro presupposti metodici, possono sottostare all' «idea regolativa» di un «significato trascendentale», o di un ultimate logica/ interpretant, come direbbe Peirce. Anzi, nonostante l'asserzione in certo qual modo semiologistica di Derrida, un'intesa intersoggettivamente valida sul «significato trascendentale» deve essere non soltanto possibile, ma anche già sempre reale; non sarebbe concepibile senza questo presupposto trascendentale-ermeneutico infatti neppure il punto di vista evidentemente rivendicato da Derrida relativamente alla différence e alla dissémination dei signifiants. Anche Derrida non può pensare come signifié, e dunque ricondurre alla présence logocentrica, almeno la diff érence dei signifiants. Con queste ultime osservazioni, e con la polemica contro la critica non argomentata di Gadamer della filosofia della riflessione, io, in certo qual modo, da filosofo pedante, voglio attenermi al principio di non contraddizione performativa, quale limite d'ogni possibile critica della ragione o «decostruzione del logos». Da questo principio risulta anche il punto di partenza del mio tentativo di definire il logos dell'ermeneutica. Tentativo di definire il logos di un'ermeneutica normativa e critica In questo tentativo, che non può non limitarsi all'esposizione di alcune tesi, parto da un presupposto, del quale di solito provo l'irriducibilità nell'ambito d'una filosofia trascendentale trasformata semioticamente, ovvero adattata al piano d'una linguistica pragmatica mediante una fondazione riflessiva ultima. In questo contesto debbo limitarmi a una semplice asserzione di questo presupposto, che contrappongo, come punto di partenza, all'ermeneuticismo relativistico e storicistico, nonché al semioticismo decostruttivo. Tesi 1. Nell'amb_ito di una filosofia trascendentalesemioticamente trasformata, per logos non si deve intendere il relativistico logos del Gestell, che Heidegger e Derrida hanno criticato con qualche buon argomento, ossia il logos della relazione soggetto-oggetto, peculiare del modo tecnicoscientifico di render disponibile il mondo, ma il logos più esteso dell'intesa intersoggettiva, comunicativa-linguistica, sulle pretese di valore. Di codesto logos del linguaggio deve presupporsi che non sia riducibile a risultato contingente della maturazione dell'essere - o della storia dell'essere - poiché è tale logos che solo rende possibili enunciati validi intorno alla storia dell'essere. Si ritorce quindi al rimprovero heideggeriano dell'oblio dell'essere il rimprovero dell'oblio del logos. Tesi 2. Quali presupposti del logos del linguaggio, che non è possibile contestare senza incorrere in una contraddizione performativa, si possono addurre esattamente quattro istanze universali di validità, che si suppone siano in linea di principio soddisfacibili, motivabili sul piano del discorso argomentativo, sul quale i filosofi che argomentano si sono sempre mossi: 1) Esiste un senso che è esprimibile nel linguaggio e che, pertanto, è intersoggettivo; 2) gli enunciati proposizionali hanno una verità che può esser condivisa da un consenso intersoggettivo; 3) l'espressione linguistica degli stati intenzionali del soggetto può esser veridica o sincera (la prova della veridicità non dipende da argomenti ma da comportamenti); 4) gli atti linguistici, in quanto siano atti comunicativi con intento appellativo, possono essere giusti (in senso normativo) o, in ultima analisi, giustificabili eticamente. Tale giustezza pretendono implicitamente d'averla anche gli atti affermativi. Tesi 3. Sulla necessità d'ammettere questi presupposti universali del discorso argomentativo - e non per esempio sull' «accordo» di fatto riguardo a presupposti impliciti e contingenti dell' «essere-nel-mondo» oppure del «mondo della vita» preriflessivi - può e deve esistere già sempre, in una ermeneutica filosofica, un «accordo» non revocabile. In questa tesi è contenuto il passo decisivo in direzione d'una «ri-trascendentalizzazione» dell'ermeneutica filo_sofica, che può, secondo me, evitarle di cader vittima dello storicismo-relativismo dell' ermeneuticismo post-heideggeriano. Occorre qui re1;1dersiconto del fatto che la celebre

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