Alfabeta 112 I pacchetti di Alfabeta pagina 11 cerca di New York Thomas Bender New York lntellect: A History of Intellectual Life in New York City From 1750 To the Beginnings of Our Time Knopf, New York, 1987 In Search of New York Special Issue of «Dissent» Fall 1987 C' è sempre una moda nuova, un film nuovo o una chitarra nuova a New York, questo perfetto continente di entusiasmi metropolitani e di visioni apocalittiche a portata di mano. Un posto difficile da definire, New York, in realtà, fa pensare a un amalgama di moderno e di postmoderno, per metà città storica nutrita da ondate di emigranti, per metà territorio post-industriale dominato dal consumo sinestetico. Croce e delizia dello storico, una speciale giovinezza sembra contraddistinguerla, tanto che, malgrado lo spettacolo sempre mutante delle sue rovine, una bancarotta o una fine, tante volte annunciata, non sembra mai venire; semmai tutto pare riprodursi al sicuro sotto il cielo dell'implosione. Ultimamente però sono in molti a interrogarsi sul destino storico della città e sul futuro che le si prospetta nel momento di un certo declino del boom urbano-spettacolare: è un coro di storici della cultura, romanzieri, sociologi, intellettuali militanti. Thomas Bender, storico della città e direttore del Dipartimento di Storia alla New York University, ha appena pubblicato un libro intitolato New York Intellect, ovvero, recita il sottotitolo, Una storia della vita intellettuale a New York, dal 1750 agli inizi del nostro tempo. Il titolo richiama il carattere di città della conoscenza, di realtà policentrica produttrice di idee e di «esperienze». McLuhan negli anni sessanta aveva parlato di Information City, e Daniel Beli nei settanta con la sua Knowledge City dava ormai per scontato il passaggio da un centro produttore di beni a uno di servizi e di sensazioni. Apprendiamo ancora come sia improprio parlare veramente di «intellettuali di New York», se non a partire dalla generazione democratica del 1840 e dintorni, o solo verso la fine del secolo. L'essenza culturale di New York nasce per Bender alla confluenza di tre principali modelli urbani di derivazione europea. È a partire da questa complessità che New York gioca la partita della sua diversità. Lo storico non fa mistero della posta in gioco: «Finché non saremo capaci di individuare le tradizioni intellettuali della nostra città capitale, resteremo vulnerabili al mito dell'Europa, dimostrandoci così provinciali e perfino ridicoli, non appena ci mettiamo a chiarire i termini della nostra vita intellettuale.» Il primo modello della vecchia New York coloniale e patrizia è la Edimburgo dell'Illuminismo inglese, la città di David Hume, Adam Smith e più tardi di Walter Scott. È essenzialmente una città provinciale, ancora ricalcata sulla New Amsterdam degli olandesi e unicamente occupata nei fortunati scambi commerciali; più provinciale di Boston e Philadelphia, dove la religione • ha giocato un ruolo importante nella formazione di una comunità e di una cultura urbana. Ecco quanto si legge su un giornale del 1749: «Questa Provincia, più d'ogni altra, ha sentito le miserie dell'ignorsinza, ed esse rimangono ancora la nostra preoccupazione più amara. Una sordida sete di denaro domina la vita della nostra popolazione.» È quasi una eco profetica di quello che, un secolo dopo, sarà il mercato come palcoscenico descritto da Melville ne L'uomo di fiducia, o la vita squallida nello studio legale dell'avvocato-narratore di Wall Street in Bartleby. In un momento in cui élites politiche e culturali sono praticamenPaolo Spedicato te la stessa cosa, una cultura all'insegna del pragmatismo borghese fa sorgere la Società per l'avanzamento di una cultura utile, fondata dall'illuminato William Livingston, per venire peraltro subito tacciata dal vecchio establishment inglese come covo di atei e di framassoni. Nel 1754 viene fondato King's College (la futura Columbia Unversity), che per decenni rimane piuttosto oscura all'interno degli equilibri culturali. Ma intorno al 1790 fiorisce il Friendly Club, archetipo fra le consorterie letterarie attraverso il tempo e primo esempio nella formazione di una cultura urbana laica e progressista alla Jefferson. Mentre la città e il paese escono orgogliosamente dalla guerra rivoluzionaria, si afferma una «cultura civica» fatta di «scienza elegante e utile» e di spirito di intrapresa letteraria emancipatrice. Costante fenomeno e nemico da abbattere rimane «il fatale avanzamento del demonio della speculazione», nelle parole del fondatore del Friendly Club. È a partire circa dal 1840 che il vecchio modello culturale è messo in crisi da spinte politiche nuove sotto la presidenza Jackson e da un orientamento più letteracolo, e Bender ci racconterà la storia della città secondo la terza tipologia, quella di una «cultura accademica». I I confronto con l'urbanesimo parigino ed europeo obbliga del resto a riconoscere l'impoverimento della cultura pubblica e il dilettantismo dei letterati. Al ritorno da un periodo di tre anni in Francia, William Brownell stigmatizzerà «l'individualismo senza carattere» di fondo e una «rumorosa diversità» senza alcun «effetto d'insieme». E ancora, (sembra quasi anticipato uno sguardo trasversale alla Baudrillard): «Non esiste una New York palpabile alla maniera di Parigi, Vienna o Milano. Non puoi toccarla da nessuna parte. Non è neanche oculare. Esiste invece una Fifth Avenue, una Broadway, un Centrai Park, una Chatham Square». La risposta allo stagnare della cultura sta, all'inizio del nuovo secolo, nel modernismo dei «giovani intellettuali». Pi:endendo le distanze dalla cultura ancora troppo anglo-sassone della generazione precedente e forti dell'influenza di·· grandi maestri, i filosofi Santayana, William James e Dewey, autentici critici miliDanza dell'oro e dell'argento, su musiche di Georg Friedrich Hiindel; foto di Alfonso Zirpoli rio nella cultura. È il modello di Parigi a cui si guarda, con il suo distinto carattere di città degli artisti e degli scrittori. Nasce il «Knickerbocker Magazine» esponente di un gusto letterario raffinato, ma la vera novità, sotto forma di un manipolo di intellettuali liberi e consapevoli, è il gruppo che si autodefinisce «Giovane America». È l'epoca «del corvo e della balena», come l'ha suggestivamente definita Perry Miller; la generazione di Edgar Allan Poe, di Herman Melville, i cui capolavori, Il corvo e il secondo volume di racconti, e Moby Dick escono a New York rispettivamente nel 1845 e 1851; ma anche di Whitman, e in parte Longfellow e Hawthorne, tutti collaboratori della «Democratic Review» fondata da John O'Sullivan e organo dell'ala sinistra dei democratici e del movimento per l'uguaglianza dei diritti, il rifiuto della schiavitù e l'opposizione ai monopoli. Sulla rivista si può leggere: «Lo spirito della letteratura e lo spirito della democrazia sono una cosa sola». E intanto si comincia a sprovincializzare pubblicando Honoré de Balzac. Dopo la guerra civile però, specie negli anni ottanta, un vasto senso di fallimento scaturisce dal percepire la fine di una certa «innocenza americana» e dal constatare che l'essere il centro nazionale della cultura risiedesse non tanto nella effettiva portata dei suoi scrittori, né nella qualità e autorevolezza della vita accademica, bensì nell'aspetto pratico e commerciale della «cultura letteraria» e dell'industria editoriale. Di Il a poco le menti riformatrici cominceranno a guardare al modello universitario tedesco e alla Berlino della fine setanti quali Croly, Lippman e Bourne, lavorano ad affermare una cultura essenzialmente metropolitana e democratica. Scrivono sulle colonne della «New Republic», fondata nel 1914, e ancora- oggi autorevole settimanale politico-culturale. Nonostante contraddizioni e contrasti, specie in occasione dell'entrata americana nella guerra mondiale, il giornale rimane l'interprete impegnato della doppia anima nazionale, idealista e pragmatica.- Nasce negli stessi anni e si consolida la bohème culturale del Greenwich Village nel triangolo tra le piazze Washington, Tomkins e Union. Sconosciuta in centri come Boston, fa capolino l'avanguardia storica e il Dada newyorkese con le prime imprese visivo-concettuali di Stieglitz e Duchamp. E se nel caso di Chicago assistiamo a un revival tutto locale di poeti, è alla figura del critico e alla forma del saggio che a New York si affidano le discussioni e le polemiche. Nutriti di filosofia, i giovani intellettuali, e Bourne più di tutti, rappresentano il più lucido contributo al superamento dei valori della società anglo-sassone e del provincialismo locale. Sono tra i primi a legare New York al destino cosmopolita di capitale mondiale del ventesimo secolo, nonché di un'America «transnazionale». Nell'altalena dei corsi e dei ricorsi, gli anni venti, accanto al proliferare di un diffuso formalismo letterario (Dorothy Parker è arbiter elegantiarum e regina del pettegolezzo ali'Algonquin Hotel), vedono la penetràzione della psicanalisi, che finisce o volgarizzata in certe riviste alla moda o per lo più medicalizzata (fino a oggi) dagli analisti di Centrai Park West. Nella progressiva frammentazione delle conventicole e delle voci sul tessuto della metropoli, un manipolo di giovani accademici fra cui Lione} Trilling, Richard Hofstadter e C. Wright Mills ripropongono con forza il potere delle idee, senza ghettizzarsi nella specializzazione, anzi a proprio. agio sia nelle aule universitarie di Columbia uptown sia negli ambienti artistici del downtown. A essi si affiancano il gruppo marxista della «Partisan Review» e i progressisti di «New Republic» e «The Nation», e la grande lezione modernista-marxista del decano dei critici Edmund Wilson. Il romanzo di questa città della conoscenza continua e si chiude, per ora, non in nome della cultura della parola, ma dell'immagi~ ne e del suono; cioè, non a opera degli «intellettuali di New York», ma di critici e t~orici dell'arte, di compositori, coreografi e pittori. A essi, non ad altri, New York deve soprattutto il suo destino di capitale internazionale •della cultura nel secondo dopoguerra: a Virgil Thomson, Aaron Copland, Elliot Carter e Paul Robeson per la musica, il balletto, la critica musicale; al genio di George Balanchine per la danza moderna; a James Agee e Walker Evans per la fotografia; a Lewis Mumford per la critica dell'architettura e all'lnternational Style in generale; agli espressionisti astratti nel Village esistenzialista e marginale. Con i Balanchine, i Pollock, i Cage.New York ha celebrato la libertà, l'energia fresca e nervosa, tutta americana, della stagione astrattista. Rimangono però ombre e lasciti da scontare. La «retorica della libertà», dopo aver affrontato il tempo dei fascismi europei, si dimostra funzionale alla definizione della guerra fredda e dell'imperialismo formato America. Il fiorire delle arti astrat-. te sostituisce l'inarticolatezza delle parole e delle idee all'indomani degli orrori bellici, politici e della bomba, e così gli intellettuali accettano l'isolamento universitario e la cultura fa proprio il linguaggio della specializzazione. In più, sottolinea Bender, è proprio dal mancato incontro tra partito della parola e partito dell'occhio e dell'orecchio, tra letterati e artisti, che deriva lo scacco più grave per la cultura umanistica della metropoli. La conversazione metropolitana cede il passo alla divisione delle conventicole intellettuali di destra e di sinistra e alla babele delle mafie letterarie. Cosa resta del progetto di una cultura della metropoli democratica avanzato dalle menti migliori del Novecento? Vivisezionando il mito di capitale della cultura, quanto d'impostura e quanto di reale prospettiva di novità e progresso riusciamo a vedere? Non tanto produttrice di arte e di idee, bensì teatro del loro «consumo come moda», New York oggi rischia continuamente di diventare il museo di se stessa. L'ultimo numero di «Dissent» tutto dedicato «Alla ricerca di New York» è occasione, a parte la rilettura storica, per un sofferto esame di coscienza tra intellettuali e per una denuncia dell'intera classe dirigente della città, nell'epoca della politica-spettacolo e di una delle più forsennate speculazioni urbanistiche della sua storia, mentre il clima è quello di una «grigia e inquieta pace sociale» (Irving Howe) e la deprimente realtà della cultura civica «barcolla tra nichilismo sofisticato e recrudescenza di paure e rabbie razziali» (Marshall Berman). Questo destino di sparizione, questa dialettica di energia multi-culturale e di dissoluzione della sfera pubblica così incorporati con la storia della città potrebbero formare il capitolo di un libro sulla storia del1'eccesso. «Dentro la storia del capitalismo - scriveva qualche anno fa il critico d'arte inglese John Berger - Manhattan è l'isola riservata a quelli che sono dannati perché hanno sperato in eccesso.» Ma una speranza di segno diverso attende ancora di costruire la città degli uomini.
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