Alfabeta - anno X - n. 110/111 - lug./ago. 1988

Alf abeta 1101111 Mi chiedete un'anticipazione. Bene. Ho scritto questo racconto da più di vent'anni. È di quelli che ogni tanto rivivo mentalmente. Potrei datarlo ieri. Del resto, la concomitanza di tempo interiore e tempo esteriore può far sì che nella relazione temporale il poco e il molto assumano significato inverso. A furia di indagare nella loro implacabile essenzialità il passato, il presente e il futuro, che sono le direzioni del verbo in relazione al tempo e danno fondamento temporale all'azione narrativa; esercitandosi a condensare i mesi in poche parole e a dilatare i minuti in molte; a manipolare l'irreversibilità del tempo esteriore e la memoria, che è il tempo reversibile; a trasferire il presente nel passato e viceversa, il futuro nella memoria e viceversa; ad argomentare condiziona/mente il futuro del passato; facendo insomma queste cose letterarie e contemporaneamente facendo le altre cose quotidiane diverse dallo scrivere può accadere che la relazione temporale lètteraria travasi nel/'esistenza quotidiana, e se questo rende più intensa la faccenda d'esistere porta per certi aspetti a paradossali anticipazioni e posticipazioni. Ed ecco. Vado scrivendo storie da più di quarant'anni ma ho esordito tardivamente con Placida (Mondadori, 1983). Dopo di che il futuro ha ripreso il suo posto, portando con sé il passato e il presente: allora eccovi l'anticipazione di un racconto ventennale databile ieri che sarà pubblicato in volume nel 1990 dalle Edizioni Theoria e ha quel termine d'edizione perché sarà preceduto a settembre prossimo da un romanzo (AcqualadroneJ e successivamente da un libro (Sireine) di cui due episodi sono già apparsi su «Alfabeta» per virtù di quell'elasticità cronologica che fa ancora sì che la mia bibliografia sia parzialmente prossima ventura. E.V. Il Centauro ' E inverno e sto bussando per la seconda volta a una porta sotto la pioggia e sono fradicio. Non è nemmeno notte, è tarda sera, ma in un paese fra le montagne la sera invernale fa perdere il senso dell'orario, la sua solitudine sprofonda nella notte. Ho lasciato la macchina in una piazza di ciottoli e case pietrose: nei vicoli non passerebbe, quantunque piccola. E ho camminato sotto la pioggia lungo una quantità di vicoli, seguendo le vaghe indicazioni di un uomo in tuta, sola presenza nello squallore piovano, che si riparava sotto un balcone, e sbagliando molte volte, imprecando fra i denti. La pioggia mi scroscia addosso e scorre sull'impermeabile. Le mie dita stringono il manico della borsa e i piedi guazzano, fendono i torrentelli nei quali si trasformano i vicoli più ripidi. Il basco che porto è ormai un cencio inzuppato sul mio capo e la pioggia mi sbatte sulla faccia, mi gronda dentro il colletto della camicia. Quando capito sotto qualche lampione è come se altro liquido giallastro mi cadesse addosso mischiato alla pioggia. Laboratorio italiano 88/Letteratura E finalmente sto bussando a una porta. Una situazione da rospi. La pioggia, mentre aspetto che qualcuno apra, è perpendicolare e compatta intorno a me, deò"tro me. «Bene» dico poi. «Ho finito di tribolare.» «Sì» dice la donna. «Com'è tutto bagnato! Fra poco sarà asciutto e tranquillo.» Ci troviamo in un corridoio lungo e stretto, di pareti graffiate e scorticate. C'è un odore pessimo, indefinibile. Sento che in questa casa molte cose non girano per il verso giusto. La donna mi guida dentro una stanza che, a giudicare dal tavolo e dalla credenza che vedo alla luce lunare del televisore, dev'essere quella da pranzo. Seduti con le braccia appoggiate sul piano del tavolo stanno un ragazzo, una ragazza e un uomo anziano. Saluto, quasi non rispondono. C'è un giallo. La donna mi avvicina la sedia. «S'assittassi. Sta finennu.» (Un soffio di voce). «Preferirei coricarmi.» (Anche io sottovoce). «No» dice la donna, seguitando a parlare in un sussurro. «'U lettu è chiddu.» Scorgo una branda in un angolo, con sopra un materasso senza lenzuola né coperte. Maledico l'impianto elettrico della macchina, che mi ha piantato in questa strada dell'interno. «Capisco.» La donna è già seduta, i gomiti sul tavolo. Tutto va come se io non fossi arrivato. Mi accetteranno e mi accoglieranno alla fine del giallo. Non sono ancora reale, sono un presagio. Poso per terra la borsa e mi siedo. Ho brividi di freddo. Scopro un'altra sorgente di luce: è una stufa a gas. Sposto la sedia vicino la stufa e allungo le gambe. Le scarpe, vicino al radiatore, cominciano subito a mandar vapore. La dònna mi sta dicendo all'ingresso, mentre appendo l'impermeabile: «... n'autru morsu è beddu'sciuttu.» Ma mi tocca asciugarmi in parte per evaporazione e in parte per assorbimento. Me la sto asciugando addosso, la pioggia. Ma più tardi saprò che tutto questo, che pure è spiacevole, è in realtà nulla. O la piccola, ridicola parte di un tutto che ridicolo non è. E finalmente il nulla osta. «Adduma a' luci.» È l'uomo a parlare. Quando la ragazza fa luce è come se dentro vi fosse mescolata nebbia. Non una nebbia dentro la stanza, che alla luce tocchi dissipare, ma nebbia come qualità della luce: un rallentamento, una pigrizia della luce: l'impressione che la visibilità non venga nello stesso attimo del contatto elettrico, ma si veda arrivare la luce, come si vede arrivare una fòlata di polvere. La faccia non rasata dell'uomo porta un sorriso soddisfatto. «E chi se l'immaginava che l'assassino era quello.» Io no di certo. Mi si è inumidita anche l'immaginazione. Aspettavo solamente che si scoprisse una volta per tutte Vathek, 1908-1910 ca pagina 43 quel maledetto assassino e ogni tanto muovevo in giro lo sguardo per la stanza senza curiosità mentre la luce biancastra che avvolgeva le persone me le faceva sembrare morti resuscita ti. Di colpo ho la sensazione che sia l'uomo a venire verso di me, sì, ma sia la sedia a camminare. L'uomo viene verso,di me senza alzarsi dalla sedia. Possibile? Forse i miei brividi sono febbre. «Intrecciato coi fiocchi» dice l'uomo, adesso interamente apparso al di qua dello spigolo del tavolo che lo nascondeva, Un uomo piccolissimo, assai più piccolo di me, che sono di bassa statura. E allora vedo. L'uomo non ha gambe, Le sue gambe sono la sedia sulla quale sta posato e legato, Si ferma. «Sta guardando le mie gambe? Be', 'nveci i <lui n'haiu quattru.» Dal fitto della sua barba rantola una risata, Costui è un indovinello, penso alle sue parole. Invece di due gambe ne ha quattro e i muscoli delle sue gambe sono i muscoli delle sue braccia. L'uomo, infatti, fa compiere movimenti semicircolari alla sedia afferrandone i bordi e tirando avanti ora col braccio sinistro ora col destro. Si aiuta con torsioni del tronco. Serpeggia ma non è serpe, aggiungo all'indovinello. E l'amaro che ho nei pensieri mi passa nella gola, me la stringe. La donna sta apparecchiando il mio letto. È una donna non più giovane, dagli occhi splendidi sul volto spento. «Se la prende allegramente, lui» dice. «O si prende allegramente o ci si butta sotto il treno» dice l'uomo. «No, sotto il treno è impossibile. Manca la ferrovia, quassù, e mancano le gambe per arrivarci.» «Com'è successo?» E capisco che questa domanda la vuole. Dev'essere il suo modo di nascondersi, scoprendosi subito, a tutti i forestieri che arrivano per la prima (e forse i più per l'ultima) volta a dormire in casa sua. «M'è passato un carromatto carico di pietre sulle gambe. Ero bracciante, e quella volta dovevamo costruire un'armacia. Mi rompevo la schiena a furia di lavorare, non sognavo altro che di starmene seduto senza far niente ... » È facile capire cosa intende dire. Non c'è riuscito. Non sta né seduto né in piedi. Si gratta la guancia. «È stanco?» «Un poco.» «'A lassu 'npaci, nunca. Bonanotti.» No, non mi lascia in pace. Se ne va su semigiri di sedia. È come se a un centauro avessero asportato la parte equina, sostituendola con una protesi d'emergenza. «È pronto» dice la donna. «Adesso può dormire.»

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