Alfabeta - anno X - n. 108 - maggio 1988

pagina 28 lluo • M anchiamo di capolavori, manchiamo di corpi, manchiamo di massa. Siamo tutti edotti intorno alle condizioni necessarie perché un capolavoro si realizzi: critici, epistemologi, giudici, investigatori. Difficile dire se qualcuno. oggi, è in grado di fornire le condizioni sufficienti per la generazione delle singolarità, straordinarie, che continuano ad affascinarci. Al di là di tale irriducibile aporia della ragione giudicante, è ancora possibile riconoscere nell'eccedenza di un evento artistico, letterario o scientifico un'eccedenza di vita, un corpo in tensione che, sfidando la propria morte, ci porge il testimone e ci invita a rinnovare la fecondità della tradizione? Miche! Serres non ci chiede un'interpretazione o un giudizio, non intende offrire modelli o indicare percorsi di lettura; invita piuttosto il lettore a mettersi al lavoro, a partorire a sua volta un'opera che trasmetta pienezza di senso, la gioia traboccante in ogni produttore.' Non avvierò perciò qui una nuova esegesi, occasionalmente motivata dalla pubblicazione delle sue due ultime opere (non amo, peraltro, ripetere quanto già critto), ma tenterò di formulare - via Serres - interrogativi che si iscrivono nel dialogo - ricorrente anche nelle pagine di questa rivista - sul luogo della filosofia (e della produzione intellettuale in genere). Interrogativi appena nascenti, voci di una corporeità che è stata e che non è ancora e la cui pienezza risiede soprattutto nel silenzio. Dal solco del silenzio, dalla pietra e dalla morte, si è mosso l'itinerario della scrittura serresiana, che egli stesso ci rammemora. Il tentativo di dissolvere la referenza attraverso la comunicazione, l'interferenza, la traduzione, la distribuzione, ha consolidato un corpus, sotto la protezione furtiva di Hermes; ma la pratica conseguente dell'erranza transdisciplinare non è confluita in nessuna cartografia, la durezza bruta delle pietre (di quelle pietre stesse che si raccoglievano intorno agli altari di Hermes) non si è risolta nella dolcezza informazionale. Il senso della scrittura di Serres non trascende la sua testarda reiterazione del gesto, sordo alle lingue e alle culture dominanti, di rimuovere- come Hermes - le pietre, pesanti, per dischiudere la porta degli Inferi, di sollevare la «cosa» anadiòmene. Forzato della scrittura, novello Sisifo, caricatura ciarliera del saggio che non riesce a dominare le cose del mondo, sempre riemergenti nei problemi senza soluzione. E se gli scritti di Serres si prestavano - almeno fino al 19802 - a consonanze classificatorie, nel milieu composito dello stratturalismo e della semiologia, oggi la sua produzione, non cessando di stimolare entusiasmi sempre nuovi, viene tuttavia osservata con un'attrazione unita al sospetto che la ridondanza scada nella mera prolissità. Cercherò di render conto più avanti di questo comprensibile effetto di lettura. Per intanto tenterò di evocare qualche ricorrenza figurale e teoretica che annoda - da Genèse a Statues - i cinque libri fondativi di Serres. Nella selva dei pre-testi compaiono innanzitutto forti richiami: Genèse e L' Hermaphrodite non si reggerebbero senza il rinvio ai Récits philosophiques di Balzac (e segnatamente a Le Chefd'oeuvre inconnu e a Sarrasine), il tema della fondazione di Roma - desunto da Ab urbe condita di Tito Livio - ritorna, oltre che in Rome, in Genèse e in Statues, e si potrebbero elencare a lungo le preferenze letterarie, filosofiche, artistiche, religiose e mitologiche che si annodano ricorsivamente. ·si colgono pre-testi nuovi rispetto a quelli degli scritti precedenti. Ma una sinfonia non è semplice giustapposizione di note: il flusso dei motivi sorregge sempre l'elegante intreccio figurale. Ecco allora apparire un grafo possibile: dal primo al secondo libro balzachiano il motivo della precondizione dell'opera si muta in quello dell'inclusione e della sovrabbondanza, Afrodite diviene Ermafrodito, la catastrofe originaria della castrazione, che segna l'emergere di Afrodite, rinvia alla miscela fondamentale dell'androgino, alle totalità virtuali di bellezza e noise. Simmetricamente, forse, Statues tesse in una trama più larga temi presentati in Rome: il primo libro delle fondazioni si trasfigura nel secondo. Le lapidazioni descritte da Livio trascendono il campo del- !' antropologia applicata (debitrice alle indicazioni di GiSaggi Alfabeto 108 di • chelSerres Gaspare Polizzi rard e di Dumézil) per rinviare al nesso fondativo dell'umano in generale, all'enigma per cui il corpo si fa statua. Roma, in sintonia con l'Egitto, viene indicata come una spaziatura concreta nell'orizzonte brulicante della parola e della scrittura (Atene e Gerusalemme); Roma cela l'oggetto- nel tempio di Vesta, ad esempio, o nelle sue mille tombe - come l'Egitto nasconde la morte. L'oggetto, questo gigantesco stock a più stadi di tempo, assume invece in Statues la funzione di motore trascendente della fondazione pura, non soltanto antropologica ma anche biologica. Da una prima a una seconda fondazione, dall'incisione nel corpo sociale a quella nei corpi umani, nella loro massa e pesantezza. Nel punto in cui il chiasmo si produce (con l'incrociarsi del segmento Genè5e - L'Hermaphrodite e di quello Rome - Statues) compare Les cinq sens, primo compiuto risultato della philosophie des corps mélés, opera educativa, che invita alla riappropriazione dei sensi, di quell'empiria se~n.1ta sui nostri corpi. Opera sul banchetto della vita che veùc la nascita esuberante delle regioni sensitive da un cogito locale, che riconosce l'emergere del soggetto sensibile dal corpo miscelato intermedio. In Statues Serres però volutamente si smentisce: i sensi si arrestano dinanzi alla massa inerte, dietro le idee permangono gli idoli, i pori dell'empirismo passano attraverso la statua di marmo di Condillac, i sensi locali muoiono e si disfanno. Cadiamo a pezzi. Ma un'idea, un amore, la presenza di un Altro, una melodia avvivano il nostro disperato tentativo di ricomporre i pezzi sparsi, prima che, con la morte, il cadavere si sbricioli facendo nascere la «cosa», quell'oggetto incognito fondato da un atto simmetrico e contrapposto al cogito locale. Soggetto e oggetto rimandano entrambi allo statuto sconosciuto del corpo miscelato intermedio. Senza l'esperienza tragica del nostro sgretolarsi non ci sarebbe corpo, conoscenza, capolavoro. F ermo qui, sulla soglia dell'esegesi, l'evocazione di figure e motivi, consapevole del rischio calcolato e sempre presente nel parassitismo della scrittura. E mi inoltro, con timore e pudore, nel labirinto del dialogo che ci avvince, cercando di ridimensionare nel lettore la presunta sensazione di turbamento dovuta a una digressione infondata. 3 È indubitabile che «qualcosa» sfugge al linguaggio, che la spaziatura virtuale del silenzio avvolge il flusso della parole; e non è necessario credere in Dio per ammettere la «mancanza». A partire da questa certezza si pone l'interrogativo sulla differenza dei viventi e sul conseguente impegno etico che garantisca la custodia delle molteplicità irriducibili, di un umano che non è ancora e che pure è sempre già stato, nel silenzio inattingibile della «cosa». Rispondiamo allora, in mancanza di concetti puri o proprio perché non li accettiamo, con un politeismo della complessità. con un paganesimo consapevole, portatore dei canoni di una nuova «teologia politica» che nega la presunzione dell'etica liberista o anarchica della secolarizzazione. Politeismo e contingenza si ricongiungono nell'orizzonte epistemologico della complessità e del suo immaginario, e vengono proposti come ipotesi fondative per un nuovo pensiero politico. In questa direzione i recenti scritti serresiani trovano un senso marcato di progettualità politica, rivivono nella nostra migliore tradizione nazionale; e la filosofia rinnova la propria vocazione ancillare, in un luogo che le fu proprio fin dal saggio consigliere Talete. Va tuttavia rispettato il pudore, il libero ritrarsi dinanzi a ogni pretesa etico-politica e a ogni sussunzione di razionalità progressive. Spostiamoci allora sul piano teoretico, dove l'inesausto scavare negli spazi più eterogenei del cosiddetto «irrazionale», cifra comune dei nostri tempi tardo moderni, accomuna un agn9sticismo collettivo rispetto alla sicurezza globalizzante della critica, del giudizio, dell'indagine. Nel tempo della dissoluzione del discorso filosofico si fa particolarmente insistente il dialogo sul luogo della filosofia, ovvero sulle modalità proprie del filosofare. Altro paradosso tardo moderno di un pensare che ha abbandonato l'oggetto per nutrirsi della propria inesauribile circolarità. A Serres sorge invece un dubbio iperbolico sul soggetto stesso della scrittura; non si accontenta di riconoscerne la «debolezza», ma azzera la temporalità esistenziale dell'umano nell'immobile pesantezza della «cosa». Tra statue, lapidi, pietre tombali, la filosofia accetta la sfida a-temporale della morte. E la scrittura, forse, non ha voce. L'incessante manipolazione del testo esaltata dalla pre-potenza dell'ermeneutica identifica la tradizione della testualità con la cancellazione dell'autore; l'artificio di un'assenza si tramuta in interpretazione. È possibile capovolgere questo orientamento, che esige l'ancoraggio ai meccanismi dell'interpretazione, e nel quale l'artificio - nostra seconda natura - risolve o dissolve il mondo? Uno scrittore forte sente di dover dire la «cosa» «sempre in ogni punto tutta» - asseriva Michelstaedter, e corse verso la morte. Serres si interroga - nel suo ripetuto tentativo di fondazione - su questo paradosso soltanto apparente, che congiunge morte e scrittura, opera e discesa agli Inferi; l'abisso che risucchia questa ricerca segna a un tempo il suo destino di navigante solitario e di nuovo, acclamato, maitre à penser. Gli è estranea gran parte della tradizione tardo moderna, mentre i suoi contemporanei sono disseminati dappertutto, senza paratìe spaziotemporali (tra scienze, racconti, arti, miti, emersi dall'Egitto di 5000 anni fa o dalla recente disintegrazione del Challenger). Motivare questa sua estraneità conduce a prender partito, o piuttosto a levarsi dal posto assegnato, dallo spazio stabilito nell'odierna comunità dei dialoganti. Come l'eccedenza di interpretazione appare oggi - si è detto - direttamente proporzionale alla carenza di «opere», così il valore della comunità ermeneutica, autofondatosi su un sincretismo di heideggerismo, filosofia analitica, kantismo dell'agire comunicativo, poggerà sull'occultamento della cosalità primitiva e sulla costruzione di una natura seconda, intesa come irriducibilmente «altra» rispetto al mondo bruto. Serres sembra invece incoraggiarci

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