Alfabeta - anno X - n. 105 - febbraio 1988

I pagina 6 I I dibattito sui fondamenti del politico, avviato quasi due anni fa da Paolo Flores d'Arcais su «MicroMega», e ripreso di recente su «Alfabeta» (con interventi di Formenti, De Giovanni, Esposito), ha avuto l'indubbio merito di smuovere la palude di luoghi comuni in cui la sinistra teorica italiana si era adagiata da molto tempo. Ma ha anche rivelato che la tradizione teorica della sinistra era ed è assolutamente evanescente. Tranne poche eccezioni, chi è intervenuto nel dibattito ha aperto prospettive teoriche, o semplicemente proposto riletture, relative ad autori (da Hannah Arendt a Schmitt, da Jiinger a Heidegger o a Bateson) del tutto estranei alla cultura di sinistra tradizionale. Mi sembra che, in questo senso, abbia ragione Cacciari quando sottolinea che l'espressione «Crisi della sinistra» è una diagnosi pietosa. Se la sinistra è l'espressione compiuta del moderno, nei suoi aspetti progettuali o utopici ormai realizzati (ieri, «soviet più elettrificazione», oggi «democrazia più informatizzazione»), allora non è in crisi, ma è semplicemente defunta, avendo da tempo esaurito i suoi compiti. Ma sarebbe ingenuo, oltre che ingeneroso, limitare questa diagnosi di inconsistenza o di inesistenza alla sola sinistra. I partiti cattolici, e ciò che resta di quelli laici, condividono ormai la stessa tradizione culturale della sinistra, e cioè qualcosa che assomiglia vagamente al vuoto, la stessa litania di etichette e riferimenti sbiaditi («libertà», «democrazia», «giustizia», «solidarietà sociale», ecc.). Quando ecologisti e movimenti cristiani integralisti (stando ad alcuni sociologi, le novità politiche attuali) si trovano uniti nell'esaltare i nuovi carismi televisivi, non siamo di fronte soltanto a un fenomeno bizzarro, ma a sintomi di una trasformazione che attraversa tutti gli schieramenti, rendendoli puramente ritualistici. Sintomi, d'altronde, che gli osservatori empirici ci hanno mostrato fino alla nausea: interscambiabilità di programmi, parole d'ordine e perfino personale politico, per quanto riguarda i partiti; passaggio ormai inconfutabile dalla politica agita alla politica rappresentata, inscenata, per quanto riguarda le istituzioni vecchie o quelle nuove (come i media). Sarebbe, una volta di più, inutile lamentarsi di questa post-modernità (così come è sinistro farne l'apologia). È forse più opportuno riflettere brevemente su alcune trasformazioni semantiche di lungo periodo soggiacenti sia alla ben nota fine dell'opposizione canonica destra/sinistra, sia al consumarsi della tradizione politica in Occidente. Una prima questione su cui conviene soffermarsi è quella del «tradimento del disincanto» (Flores), che non a caso ha dato avvio all'intero dibattito. Anch'io non ritengo (in ciò d'accordo con Esposito) che il disincanto moderno sia stato tradito in termini di progressiva spoliticizzazione (o neutralizzazione, come avrebbe detto A più voci Temi. Il politico oggi Schmitt). Qui bisogna distinguere, in primo luogo, tra politica nel senso etimologico (politeia) e politica nel senso moderno - effettuale (tutto spostato sul politico, come termine neutro: cosa, macchina, apparato). Se si ha in mente la politeia di Pericle (che Hannah Arendt ha rievocato, in termini filosofici, in Vita activa), si dovrebbe ricordare che quel modello è già sconfitto quando si inizia la tradizione metafisico-politica occidentale. Se non vogliamo parlare di Platone, ricorderemo che il tipo di polis in cui Aristotele identifica la costituzione più opportuna è temperato (anzi, vincolato) da un sistema di disuguglianze sociali e politiche (ad esempio la distinzione fondamentale tra proprietari della terra, dotati di diritti politici, e agricoltori, che ne sono privi), e retto da un principio superiore, la virtù, che ne fanno qualcosa di unico e irripetibile. Quando Hannah Arendt ha ripreso il modello filosofico della politeia, ha individuato soprattutto, in senso controfattuale, l'inevitabile spoliticizzazione dell'Occidente - e cioè il fatto che le accezioni moderne di politica, come gestione sociale e funzionamento dell'apparato-Stato (policy e politics) contengono una radice negata, un etimo neutralizzato. Evidentemente, nessuno può illudersi che quell'etimo possa rinascere nella sua accezione originaria. Nel caso della politica il tradimento della politeia è fondativo, e quindi non più un tradimento (dato il tono negativo, un po' risentito, che questo termine comporta). In breve, siamo di fronte a un accaduto che impone ancora oggi le sue coordinate alla nostra prassi. In ciò allieva di Heidegger, Hannah Arendt sapeva bene che il richiamo all'incanto della polis vale come indice di una differenza, analogamente alla riflessione sull'Essere del secondo Heidegger, ma non può valere come riproposizione nostalgica. Se invece, in termini filosofico-politici più concreti, ci si riferisce al tradimento del disincanto attuato nella modernità, allora il disincanto non può apparire che come il moderno tout-court ( e anche qui se il tradimento è costitutivo, non è più un tradimento). Il moderno si fonda come costituzione anti-politica, nel senso che nega la possibilità dell'azione diretta, priva di delega. Il moderno, in quanto si costruisce a partire dal conflitto distruttivo delle guerre di religione (Hobbes), opera come dislocazione della politica in favore del politico come cosa, apparato, macchina. Il cristallo in cui Hobbes rappresenta il Leviatano è chiuso verso il basso, è duramente separato dai soggetti. Ora, è questa la nozione di politico che si afferma nella modernità, riassumendo al suo interno ogni possibilità di azione e di prassi politica. A questa nozione fondativa appartiene in realtà anche il discorso rivoluzionario, dal giacobinismo a Marx. L'idea di una società civile che sopprime lo Stato non fa che riprodurre, fino alle estreme conseguenze, la separazione originaria tra soggetti spoliticizzati (per così dire) e Stato-macchina. È ormai riconosciuto che l'ossessione per lo Stato Situazione europea «Le Charivari», 18 agosto 1868 Alfabeto 1051 caratterizza gli esiti politici del marxismo (Lenin insegna). Il fatto è che il compimento della forma-Stato, a cui la sinistra ha dato il suo contributo essenziale, si è realizzato secondo modalità che hanno fatto del pensiero giacobino e marxista qualcosa di irrimediabilmente obsoleto. ' E necessaria qui una precisazione. Se l'impossibilità della politeia nel moderno non può dar luogo a nostalgie originarie, lo stesso dovrebbe valere per quel pensiero iper-politicizzato che è legato al nome di Schmitt. La disperazione per la neutralizzazione intrinseca al moderno ha portato, come è noto, Schmitt a reiterati : tentativi di vedere nello Stato la possibilità di un'opposizio- • ne o un freno a quel fatale indebolimento del principio di autorità che è la secolarizzazione. Indipendentemente dalla scansione di questi tentativi (dalla Chiesa cattolica come espressione di una forma capace di unificare là dove il moderno differenzia e divide, nel saggio giovanile su Cattolicesimo romano e forma politica, fino ai più tardi saggi su Hobbes, in cui è ripresa la funzione trascendente dello Stato), si deve sottolineare come la pretesa di recuperare positivamente nel politico una dimensione «politica» dell'agire sembri essere superata dagli sviluppi più recenti (dalla metà del nostro secolo in poi) del rapporto tra forma-Stato e società «spoliticizzata». Per riassumere in una formula questi sviluppi, si può parlare di un complesso sistema di strategie (in senso foucaultiano) con cui lo Stato cerca di colmare la sua separazione originaria dai soggetti. Il fatto che la «politica» sia completamente riassunta nel politico significa oggi che i soggetti, i cittadini, si trovano nella situazione paradossale di essere tanto più integrati nello Stato allargato nel politico quanto più sono espropriati dalla loro politicità. Situazione paradossale;in quanto vero e proprio double-bind che non consente vie d'uscita. I patetici slogan neo-liberali sulla limitazione dello Stato non fanno altro che esaltare una presa in cui la commistione con il politico si attua sul terreno dominante dell'economia, dell'informazione, della gestione dei media. Questa, a mio avviso, è la forma estrema della secolarizzazione: se il moderno è trasferimento di concetti teologici in concetti politici, l'attuale post-modernità si configura come iniezione del politico nelle forme plurali del sociale (e viceversa). È questa seconda secolarizzazione che ha reso a mio avviso obsoleti sia gli slogan di «sinistra» (la società contro lo Stato) sia gli slogan iper-politici (la decisione contro la neutralizzazione, il politico contro.,il sociale). Un modo di definire questo esito della secolarizzazione è senza dubbio quello di politeismo - un politeismo, si noti, che dovrebbe essere definito come lo definiva Weber nel 1920, come un rinascere spettrale di antichi dèi. Questi, per Weber, non erano affatto incantati ma defi7i-1 vano quella plurahtà (di culture, di spezzoni

RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==