Alfabeta - anno IX - n. 98/99 - lug./ago. 1987

, D ionigi, pittore astratto piuttosto affermato, dichiara di aver ricevuto una lettera anonima in cui viene messo al corrente dei presunti tradimenti della moglie Carla. Senonché lui stesso ne è l'autore, l'emittente di questo messaggio che lo cattura, assieme ad altri personaggi (un amico anch'egli pittore, un critico militante appassionato di tennis, il direttore di una rivista d'arte prestigiosa ma poco venduta, un cinico e saggio restauratore di quadri antichi), nella ricerca di una verità continuamente spostata, distante e prossima al tempo stesso. La moglie in realtà lo tradisce davvero senza che lui ne sappia nulla, niente di più di quanto lui stesso inconsapevolmente produce come effetto di senso nella finzione della lettera, cifra costante di un'impossibile decifrazione. A questo si aggiunga il desiderio, da parte di Dionigi, di tradire la moglie con una giovane allieva dell'Accademia di Brera, con conseguente oscillazione del tradimento, patito o agito, dal registro del reale a quello dell'immaginario. Siamo dunque, con La vita astratta di Giuseppe Bonura, all'interno di uno spazio narrativo in cui, per usare le parole che Giampiero Comolli ha intelligentemente riferito ali'opera di Kafka, «va e viene barcollando il soggetto che non può più sapersi». Metafora della vita e della scrittura, anzi della vita come scrittura, il romanzo di Bonura rimanda, con opportune modifiche, ali'asserzione di Jacques Lacan quando afferma, nel seminario su La lettera rubata di Poe, che la verità «rend possible l'existence meme de la fiction». Qui si dovrebbe affermare che la finzione rende in qualche modo possibile l'esistenza non c'è ragione di non pensare che ciò possa avvenire in futuro. Schonberg certamente entra nella storia del linguaggio musicale e magari anche nella storia della musica (è un ipotesi che non vuol essere negativa o positiva); Strawinsky è già entrato nella storia della musica, coi suoi capolavori giovanili, le sue «sbandate» di media età e i suoi ripensamenti della terza età! La presenza di Schonberg riguarda sopra tutto il linguaggio; Strawinsky l'estetica, sia pur mutevole come è stata mutevole la vita di questo secolo. L'uno e l'altra possono essere accettati o rifiutati. Bisogna vedere che cosa esce dopo questo rifiuto, più facile per quanto riguarda il linguaggio, anche se forse la dogmatica teoria dei dodici suoni è superata. Arbo. Un nesso che mi sembra particolarmente importante lega le indagini critico-musicali della FiLavita astratta della verità, ma egualmente affidando a una «lettera», in questo caso presunta regolarmente inviata, la rivelazione de «l'imbécillité réaliste - così scrive Lacan - qui ne s'arrete pas à se dire que rien, si loin qu'une main vienne à l'enfoncer dans /es entrailles du monde, n'y sera jamais caché». È un fatto che Dionigi e gli altri personaggi che si muovono nel labirinto de La vita astratta sono chiamati a interpretare la lettera, a testimoniare di una verità che coincide, direbbe Derrida, con il «disvelarsi della differenza», di uno scarto incodificabile a dispetto, appunto, di ogni imbecillità realista. Ma sarebbe oltremodo limitante inscrivere il romanzo di Bonura all'interno di un genere strettamente psicoanalitico. Vi ritroviamo, è vero, coordinate che sicuramente rimandano a quanto, da Freud in poi, articola la questione della verità all'universo simbolico e linguistico in cui il soggetto appare essenzialmente parlato, quel «luogo della parola» che secondo Lacan costituisce la cifra dell'inconscio come discorso dell'Altro. Eppure si ha l'impressione che la limpida geometria del libro, dove il mistero e il segreto sembrano offrirsi nell'evidenza di una profondità che non ha nulla di oscuro e nemmeno di troppo intricato, debba orientare il lettore verso un approccio meno condizionante, capace di aprirsi ad altre possibili sollecitazioni. Innanzitutto conviene osservare che Bonura non ha scelto, per rappresentare la vicenda dei suoi soggetti alle prese con la verità, con «l'enigma di colei che si sottrae non appena è apparsa» (Lacan), una scena qualunque. Il teatro che qui viene allestito è quello del/'arte, in particolare di quella astratta, luogo di accadilosofia della musica moderna ai contesti teorici della Dialettica dell'Illuminismo: si tratta del/'operazione di rinuncia che caratterizza la nascita storica del soggetto occidentale. Odissea, nel mito che Horkheimer e Adorno rilessero con grande originalità, rinunciava alla natura, al canto gioioso e tentatore delle sirene, per affermare la propria esigenza di dominio (Herrschaft) nei con/ ronti della realtà (dominio giunto al suo parossismo con la razionalità tecnologica del nostro secolo). Come intervento di natura sistematico-razionale, possiamo inscrivere anche il metodo schonberghiano nel/'ambito di questa direzione storica (o antropologica, come vuole), caratterizzata dalla rinuncia nei confronti di una certa naturalità del materiale musicale. Quali sono, in questo senso, le rinuncie che le ha imposto? Entra Roberto Carifi menti, di eventi linguistici e simbolici che hanno la proprietà di mostrare, secondo l'espressione di Thomas Mann in Lotte a Weimar, /'ambiguità universale della humanitas, «il modello più alto e seducente visto come parodia segretamente rivolta contro se stessa, il dominio universale quale ironia e allegro tradimento dell'uno verso l'altro». L'arte come parodia della vita, come rappresentazione ironico-ubiquitaria (Masini) dell'ambiguità dell'umano, appare motivo non certo secondario del libro che non a caso diviene gradualmente, proprio a partire dalla morale astratta dei suoi personaggi ohne Eigenschaften, una ricca e moderna allegoria del destino. Sarà che il disegno, se mi è permesso giuocare liberamente con la parola, è una pratica del segnare, dell'indicare, in qualche modo del tracciare i segni che in questo romanzo soprattutto delineano i percorsi di altrettante esistenze. O sarà anche che ci sono buone probabilità che un disegno trapassi in destino, stando almeno alla modifica che Lacan ha operato, nel predetto Séminai re, di dessin in destin riportando la citazione fatta da Dupin dell' Atrée di Crébillon («[...] Un destin si funeste I S'il n'est digne d'Atrée, est digne de Thyeste»); consonanza che anche Derrida non ha mancato di sottolineare e che nel «gioco alternativo e concorrenziale di questi due termini» (Gramigna) pone il destino come disegno che si è chiamati a leggere, a interpretare nell'enigmatica e immodificabile oscurità dei suoi tratti. L'arte e il disegno traguardano, nel testo di Bonura, uno spazio narrativo dove il destino è rappresentato come versante astratto della vita, sorretto da fili invisibili che, a dispetto di ogni approccio antropologico e qui in gioco la categoria della spontaneità dell'arte; vorrei che Lei ci parlasse del rapporto tra spontaneità e applicazione teorico-linguistica che Lei come artista ha pensato di realizzare nella sua opera. Malipiero. Cerco di rispondere all'implicita domanda dell'ultimo capoverso: si dice che Michelangelo «vedesse» già la statua che avrebbe scolpito, nel masso di marmo che usciva dalle Alpi Apuane. Forse no, ma è certo che la materia si impone nella creazione artistica: diversa la creta dal marmo, il bronzo dal legno; diverso l'olio dalla tempera, il pastello YA t<HoW ... T1llS AL~. NAKES umanistico, ribadiscono la miracolosa e inviolabile trascendenza della Legge, del Codice, di quanto presiede agli accadimenti umani. Da questo punto di vista appare decisiva la figura di Dionigi, piccolo eroe negativo, traversato dal dubbio, preda di una sorta di tregenda nevrotica che perfino nel corpo, nelle . cenestopatie e ipocondrie del suo esserci incerto e obliquo, lo rivela prigioniero di una logica astratta e coatta, per certi versi simile a quella di Raskòlnikov in Delitto e castigo di Dostoevskij. Lo si veda, per esempio, in questa sequenza che lo ritrae, all'inizio del romanzo, nella segreta paralizzante della sua, si direbbe con Hegel, «coscienza coscienziosa», egualmente votata all'errore che un'etica sostanzialmente vuota e indifferente al contenuto porta con sé: «'Sono un imbecille' si disse. Si staccò dalla finestra e andò dietro la scrivania. Rimase a fissare per qualche secondo la scatola marrone. Poi la sollevò e la depose davanti a sé. Sedendosi, premette il pomello. Mentre il coperchio si apriva slittando tra le guide, Dionigi mormorò: 'Non posso scriverne un'altra'». E ancora: «Socchiuse la porta d'ingresso, sbirciò nel pianerottolo in penombra e stette un po' in ascolto. Si ritirò e fece scattare il chiavistello. Quando rientrò nello studio, respirò profondamente. A un tratto si immobilizzò». Eppure proprio la trita banalità di questa figura, che fino dall'inizio vediamo condannata alla libera scelta tra verità e finzione equamente oscillanti nel suo universo· di ordinaria ignominia, si rovescia nella rivelazione profonda del destino e della Legge che lo sostiene. Rendendosi anonimo e acefalo latore del messaggio, Diodall'acquarello. Anche il musicista comincia a trovarsi di fronte alla materia: quartetto o orchestra? oboe o pianoforte? e così via. Allora, poiché me lo domanda, racconto il mio processo produttivo: quando uno strumentista, un complesso, un'orchestra mi chiede di scrivere una composizione, io mi trovo davanti a «materie» diverse; da una di queste materie nasce (come per Michelangelo la statua dal blocco di marmo? paragone da far tremare le vene!) l'idea fondamentale; generalmente nasce da sola, ma ovviamente è condizionata dalla materia: non si può scrivere per oboe come per pianoforte o pensare ad un complesso come ad un'orchestra. Tutto ciò fa parte, diciamo, della spontaneità. Poi suLOOSY H1S70.R..Y nigi veicola, senza saperlo, una menzogna che apre alla verità e la illumina, divenendo così il portavoce e il traduttore di qzl.etdisegno/destino che costituisce la vera trama del testo. Ma è anche opportuno annotare il frequente utilizzo che Bonura fa del dialogato, affidando alla voce il gioco di occultamento/disvelamento della verità. Le voci appaiono, nella tecnica dialogica che l'Autore adotta, tangenziali alla verità, sfumano verso i limiti di un silenzio dove la parola si carica paradossalmente di una pienezza ulteriore. Occorre allora tornare allo svuotamento che Dionigi fa di se stesso, all'inessenza nella quale si elide come soggetto per avviarsi e avviare alla ricerca di una verità che si offre come interferenza, differenza, qualcosa che accade ai margini di un discorso che proprio attraverso la finzione e l'abbandono quasi nietzscheano della verità come «supremo criterio di valore» ne rende possibile l'approssimazione. Del resto diceva Meister Eckhart, in uno dei suoi Sermoni tedeschi, che la verità non è «né questo né quello» indicando la via di un cercare «senza perché» che tiene ferma la domanda sulla soglia di una voce, di una parola che può di tanto in tanto farsi rivelazione. Ma mi rendo conto che Dionigi, non fosse che per l'omonimia con il più noto inquisitore dei «nomi divini», mi porterebbe da qualche altra parte, dove forse non sarebbe illecito un ulteriore approccio alla verità su cui questo romanzo si interroga. Giuseppe Bonura La vita astratta Milano, Mondadori, 1987 pp. 211, lire 20.000 bentra l'applicazione linguistica che, per quanto mi riguarda era, agli inizi, molto radicale (una mia composizione: Sette variazioni su Les Roses di R.M. Rilke per canto e pianoforte - che piaceva tanto al mio amico L. Dallapiccola - sono tutte scritte su una sola serie): poi, poco a poco, il radicalismo ha ceduto ad una maggiore spontaneità, apparente più che sostanziale, perché il linguaggio è rimasto sempre lo stesso; ma come la lingua parlata si arricchisce ogni giorno di neologismi, così la mia lingua musicale ha trovato sempre nuove, o se si preferisce, diverse possibilità di pronuncia. Quindi, per concludere, spontaneità nell'accettazione e formulazione della materia, applicazione nel maneggio di essa. L'una e l'altra reciprocamente condizionate. «Sai... questa è una brutta storia... » © R. Cobb

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