LadiversitàdiVailati Giovanni Vailati «ragione e scienza» Convegno nazionale Crema, 11 aprile 1987 I n Giovanni Vailati la cultura italiana interroga se stessa, ancora una volta. E lo fa con un'ambivalenza di atteggiamento in quanto procede a una ricostruzione di un periodo (quello di fine secolo) e di un passaggio (dalla cultura ottocentesca a quella del Novecento) assai delicato; e gli dà il senso di un momento decisivo e influente. Lo sguardo è quello della crisi presente dell'episteme e dei valori. E la ricerca rovescia il passato nel futuro, rendendo visibile di nuovo ciò che è stato cancellato o coperto, costruendo nuove genealogie dense di suggestioni e capaci di nuovi fondamenti. Così una cultura sconfitta e coloro che sono stati resi muti fanno le loro vendette e mostrano la ricchezza e densità di una problematica. Mostrano che era possibile una modalità di superare il positivismo e la cultura ottocentesca diversa non solo ovviamente dall'idealismo crocio-gentiliano, ma anche dal formalismo prevalente poi nelle teorizzazioni scientifiche. Mi sembra allora che interrogare Vailati come nodo di una cultura rimasta ai margini mentre era il vivo, si apparenta con la ricerca attuale dei percorsi che permettono vie alternative al logicismo, al formalismo e per certi aspetti al semanticismo. E si tratta di percorsi assai diversi, in contraddizione e in competizione, apparentati però dalla crisi, nei cui confronti si tornano ora a coniugare le tematiche della storia, della metafisica, del materialismo, della soggettività. E Vailati, mi sembra, è innanzitutto una suggestiva figura di intellettuale, è un tipo di scrittura, è l'idea della riforma del linguaggio non in sede restrittivamente logica, ma della forma mentis, del modo di ragionare, della mentalità stessa. È una riforma globale dunque della cultura, è una rifondazione del sapere come struttura unitaria, a monte delle discipline stesse. È questo il senso del suo pragmatismo ed è il sogno leibniziano portato nella modernità in un sapere che nella relatività e convenzionalità riscopre innanzitutto il rapporto con l'uomo, la sua civiltà, la sua storia, e avanza le istanze dell'utilità e dell'orientamento nel mondo. E in Vailati almeno non perde i connotati di «verità» e il riferimento al reale. Ora, di Vailati si è cominciato a parlare negli anni cinquanta a seguito dell'apertura attuata dal neorazionalismo e dal neoilluminismo a Torino e a Roma e dal neopositivismo di cui Geymonat aveva iniziato a parlare fin dagli anni trenta. (Sono del 1931 anche i primi riferimenti geymonatiani a Vailati.) È del 1957 la pubblicazione degli scritti filosofici curata da Rossi Landi. E nel 1963, il centenario della nascita è stato l'occasione di un esauriente convegno vailatiano (gli atti sono nella «Rivista critica di storia della filosofia»). E quest'anno, 1'11 aprile nella sua città natale, a Crema, si è tornati a parlare di Vailati all'insegna di «ragione e scienza», con il progetto anche di una fondazione di ricerca e di studio. Un convegno particolare dunque e un atto ambizioso nell'apparente modestia della brevità dell'incontro e nello specialismo storico e matematico del tema che Angelo Guerraggio, Massimo Galuzzi e Ornella Faracobi (Jean Cassinet non era presente, ma ha inviato la sua comunicazione) hanno svolto con sottile acume critico. C'è stato infatti un ritrovamento di radici e di identità da parte di una comunità e da parte di una cultura. Nel Vailati analista del linguaggio si è cercato di configurare l'altra cultura di primo Novecento, o meglio le altre culture, quella di Peano, quella di Enriques, ma anche quella del «Leonardo», in un'ottica di riferimenti europei e americani. È nella modernità e nella anticipazione di Eleonora Fiorani una nozione critica di scienza e di razionalità che il linguaggio diviene terreno possibile di un incontro, per esempio, tra logicismo e storicismo che allora si contrappo- • sero, ma anche, più ampiamente, tra scienze umane e scienze della natura. È stato dunque un incontro particolare con la prç_senza preziosa di Ludovico Geymonat che insieme a Mario Quaranta ha svolto le sue argomentazioni per i giovani nella splendida medioevale sede di S. Agostino. È stato un omaggio al pedagogismo di Vailati e un momento importante di trasmissione e di continuità. E in trasparenza è emersa la complessità del caso Vailati e la sua anomalia, in cui sta la sua attualità. E ' apparso il Vailati, uomo di doppia cultura, intellettuale che non si lascia chiudere nella rigidità disciplinare. E la rivista è stata lo strumento giusto per il nuovo e il vivo, che l'ufficialità non permetteva, e lo è stata anche per il suo carattere di convergenza di una pluralità di voci. E Vailati ha funzionato appunto da centro organizzatore o riferimento di un pulsare multiforme di istanze e di suggestioni, com'è proprio dell'avanguardia. È qui che si è manifestato il gusto e il piacere dell'intelligenza e l'orrore per tutto ciò che è banale, scontato, ovvio. Così in questa sperimentazione e in questa avanguardia si è data la modalità di una revisione critica del positivismo e della sua fede in una verità immutabile e progressiva. Vailati è intellettuale cosmopolita, curioso del nuovo, in corrispondenza con i maggiori intellettuali europei, segue e partecipa agli eventi importanti della nuova cultura che si sta preparando in Europa. Per questo era «disadatto a fabbricare titoli di concorso per una data materia» come ci dice nel suo splendido ritratto Luigi Einaudi. E lo era anche perché la sua cultura contiene interessanti aspetti di interstizialità: vedeva i nessi tra le diverse scienze ed era «curioso delle terre di nessuno» (L. Einaudi). E mi sembra perché coniugava, con un proprio rigore, le meccanica di Mach, i risultati della crisi dei fondamenti e della nuova logica e matematica di Peano ed Enriques con la critica dei valori schopenhaueriana. E nella musica, «divina fra tutte le arti», vedeva un linguaggio e un'azione; era un wagneriano in una ottica diversa da quella di Nietzsche. Era dunque strutturalmente antiaccademico, un intellettuale per certi versi del margine, con una forma originalissima di scrittura, quella dell'epistolario. Di lui ci resta appunto uno straordinario carteggio, registrazione al vivo degli umori di un intellettuale e di una cultura. La lettera fu la sua forma di scrittura, il suo modo di discorrere di filosofia, matematica, scienza, economia, politica, e forse anche di far valere che il lin- • guaggio è relazione e la cultura è dialogo. Mi sembra, inoltre, che si diano altri problemi. Una cultura sconfitta solleva la questionè della sua stessa sconfitta. Da più parti, e in particolare nel Convegno del 1963, si sono mostrate le fragilità e le incoerenze di tale cultura, innanzitutto nel gruppo del «Leonardo» e nel suo pragmatismo magico, nella sua frammentarietà e nel suo disordine. E in Vailati stesso, che certo ebbe ben altro rigore, vi è la frammentarietà della sua produzione e della sua scrittura e vi sono nodi teorici rilevanti. Innanzitutto la distinzione tra proposizioni fattuali e proposizioni valutative e c'è il limite caratteristico di ogni empirismo che considera significativo solo il discorso che può essere nel suo asserto ipotetico verificato sperimentalmente. E ancora ci si è chiesti fino a che punto una visione pragmatica sia in grado di fornire strumenti atti a superare una prospettiva scientistica della verità e dell'oggettività. Anche perché la storicità e la condizionatezza di ogni teoria, così intese, non possono essere assunte come dati, ma pongono il problema del soggetto sociale che promuove e decide il processo del- ! 'indagine. E su ciò ci sono le maggiori sordità di Vailati, che investono anche il suo approccio al marxismo, non certo perché non lo condivide, ma perché non ne coglie la rilevanza teorica e politica, lui che era un lettore delle fonti. È una sordità ai tempi e alla loro gravità o forse del suo «socialismo liberale», oppure è un ottimismo di una residuale borghesia illuminata. È allora importante l'attuale attenzione per la sua frequentazione del Laboratorio di economia politica, per il suo interesse per il marginalismo, per Walrass e il suo carteggio con Luigi Einaudi. Mi pare dubbio invece che si debba parlare di ingegno originale ma perdente, di una mentalità minoritaria, in quanto dovremmo invece soffermarci sull'arretratezza e sull'accademismo della cultura italiana e non solo di quella di ieri, dovremmo vedere forse che, se debolezza c'è stata, essa risiede in un'ottica troppo centrata sul positivismo e troppo poco sui pericoli dell'idealismo e del soggettivismo della cultura novecentesca. Soprattutto, mi sembra, attuale e grave il silenzio ossessivo e colpevole che la cultura ufficiale e i mass media riservano. alla ricerca autentica e alla «devianza» dai limiti tracciati. Dovremmo forse cominciare a chiederci se la sconfitta di una cultura non sia un'accusa alla cultura vincente e non ne metta in luce le vocazioni imperialistiche; se quindi il silenzio su Vailati e su tutto ciò che oggi è ricerca e avanguardia non sia colpevole e grave. Sono i silenzi e le cancellazioni che oggi ci debbono preoccupare. Non saremo mai abbastanza ossessionati dal silenzio che colpisce tutto ciò che è diverso, emergente e nuovo. Dobbiamo aver paura che venga cancellato il «sorriso stupendo» di Vailati, la sua risata forte, la sua autoironia, per cui si firmava «Pangloss» (Lettera a Prezzolini, giugno 1904). ZolaeFlaubermt anoscritti C. Becker (a cura di) Emile Zola. La fabrique de «Germinai» Dossier préparatoire de l'reuvre Lille, Sedes Presses Universitaires de Lille 1986 G. Bonaccorso et collaborateurs Corpus flaubertianum I ~ «Un creur simple» -5 d ~ En appendice, é ition C).. diplòmatique et génétique r-.... des manuscrits ~ -. e) i:: ~ Paris, Société d'édition Les Belles Lettres, 1983 .b-0 J. Goldin t'-.. O\ Les comices agricoles de Gustave Flaubert tl Voi. I: Etude génétique ;! voi. II: Transcription ~ Genève, Droz, 1984 I.I Col tempo si cambia», ar- '' gomentava l'imperturbabile Jarry, amputando della testa il suo ritratto - opera del douanier Rousseau. Correva l'anno 1886. Solida e univoca, destinata a restare (come nel quadro dipinto da Manet) era invece l'immagine che, pochissimi anni prima, aveva divulgato di sé l'ormai ben conosciuto Zola, spalancando le porte del suo privato laboratorio ai confratelli De Amicis e Alexis. Se ci si basa sulle loro testimonianze, il figlio dell'ingegnere veneziano comincia a scrivere un nuovo romanzo solo dopo avere accumulato un'adeguata massa di documenti, note, schede, piani via via più precisi ed organici; e anche al momento della redazione, questo metodico artigiano della penna procede riempiendo ogni mattina, Sergio Sacchi «orologio in mano», le sue tre brave pagine previste: «non una riga di più»; così può persino calcolare il giorno preciso in cui finirà il testo in corso. Risultato, l'imponente massa dei Rougon-Macquart (20 volumi, 24 anni di lavoro), delle Trois Villes, dei Quatre Evangiles. Questa rapida occhiata nel miracolo non può mancare di affascinarci. Fare la vita era uno dei titoli previsti per il romanzo sull'arte e la creazione artistica, quello che, nel 1886, diventerà effettivamente L'Oeuvre: e in Zola, l'opera appunto sembra prendere vita attraverso un processo di sedimentazioni progressive, che per esempio la raccolta di tutti i dossier preparatori di Germinai (curata recentemente da Colette Becker) ci permette oggi di seguire da vicino. Zola non prende mai di petto, direttamente, la pagina bianca, «difesa» (come ben sapeva Mallarmé) da questo stesso suo biancore immacolato; è come se in lui, invece, memoria e immaginazione avessero bisogno di appoggiarsi sopra sussidi materiali ben distinti e ben distribuiti nello spazio. Così, parallelamente al piano preliminare (l'ébauche) del romanzo, che prende parecchi mesi, in un'altra cartelletta Zola riunisce, negli stessi mesi, documenti specifici (sul lavoro in miniera, le malattie professionali, le abitudini alimentari dei minatori, l'agitazione politica, gli scioperi ecc.), mentre in un'altra ancora scheda uno per uno i suoi personaggi futuri (età, mestiere, curriculum vitae, ereditarietà, ecc.); in un modo analogo, anche i successivi piani specifici per ogni capitolo richiedono due diverse redazioni: nella prima, si concentrano i problemi, le soluzioni fondamentali, i movimenti essenziali, le parole chiave, mentre nella seguente vengono a integrarsi anche i primi dati precisi di una documentazione mai conclusa. D'altra parte, questi materiali hanno soprattutto un senso suggestivo e strategico, tanto che a volte arrivano persino a prendere la forma di un vero e proprio dialogo di Zola con se stesso, dove (in poche parole) lo scrittore enuncia una volta per tutte gli scopi basilari di quel testo, i punti specifici da non perdere di vista, le proporzioni e i ritmi da seguire, i vuoti provvisori che sarà bene colmare in seguito: inventario ancora informe e già attivo, che non può certo non ispira-
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