la scrittura» (p. 39). Il sogno è scrittura perché, come la scrittura, esprime l'alterità del linguaggio, e proviene dall'altro, dall'Altra Scena (Freud) che il linguaggio presuppone (p. 41). Ancora una volta la necessità di dover ammettere una scrittura ante-litteram. 11 «semiotico» nel linguaggio come significanza che implica il corpo e che rinvia alle pulsioni inconsce, a un soggetto discontinuo che non si lascia assimilare al soggetto unitario della dimensione simbolica del linguaggio, si dice nella scrittura sacra e profana. Ed è questo il rapporto che le accomuna più di qualsiasi altra pratica significante, perché entrambe direttamente rivolte ali'Altro del linguaggio: il sacro come teologizzazione dell'etico e volto a fondare l'ordine sociale; il «letterario» - e l'arte in generale - incrinando l'ordine simbolico, benché anch'esso (il «letterario») continuamente esposto all'assimilazione nel codice estetico, nella linearità storica della Letteratura, nel Significato ritrovato in esso dalla Scienza della Letteratura, per esempio in base a interpretazioni psicologistiche o sociologistiche. «A ciascun io il suo oggetto, a ciascun super-io il suo abietto. [... ] L'abietto e l'abiezione sono il mio recinto, l'innesco della mia cultura» (Kristeva, cit., p. 4). Scrittura sacra e scrittura profana sono accomunate dal loro aver dimestichezza con il limite della rimozione originaria a partire dal quale si costituisce l'ordinamento della Religione, della Morale, del Diritto. Comunque funzionalizzate nell'ordine del discorso, scrittura sacra e scrittura profana sanno di ciò che sta al di là di quest'ordine, hanno esperienza dell'abietto, di ciò che svia, fuorvia, corrompe l'interdetto dell'edificio simbolico, del soggetto parlante, dell'ordine del linguaggio. Al di là della loro funzionalizzazione, per esempio quella della catarsi dell'esperienza artistica - per cui la letteratura, come sublimazione dell'abiezione, si sostituisce alle funzioni svolte dal sacro - esse si incontrano insieme ove ci si voglia spingere ai confini dell'identità individuale e culturale. Michele Luzzati La casa dell'Ebreo Pisa, Nistri-Lischi Editori, 1985 pp. 317, lire 35.000 L o studio del Luzzati si presenta come una raccolta di saggi sugli insediamenti ebraici soprattutto a Pisa, Livorno e Lucca fra Trecento e Seicento, ma non è un semplice mosaico di articoli, va anzi letto come un libro pienamente unitario, edificato su una brillante interpretazione di fondo dei molteplici contatti fra Ebrei e Cristiani, ampiamente autorizzata dai risultati delle indagini condot- :q te nelle diverse direzioni indicate. c::s La proposta dello studioso è che -~ il gioco degli avvicinamenti e ric:i.. ptilse fra mondo ebraico e cristiano. sia da leggersi «nel quadro di una lunga, estenuante, ma mai in2 terrotta 'trattativa' fra ineguali, ~ nel quadro di un gioco diplomati- .Ìlo " °' co non a caso portato avanti in un clima generale, come quello italiano del Rinascimento, -di grande ~ propensione per la diplomazia e la l mediazione» (pp. 10-11). È chiaro ~ che, in questa secolare contrattaCosì, benché uniformate nella funzionalità alla Legge, alla Religione che le interpreta e le ordina, le stratigrafie della scrittura sacra dicono già della polivalenza, dell'ambiguità, della irriducibilità del semiotico al monolinguismo e al monologismo, disorientano l'unilateralità dell'interpretazione, dicono del carattere di scrittura del discorso sacro, della sua irriducibilità alla stessa divisione sacro/profano. Del resto la Bibbia, anche se, come dice Frye, è stata tradizionalmente letta come un'unità, e come tale ha influenzato l'immaginazione occidentale, non è un libro. L'originmio significato della parola Bibbia, ta biblia, dice del suo carattere plurale, della sua costitutiva molteplicità. Vi sono «abbassamenti» interni alla Bibbia, per esempio quello attuato dai Vangeli per via della lingua e del genere letterario impiegato; e abbassamenti dovuti alla sua traduzione nelle lingue volgari. Processi di quest'ultimo genere non sono separabili dalla storia stessa delle lingue moderne e dalle vicende della letteratura. Bachtin mostra come le lingue moderne debbano molto a questi processi di abbassamento linguistico della parola sacra: «Gli strati medi delle lingue popolari, diventando la lingua delle alte sfere ideologiche e della Sacra Scrittura, erano percepiti come un travestimento riduttivo di queste sfere. Perciò sul terreno delle nuove lingue, alla parodia era rimasto pochissimo posto: tali lingue quasi non conoscevano e non conoscono le parole sacre e sono nate anch'esse in notevole misura dalla parodia della parola sacra» (Bachtin, Estetica e romanzo, Torino, Einaudi, 1979, p. 434). Gianni Benecchi in Heroes crossing Come lo stesso Bachtin ha mostrato, una parte consistente della preistoria della parola del romanzo va ricercata nel rapporto, nel Medioevo, fra parola sacra e il suo travestimento parodico. Una di queste parodie e carnevalizzazioni della Sacra Scrittura è la Coena Cipriani, in cui trova eco l'antica pratica di derisione rituale della divinità. La scrittura profana del romanzo moderno si costituisce nel rapporto con la scrittura sacra, nasce da questo rapporto, che è al tempo stesso rapporto fra generi letterari alti e generi letterari bassi, popolari, e rapporto fra lingua latina e lingue volgari. La storia del genere romanzo contiene così, .al proprio interno, inscindibilmente, la «parodia sacra» - il «mistero buffo» - perché anche attraverso di essa si sono formate la sua lingua di genere e la lirigua nazionale , in cui il romanzo si esprime. Lo stesso progetto, nei Nutrimenti terrestri di Gide - progetto nella scrittura, nel libro - di bruciare tutti i libri, per contrapporre alla loro mediazione il contatto immediato con la vita, non può esimersi dal menzionare la Sacra Scrittura, l'Apocalisse, dal richiamarsi scherzosame.nte alla «ingestione del libro»: «Fu un libro che Giovanni mangiò a Patmos, / Come un topo; ma io preferisco i lamponi,/ quello gli ha riempito le viscere d'amarezza I E poi ha avuto molte visioni». E l'intero testo di Pasolini Patmos, scritto all'indomani della strage di Piazza Fontana, è giocato nella contrapposizione di due linguaggi, quello ordinario e apatico della cronaca e quello solenne e altisonante della scrittura del testo sacro, della visionarietà della scrittura dell'Apocalisse. Ma non si tratta solo di questa LaC•casa zione, l'obiettivo fondamentale per le due comunità fu sempre di trovare un punto di equilibrio sicuro, da riproporre ogni volta che i limiti della coesistenza fossero episodicamente superati nella direzione di una momentanea confusione dei due gruppi, una commistione rischiosa, per un verso auspicata dagli Ebrei e tollerata dai Cristiani, ma anche assai temuta da entrambi: dai primi che, tanto meno numerosi, ne sarebbero stati risucchiati in una completa perdita d'identità, così come dai secondi, paralizzati da tabù millenari. Un primo e rapido esempio, fra i tanti che il libro offre al lettore, ci pone sotto gli occhi le carte di un procedimento giudiziario, poi lasciato cadere, contro Isacco di Vitale da Pisa, figlio del più grande banchiere ebraico dell'Italia quattrocentesca: il giovane era stato denunciato (presumibilmente da parte dei Cristiani) perché ritenuto reo di capeggiare una compagnia di coetanei, cristiani ed ebrei, che si erano ripetutamente macchiati di sodomia, nonché di Paolo Lagorio rapporti più convenzionali con donne cristiane. Nella generale gravità dei fatti contestati, l'ordine dei capi d'accusa mette però risolutamente in primo piano proprio la confusione di due gruppi che devono rimanere distinti, e la causa prima di ogni ulteriore deviazione sembra insomma la costituzione di quella brigata di agiati gaudenti in cui cadeva ogni steccato fra baldoria cristiana ed ebraica; d'altro canto, a contrasto con la volontà di imporre una tempestiva marcia indietro testimoniata dall'accusa, si pongono il fatto stesso che simili eventi fossero quanto meno ipotizzabili e la mancata prosecuzione dell'azione giudiziaria, chiari segnali di un atteggiamento evidentemente più aperto verso il progetto di una coesistenza sempre meno conflittuale. Nella prospettiva delle esigue comunità israelitiche, la più scoperta e drammatica minaccia ad un equilibrio di cui si percepiva più nettamente la fragilità era invece rappresentata, ovviamente, dall'eventualità della conversione al Cristianesimo; a questo. propo-- sito assume un rilievo esemplare il caso di un'altra figlia di Vitale, apostata e sposa in seconde nozze di un Cristiano, dopo il fallimento di un anteriore legame interno alla comunità e frutto dell'accortissima politica matrimoniale del banchiere. Si tratta di un episodio malnoto e male interpretato della storia della celebre famiglia, finalmente chiarito nel più importante capitolo del libro; della vicenda l'autore evidenzia acutamente aspetti a prima vista meno appariscenti ma tanto più significativi di quella inclinazione alla concordia di cui si diceva: da parte cristiana la disponibilità di un aristocratico (abbastanza spiantato ma in teoria depositario di antichi e venerandi valori feudalcristiani) a legarsi con una famiglia ricca finché si vuole ma, nel suo complesso, tutt'altro che incline all'apostasia; da parte ebraica la rinuncia ad ogni animosità nei confronti della figlia, desumibile dall'equità e lungimiranza dimostrate da Vitale nella complessa questione della dote (che tfJCéavaanche la figura dell'ex marito ebreo), un'equità così discuticontrapposizione. La scrittura sacra è rivelazione - e «l'Apocalisse è la visione del significato totale delle'scritture» (Frye, p. 183) - come svelamento. La scrittura profana, invece, è presa nel gioco di una rivelazione che è anche ri-velazione, perdita, indecidibilità e spostamento sempre di nuovo del senso dell'uomo e della storia umana; e in cui l'a-letheia e l'a-pocalypsis riguardano una dimenticanza e uno schermo dovuti a un'azione repressiva, interna-esterna, dell'ordine simbolico. E tuttavia è possibile che nel- !'Apocalisse «con la distruzione dell'ordine naturale si voglia simboleggiare la distruzione del modo di interpretare quest'ordine che mantiene l'uomo confinato all'ordinaria dimensione storico-temporale», e che «la scrittura intenda appunto portare a termine questa distruzione» (Frye, p. 103). Non si ritrovano allora ancora una volta accomunate scrittura sacra e scrittura profana, sia pure non nell'esaltazione della scrittura di visione, ma nell'isolamento e impotenza - e tuttavia anche «sovranità» (Bataille) - e perversione della scrittura di-visione, cioè quella che scompone e destruttura ciò che, confinato nell'ordine simbolico costituito, è univocamente edificato, quella che fa intravvedere il suo irriducibile Altro? Forse la palingenesi dell'Occidente di fronte a un'apocalisse senza escaton, a una fine del mondo come perdita della presenza, e il riscatto dalla esistenza mondana stanno proprio in ciò che a Ernesto De Martino sembrava attestarne l'assenza: cioè nel «disfarsi nel configurato, nell'estraniarsi del domestico, nello spaesarsi dell'appaesato, nel perderè di senso del significante, nell'inoperabilità dell'operabile (De Martino, La fine del mondo, a cura di C. Gallini, Torino, Einaudi, 1977). Se è così la scrittura, come assenza d'opera, come inoperosità, come gioco insensato (Mallarmé, Blanchot), come dépense (Bataille), per il suo effetto di straniamento, per la sua irriducibilità ed eccedenza rispetto alla funzionalità dell'ordine costituito, è uno dei luoghi - forse oggi più che mai - dove l'umano si rinnova. bile da indurre l'ambiente cristiano ad accettare, come garante di un corretto svolgimento dell'intricata faccenda, addirittura un fratello della sposa (quel famoso Isacco, che aveva del resto già fornito - in attività certo diverse - prove inoppugnabili della sua imparzialità). I n un clima di così disteso accordo, restaurato dalle approfondite ricerche del Luzzati, che spazza via d'un colpo le leggende storiografiche relative a un Vitale da Pisa morto di crepacuore per il tradimento della figlia, è quanto mai indicativo che l'unica ! voce discorde provenga questa volta dalla comunità israelitica pisana: di qui muove infatti l'accusa a Vitale e ai suoi di aver tentato di avvelenare la giovane convertita e il genero, un'accusa rivelatasi poi falsa, che comunque il pragmatico banchiere non esitò ad affrontare cercando in un primo tempo di corrompere uno dei giudici, che venne scoperto. Cosa spinse l'altrimenti ignoto Isacco di Salomone da Castello ad attaccare la po-
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