swelt... , p. 108e sgg.), o mettendo in parallelo le ipotesi habermasiane su razionalizzazione e integrazione sociale con gli studi del Collège de Sociologie (attivo dal 1937 al 1939e diretto da Bataille, Leiris e Caillois) sul tema del sacro. Si tratta di idee per un uso pluridirezionale della teoria dell'agire comunicativo, e in questo orizzonte si inserisce la deriva fenomenologica. Che rappresenta un allargamento della cornice habermasiana e al tempo stesso un banco di prova per verificarne potenzialità e limiti. Il campo..,antefi)redicativo del mondo-della'lvita fungerebbe per Habermas da riserva di sapere alla quale attingiamo quan(lo entriamo Jiirgen Habermas Teoria dell'agire comunicativo tr. it. di P. Rinaudo a cura di G.E. Rusconi Bologna, Il Mulino, 1986, 2 voli. pp. 1135, lire 92.000 S e, per misurare gli esiti a cui Habermas perviene con la Te,oria dell'agire comunicativo, prendiamo come punto di riferimento le due opere che maggiormente lo imposero all'attenzione filosofica sul finire degli anni sessanta, Logica delle scienze sociali (1967) e Conoscenza e interesse (1968), troveremo che la summa attuale deve molto di più alla prima che alla seconda, i cui temi fanno piuttosto da controcanto critico. La Logica delle scienze sociali era infatti la ricostruzione delle vie, autonome rispetto alla filosofia, attraverso cui il pensiero sociologico del nostro secolo ha superato l'oggettivismo e il positivismo radicati nella pretesa di avalutatività della scienza - per giungere a posizioni in sostanza ermeneutiche, nelle quali si riconosce l'interazione fra scienziato e contesto sociale, di là da ogni ingenua pretesa di obbiettività modellata sull'esempio delle scienze della natura. Conoscenza e interesse ricostruiva invece la nascita ottocentesca delle scienze sociali critiche (psicoanalisi, critica della ideologia) come ampliamento di tematiche presenti nella filosofia classica tedesca, da Kant a Fichte, ma superando il presupposto metafisico del sapere disinteressato che era la premessa dell'irrigidirsi della gnoseologia filosofica nella teoria della scienza «priva di pregiudizi»; e d'altra parte facendo valere la potenza emancipativa della riflessione contro il tradizionalismo (in cui la riflessione è solo mediazione) delle scienze storicoermeneutiche (le scienze dello spirito di Dilthey) e la strumentalità delle scienze empirico-analitiche. Ora, tutta la tematica esplicitamente filosofica del rapporto conoscenza-inJeresse è sottoposta da Habermas a una critica severa. Noi non siamo più all'epoca della critica della metafisica come sapere disinteressato, non siamo più ai r--.. tempi delle filosofie radicali di ~ Nietzsche, Freud, Marx; e - d'ac- .:; cordo con Rorty - ci troviamo in r una situazione post-metafisica, r--.. cioè in realtà post-filosofica, in cui ~ la filÒsofiae la sua metacritica non ....... .S/ hanno più grande importanza. In- ~ sistere sulla critica del soggetto, -e -e sull'oltrepassamento della metafi- ~ sica, ecc. è oramai l'espressione di ~ un avanguardismo futile e inattuas::: le, che ci riporta molto indietro ~ alla svolta linguistica wittgenstei- -c ~ niana nella quale la critica trascen- ~ dentale del linguaggio congeda nel circuito comunicativo. È «il ,.. luogo trascendentale nel quale parlante e ascoltatore si incontrano, nel quale possono avanzare reciprocamente la pretesa che le loro espressioni si armonizzino con il mondo (quello oggettivo, sociale e soggettivo) e nel quale essi possono criticare e confermare queste pretese di validità, esternare il proprio dissenso e raggiungere l'intesa» (voi. II, p. 714). Su questo punto Habermas raggiunge la massima vicinanza con la fenomenologia, ma perché attenua la plasticità del mondo-della-vita accrescendo la portata proposizionale della pragmatica universale? Si dirà che il telos stesso dell'interazione esige un codice su cui conforquella della coscienza. Si capisce bene la spinta che anima Habermas. Da una parte, la critica della metafisica è diventata (ma era già all'epoca di Conoscenza e interesse) la materia universale delle filosofie post-heideggeriane (e cioè, per Habermas, neo-conservatrici: evocare un passato per superarlo è anzitutto conservarlo, è restare sur piace se non fare qualche passo indietro). Dall'altra si approfondisce il sospetto tipicamente francofortese nei confronti della filosofia - quel sospetto che indusse Horkheimer a contrapporre alla teoria tradizionale la teoria critica; e che oggi spinge Habermas a criticare i residui filosofici e coscienzialistici presenti nella stessa tradizione della scuola di Francoforte. Ciò di cui Habermas si accorge bene (e lo ribadiscono le conferenze del philosophische Diskurs der Moderne, 1985) è che tra la tematica heideggeriana dell'auto-oltrepassamento della metafisica e il ricorso francofortese alla dialettica negativa il passo è, malgrado le apparenze, brevissimo. Queste sono anche le ragioni per cui viene approfondito il movimento che, nella Logica delle scienze sociali, portava la sociologia dall'obbiettivismo alla teoria dell'agire comunicativo - un processo in cui lo sviluppo delle scienze sociali è essenzialmente immanente, e la filosofia, che già nella rassegna del 1967 faceva da sfondo, oggi è decisamente congedata. Non che la sociologia sia (e fosse) ideo facto il rimedio universale ai limiti della filosofia e delle scienze dello spirito ermeneuticamente orientate. Già nella Logica delle scienze sociali Habermas segnalava i limiti dell'atteggiamento di Winch nella Idea of Socia/ Science (1958); Winch fondava la comprensione sociologica della Lebenswelt sulla omologia, tematizzata da Wittgenstein, fra giochi linguistici e forme di vita, ma poi presupponeva una facoltà eclettica nello scienziato sociale di spostarsi continuamente nell'analisi di un gran numero di forme di vita (e così si ritornava, sessant'anni dopo, a Dilthey, e allo storico che grazie a un epico oblio di sé si impossessa ecletticamente di tutti i passati, senza riconoscere come il passato - oggetto di fatto lo condizioni e orienti nella scelta, nell'analisi, nella comprensione). Bisogna perciò riconoscere un radicamento del sociologo nella sua Lebenswelt per non cadere in uno storicismo su base linguistica e per non seguire i sogni di Chomsky intorno a un linguaggio assoluto della teoria (oppure gli incubi di Luhmann, per cui il mondo della vita non è, nella modernità, nulla più che l'ombra sbiadita di una società mare i comportamenti e allora la magmaticità del mondo-della-vita deve strutturarsi secondo la norma e il giudizio. Habermas parla di «razionalizzazione», pur riconoscendo a questa figura una valenza totalmente diversa da quella weberiana e parsonsiana. Il linguaggio irrompe nel mondo-della-vita e innesca un processo di raffinamento che trasforma la razionalizzazione in linguisticizzazione. Se l'agire comunicativo diventa complementare al mondo-della-vita, l'esperienza precategoriale non può allora diventare immediatamente esperienza comunicativa. Qui la critica habermasiana del fondamentalismo fenomenologico sembra tradursi in negazione di razionalizzata amministrativamente). a è proprio qui il problema. Una volta che abbia- M mo riconosciuto l'implicazione del sociologo nel mondo della vita, che ne è della scientificità e della criticità? Siamo in una situazione ermeneutica, e qui effettivamente la Lebenswelt in Habermas svolge un ruolo analogo a quello della tradizione in Gadamer: noi non possiamo mai oltrepassare la tradizione che ci costituisce, è lei l'opaco trascendentale di tutte le nostre filosofie (che spesso lo riconoscono) e di tutte le nostre scienze (che spesso lo disconoscono). Come possiamo criticare scientificamente il mondo in cui viviamo e che ci determina molto più di quanto noi non lo determiniamo? Si impone qui il modello della riflessione non come emancipazione-differenziazione, ma come mediazione, riconoscimento di appartenenza. li che, in concreto, fa balenare di fronte a Habermas lo spettro della filologia: il filologo, l'umanista (che per Habermas è il modello dell'ermeneuta) si confronta ai prodotti delle epoche auree della cultura mondiale, che gli parlano perché lui riconosce di appartenere a quella cultura e a quella tradizione (senza di che resterebbero lettera morta); e per comprenderli si pone in una situazione di inferiorità: li postula come modelli insuperabili, si subordina a essi per comprenderli davvero. Anche il sociologo, in fin dei conti, deve fare lo stesso, se non vuole cadere, rispetto al proprio «oggetto», nel rischio del positivismo, dell'illuminismo storiografico, ecc. Così che, per salvare la riflessione, si rischia di abbandonare la scienza e la critica. . (Questa immagine dell'ermen~utica, appiattita sul modello della filologia, è forse stilizzata e riduttiva. La subordinazione del filologo rispetto alla tradizione non è che un momento, tutto sommato secondario, della storia del problema ermeneutico; quando, con il romanticismo, l'ermeneutica si avvia verso l'universalità, non è generalizzando il modello umanistico, ma ricominciando a superarlo: il principio di Schleiermacher, secondo cui bisogna intendere l'autore anzitutto bene e poi anche meglio di quanto non si fosse inteso lui stesso è - come ha notato Gadamer - un prinçipio filosofico, e non filologico, che appare per la prima volta in Kant, in relazione alla capacità speculativa del filosofo, che riesce a chiarire con un maggiore dominio del vocabolario concettuale aspetti e problemi che sfuggono a chi, non filosofo, formula certi asserti. E, per requalsiasi strato ontologico, come se i soggetti potessero ricorrere al linguaggio senza possedere uno spessore ontico-soggettivo prima ancora che sociale. • Pertanto, pur istituendo «un nesso interno fra strutture del mondo-della-vita e strutture dell'immagine linguistica del mondo» (p. 712), Habermas non si accontenta di un'intesa tra i soggetti fondata sull'esperienza intuitiva dell'empatia. Ma, così facendo, non si avvede che la ricerca di un processo argomentativo di produzione del consenso rimarrebbe priva di un supporto soggettivo, quasi sospesa in un'atmosfera linguistica artificiale. Paradossalmente, il confronto con la fenomenologia stare a questioni generalissime, tutta la polemica di Heidegger contro l'umanismo nasce da un rifiuto del canone filologico-imitativo dell'umanesimo.) Ma lasciando da parte questi aspetti (che, con molti altri, sono stati ampiamente sviluppati nel dibattito fra Gadamer e Habermas negli anni sessanta e settanta), ritorniamo alla contrapposizione fra sociologia e Lebenswelt, • da una parte, e filologia e tradizione, dall'altra. In che senso la Lebenswelt è diversa dalla tradizione? In breve, nel fatto che non ogni Lebenswelt è immediatamente razionale. Per esempio, il mondo della vita delle etnie primitive non è razionale quanto quello europeo moderno, a cui appartiene l'etnologo; ci può quindi essere una comprensione che non si risolve nella subordinazione rispetto-a ciò che si comprende. AnalogaJ11ente, non ogni azione e comunicazione che si svolge nel mondo della vita è un dialogo fra partner che si sforzano di giungere a una intesa vera. Come già negli anni sessanta (quando vedeva nel dialogo non paritetico della psicoanalisi una limitazione della pretesa di universalità dell'ermeneutica, perché l'analizzato non controlla pienamente il senso delle proprie parole), Habermas contrappone al dialogo ermeneutico, al fatto che per noi ogni accesso alla cultura è già una domanda e una parola rivolta a un interlocutore dialogico - un'altra situazione, per cui nella classe generale dell'agire si riconosce un sottoinsieme relativamente raro, l'agire comunicativo, la cui pointe filosofico-ideale, il Diskurs, è di fatto rarissima, costituisce un obbiettivo da perseguire con determinazione piuttosto che il presupposto di ogni nostra interazione con gli altri. C'è indubbiamente del vero nel contrapporre alla visione gadameriana del «dialogo che noi siamo» una immagine del discorso come un ideale da realizzare, ma che viene presupposto in ogni nostro atto comunicativo reale (io non cercherei di parlare razionalmente, se non ipotizzassi una situazione comunicativa ideale in cui tutti possono comprendermi). Certo Gadamer non tiene conto che la buona volontà di intendersi nel dialogo potrebbe anche essere volontà di potenza, o sofistica, in cui l'aspetto agonistico e energetico prevale su quello comunicativo. Habermas, ponendo il discorso come un ideale e come la teleologia implicita di ogni comunicazione, mette per lo meno in chiaro l'aspetto etico del parlare e della razionalità - che Gadamer tende invece, in parte, a naturalizzare. Ma non per questo risolve il prosembra rivelare che l'analisi habermasiana è più intrisa di teoreticismo di quanto lo sia il discorso fenomenologico sul mondo-della-vita. Tuttavia si tratta di riflessi che illuminano alcune facce aporetiche del complicato meccanismo habermasiano: forse è più significativo ricordare che se un aspetto della fenomenologia conosce così una trasformazione e un rinnovamento, l'incrocio fenomenologico schiude a Habermas una prospettiva nuova, in cui la ricerca di senso che pervade l'agire comunicativo può trovare spazi maggiori e dinamiche più ricche rispetto ai pur ampi confini della filosofia del linguaggio e della politica. blema meglio di Gadamer. Soprattutto, non è chiaro per quale motivo una sociologia possa aiutarci più della filosofia nel conseguire i nostri ideali. La sociologia, abbiamo visto, insieme alla etnologia, non ci mette immediatamente alla mercé della tradizione, come sembra avvenire nell'ermeneutica filosofico-filologica, ci fa vedere gli aspetti irrazionali della Lebenswelt senza canonizzarla. Lasciamo da parte il fatto, evocato più sopra, per cui in realtà l'ermeneutica filosofica non è semplicemente subordinata filologicamente alla tradizione, e concentriamoci su che cosa sia la tradizione nel1' ermeneutica. Il punto, in breve, è questo: il filosofo media con la tradizione, sino a riconoscerne se non la superiorità almeno l'autorevolezza, proprio perché la tradizione che ci è trasmessa è già selezionata nei suoi momenti più alti, e per questo autorevoli; il filosofo è disposto a dar credito a Platone proprio perché ciò che ci resta di lui non è il mondo più o meno razionale delle credenze e della vita di un greco qualsiasi (o della persona-Platone), ma un discorso filosofico elaborato razionalmente. Insomma, nella misura in cui la tradizione è elaborazione e mediazione, contiene già in se stessa un momento critico. Che non ogni Lebenswelt sia razionale, è una idea molto ragionevole, e necessaria per guidare al rapporto con il presente (come nella sociologia) o con altre tradizioni che non ci giungono mediate storicamente (come nella etnologia); ma questo non vuol certo dire che il rapporto del filosofo con la tradizione sia irriflesso e acritico come quello del primitivo con le sue credenze per vari motivi: perché la tradizione è già mediazione e critica, perché essa è sempre sottoponibile a una metacritica. E da questo punto di vista, diviene davvero eccessivo il sospetto di Habermas nei confronti dell'ermeneutica, identificata con la filologia; sembra di incontrare qui proprio quel radicalismo, quel mezzogiorno degli spiriti liberi come superamento della metafisica e ovviamente della sua critica, in cui già Nietzsche, e poi certo Heidegger, hanno visto precisamente l'apogeo della metafisica. Col che il discorso iniziato con Conoscenza e interesse e criticato nella Teoria dell'agire comunicativo si ripresenta con una attualità che non può essere troppo facilmente aggirata da una epica e in fondo inutile pretesa di autonomia delle scienze sociali rispetto alla filosofia e alla tradizione delle «scienze dello spirito».
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