pagina 8 rappresentabile solo in negativo attraverso l'ombra proiettata dalla realtà del suo contrario. È per questo che tale linea impolitica coniuga il massimo realismo circa la determinazione del potere - si pensi a Canetti, ma anche alla Weil - e insieme la massima distanza critica dalla sua assunzione in positivo: e cioè, ancora una volta da ogni forma (idolatrica) di teologia politica. Se dovessimo dunque definire topograficamente il «luogo» dell'impolitico nella cultura europea di questo secolo, dovremmo cercarlo in quel sottilissimo confine situato alla stessa distanza (ma non certo in forma di mediazione: al contrario di assoluta estremità) tra la spoliticizzazione moderna e la teologia politica (e giuridica) di ispirazione romana. Per questo l'impolitico non è semplicemente la negazione del politico. È anzi, guardato da una prospettiva rovesciata di centottanta gradi, la sua massima intensificazione. O anche la sua estrema «protezione» attraverso uno spostamento lessicale ai suoi confini esterni in un tempo in cui ogni teoria A più voci politica affermativa (non critica) non potrebbe che ricadere nel monoteismo teologico-politico (in ultima analisi, nella filosofia della storia). A questo punto ritorna la questione del politeismo. Personalmente sarei prudente nell'usare quest'espressione che potrebbe portare almeno a due tipi di fraintendimento. il primo è quello di intenderlo come semplice demitizzazione, nel senso dissolvente di una pura polverizzazione cromatica della metafisica monoteistica (il rischio, a mio parere, presente nella prospettiva di Vattimo quale emerge in fondo anche dalle sue ultime posizioni), interna, come sua variante «debole», alla spoliticizzazione «sistemica». Il secondo è quello di interpretarlo al contrario come una nuova rimitizzazione: e cioè come formulazione artificiale di miti politici. Non credo a questa via: non solo, voglio dire, alla sua utilità, ma neanche alla sua praticabilità: il mito artificiale è irrealizzabile; non funziona politicamente, come le ultime vicende della sinistra italiana hanno dimostrato. Solo in un Alf abeta 103 senso forse - ma qui devo restare necessariamente ellittico - l'ipotesi politeista mi sembra accettabile: ed è quello del «sacro» nella particolarissima accezione che a quest'espressione conferisce Georges Bataille: ovvero come il carattere mitico contraddittoriamente costituito dall'assenza di mito: «Il n'est pas loisible à quiconque de ne pas appartenir à mon absence de communauté. De meme l'absence de mythe est le seul mythe inévitable» (A prendre ou à /aisser, «Troisième convoi», n. 3, novembre 1946, pp. 24-25). L'assenza di mito è per Bataille ciò che connota il «mito» di una comunità irrappresentabile. Irrappresentabile, ma che tuttavia resta il solo modo di pensare la relazione tra gli uomini (si veda in proposito l'importante saggio di Jean-Luc Nancy sulla Communauté désoeuvrée, in «Aléa», n. 4, 1983, adesso Paris, 1986, e quello, al primo collegato, di Maurice Blanchot sulla Communauté inavouable, Paris, 1983). È forse da essa che può riprendere «politicamente» avvio un pensiero dell'impolitico. La secondàuinffiodemità materiali Q uest'anno uno dei Compassi d'Oro, attribuiti da una giuria internazionale alle opere di design, è stato assegnato (caso più unico che raro) a un libro. Si tratta di un libro che raccoglie per la prima volta in maniera ordinata e ragionata un manuale di informazione sui Nuovi Materiali, una generazione di artefatti frutto di tecnologie avanzate, di cui vengono indagate le prestazioni e le nuove qualità. Il libro La materia dell'invenzione di Ezio Manzini, con introduzione di François Dagonet, edito da Arcadia Edizioni, Milano, 1986, si articola su una struttura analitiAndr a Branzi ca nuova. Non più basata sulle vecchie categorie scolastiche, del tipo polimeri, poliuretani o ceramiche, ma su altre categorie conoscitive e prestazionali. Uno degli assunti del libro è infatti quello che i Nuovi Materiali determinano, attraverso la loro ambiguità e flessibilità strutturale, non solo un ampliamento delle possibilità costruttive, ma una trasformazione delle categorie di relazione e di identificazione della realtà degli oggetti. Occorre quindi procedere alla loro conoscenza introducendo altri criteri d'uso e altri parametri concettuali, come la leggerezza, la resistenza, la deformabilità, la flessiGianni Sassi bilità, la trasparenza ecc. oltre all'informazione, la simulazione, l'energia. Ali' interno di queste nuove e complesse famiglie si muovono non soltanto i Nuovi Materiali comunemente intesi, come i nuovi polimeri, le nuove leghe, le nuove ceramiche o i nuovi composti avanzati, ma anche i materiali che nascono dalla combinazione creativa di materiali noti. Questa generazione combinatoria nasce da una «sperimentazione diffusa», cioè da una ricerca esterna alle grandi e tradizionali cattedrali scientifico-militar-industriali, e passa di fatto a una miriade di piccoli laboratori applicativi, dove la ricerca tecnologica prosegue e si espande, producendo una sorta di proliferazione di Nuovi Materiali che rispondono a necessità applicative specifiche e puntuali. Ma come sottolinea Manzini in un importante capitolo dedicato ai Percorsi del Progetto, l'ideazione di un nuovo materiale non sempre corrisponde a delle elementari necessità funzionali; molto spesso è il prodotto di una attitudine antropologica a pensare «fuori» dalla realtà esistente. A quella capacità dell'uomo a pensare «di volare come gli uccelli, sprofondare nel mare come i pesci, o correre veloci come le gazzelle ... ». Il confronto con fa problematica generale del progetto, che Manzini ha approfondito anche nell'ambiente di Domus Academy, costituisce un importante spessore del pensiero di questo libro. Come egli scrive, «Oggi ci si trova a verificare che non esiste un'unica razionalità che possa imporsi, che ogni obiettivo ha comunque validità relativa e che nessun risultato ha mai valore permanente; inoltre si percepisce che tutto ciò avviene sull'onda di trasformazioni che tutti hanno concorso a generare ma che nessuno, individualmente, può controllare. In questa atmosfera la progettualità ha meno fiducia in se stessa, vive il depotenziamento del soggetto come una sconfitta della ragione. Ma questa consapevolezza è suscettibile anche di una diversa lettura: dalla crisi della progettualità demiurgica può nascere una progettualità più matura, espressa da una soggettività che si sente parte di un sistema più ampio in cui le scelte umane, dinamiche e storiche e le leggi naturali si integrano in un destino dagli esiti aperti». La ricerca tecnologica all'interno della crisi del Movimento Moderno e del Movimento Razionalista è infatti, a mio parere, il vero contesto nel quale il libro si muove. E tutte le opere che si muovono nello spirito neo-enciclopedico svolgono una duplice funzione. Da una parte esse consolidano, organizzano e divulgano un «corpus» prima disperso di nozioni, permettendo di cogliere con la necessaria chiarezza tutte le connessioni interne e le reali dimensioni scientifiche di una realtà altrimenti oscura e inespressa. Contemporaneamente però a questa nobile azione divulgativa, illuministica, si accompagna di fatto una azione di fondo corrosiva, che tende a mettere in crisi le basi precedentemente consolidate di una scienza, proprio perché nel momento in cui si ricompone in un quadro unitario un insieme di dati precedentemente dissociati, si pongono le premesse per mettere in crisi il contesto di fondazioni che tali dati ha generato. Il neo-enciclopedismo apre sempre una nuova era culturale, proprio perché chiude, organizzandola come già tutta avvenuta, quella precedente. Questo libro non si sottrae a questo duplice ruolo, che ne comporta anche una lettura differenziata, una indagine tra le righe discernendo tra la sistematizzazione in positivo dei Nuovi Materiali, e il passaggio (attraverso questa sistematizzazione) a una fase di crisi acuta della stessa fondazione epistemologica di alcune certezze che tali tecnologie hanno partorito. Per quanto mi riguarda l'onda d'urto investe il design, in maniera obliqua ma profonda. La tecnologia rappresenta infatti soltanto una delle componenti del progetto, ma per il significato simbolico oltre che tecnico che ai materiali è stato attribuito durante tutto questo secolo, vedremo che più che un ampliamento delle possibilità costruttive, questo libro traccia un corrosivo profilo di una profonda trasformazione degli stessi equilibri progettuali. Dal libro di Manzini emerge con chiarezza, come dal testo di un autore che vede la tecnologia come una parte non solo della filosofia della scienza, ma della cultura del progetto che realizza l'universo artificiale, con alcune considerazioni che vanno a toccare e a mettere in crisi due gran_giprincipi del design moderno, che potremmo chiamare il Principio di Necessità e il Principio di Identità. Per Principio di Necessità intendo dire questo: la tecnologia, con i suoi stretti limiti applicativi e le sue severe regole del gioco, ha costituito per generazioni di designer una sorta di certezza scientifica, ma soprattutto psicologica; di fronte al mutare dei tempi, dei linguaggi espressivi e dei
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