Alfabeta - anno IX - n. 103 - dicembre 1987

I Alfabeta 103 L a prima impressione che mi provoca l'articolo di Carlo Formenti su Politeismo e disincanto è che, dopo una lunga fase di fughe solitarie, si stiano finalmente riannodando le fila di un dibattito comune nella cultura di sinistra in Italia. La seconda è che tale dibattito - iniziato sulla rivista «Micromega» e sviluppato adesso sulle pagine di «Alfabeta» - sconti una iniziale difficoltà linguistica relativamente alla definizione e all'uso di alcuni terminichiave, quali quelli di «teologia politica», «secolarizzazione», «politeismo» e via dicendo. Credo sia perciò utile da parte di chi d'ora in avanti intervenga un tentativo non dirò di rifocalizzazione concettuale generale, ma, quantomeno, di dichiarazione d'intenti personale circa le espressioni più controverse. Cercherò allora di dare il buon esempio a partire da quel vero e proprio crocevia semantico costituito dalla nozione di «teologia politica». È noto come essa venga in genere usata secondo la particolare aecezione conferitale da Cari Schmitt: e cioè alludendo a quella trasvalutazione (forse più che semplice parallelismo) che nella Modernità trasforma alcuni concetti teologici in altrettanti concetti politici, venendo di fatto a coincidere con il processo di secolarizzazione. In questo senso mi pare l'a.doperi anche Formenti, intendendo per secolarizzazione non una sorta di demitizzazione quanto una prospettiva di «reincantamento»: da qui la traduzione dell'idea di teologia politica in quella di «nuovo politeismo». Ora io proporrò uno spostamento, e per certi versi una restaurazione, di significato rispetto a questa tradizione interpretativa e mi rifarò invece ad un'altra, e più originaria, lezione, che intende la teologia politica in termini di necessario monoteismo. Non a caso ad essa, secondo Erik Peterson (Der Monotheismus als politisches Problem) - Ambrogio ed Agostino opposero la concezione trinitaria. Che cosa precisamente, del monoteismo teologico-politico, Agostino e Ambrogio rifiutavano? Questo qualcosa era il legame della fede cristiana con la potenza dell'impero romano, o, più in generale, qualsiasi confusione dell'idea di Bene con quella di potere (o di Necessità, come avrebbe detto Simone Weil). È questo sostanzialmente il significato dell'espressione «teologia politica» cui d'ora in avanti farò riferimento: la concezione secondo la quale il Bene sarebbe rappresentabile politicamente e la politica interpretabile in termini di Mario Giusti A più voci .. valore. Va da sé che, una volta accettato questo significato, il Moderno si configuri on una caratterizzazione spiccatamente antiteologico-politica. Da questo punto di vista concordo con l'impostazione di Flores: ma me ne discosto non appena egli interpreta la spoliticizzazione moderna in termini di «tradimento». Quell'esito fa fin dall'inizio parte della sua storia, è anzi il naturale portato della sua intentio antiteologico-politica (nel senso suddetto). Qui torna utile il riferimento a Cari Schmitt, ma allo Schmitt giovane del saggio del 1923 su Cattolicesimo romano e forma politica. La tesi fondamentale che Schmitt vi porta è appunto il carattere costitutivamente spoliticizzante della Modernità. E più precisamente che tale spoliticizzazione sia determinata dal rifiuto della «rappresentazione» come ciò che lega la decisione politica all'«idea» o, in altre parole, che consente e richiede un transito tra Bene e potere. Il Moderno, nel suo eminente carattere tecnico-economico, rifiuta la rappresentazione, e cioè il riferimento a qualcosa che trascenda la dinamica dei suoi rapporti interni. In questo senso il suo movimento è autoreferenziale: fa capo ad una tecnica sempre più capace di autogovernarsi al di fuori di qualsiasi finalità esterna. Tutta la concezione funzionalista, lungo la linea frastagliata che va da Hobbes a Weber, Parsons e Luhmann, sta dentro questo orizzonte concettuale: vale a dire quello di una «sistematica» formale capace di funzionare senza riferimenti vincolanti alla logica dei contenuti soggettivi che la abitano. La stessa differenziazione in sottosistemi è organizzata in modo da non richiedere convergenze «ideali». Il politico è ridotto ad uno di questi sottosistemi: da qui la sua autonomia, ma anche, e sempre più accentuatamente, il suo svuotamento interno, la sua evaporazione funzionale alla oggettività sovrana del meccanismo. È proprio a questa irresistibile tendenza spoliticizzante del Moderno, al suo costitutivo antimachiavellismo (il Moderno nasce con la vittoria di Hobbes su Machiavelli) che «reagisce» la teologia politica cattolica: nel senso - spiega Schmitt - che solo teologicamente può darsi politica nel Gilio Dorfles pagina 71 ,, mondo della Tecnica. Ma ciò che altro vuol dire se non che, in questo tempo che è anche il nostro, è utopica, irrimediabilmente utopica, ogni progettualità politica, ogni filosofia politica declinata in termini affermativi? Eccoci così tornati al nostro problema di partenza. Ed eccoci anche a ridosso di quella categoria d'«impolitico» cui ho già fatto più d'un cenno nell'articolo discusso da Formenti (e sulla quale da tempo sto conducendo un lungo lavoro d'insieme). Impolitico è precisamente quell'atteggiamento, o, se vogliamo, quella forma di pensiero, che pur rifiutando l'esito spoliticizzante della secolarizzazione moderna, e anzi situandosi ai suoi antipodi - non anti-politica, semmai «ultra-politica» è la sua intenzione - rifiuta al contempo ogni ripiegamento sulla repraesentatio teologico-politica, ogni luogo trascendente di fondazione del politico. Questo punto dovrebbe essere chiaro. Più problematiche, naturalmente, relativamente alla dimensione dell'impolitico, sono le sue modalità interne, i luoghi, i tempi e i modi del suo prodursi per noi. Intanto va detto che anch'esso ha una «tradizione nascosta», la quale, a parte il decisivo antecedente nicciano (sul quale ha più volte, e con originalità d'accenti, richiamato l'attenzione Massimo Càcciari) tocca autori assai diversi - da Hermann Broch a Elias Canetti, da Simone Weil a Georges Bataille a Ernst Jiinger (ma includerei «à sorpresa» in questa linea anche l'ultima produzione di Hannah Arendt, oltre, ovviamente, il suo Benjamin) - ma tutti unificati dal più netto rifiuto del concetto teologicopolitico di rappresentazione-rappresentanza: il Bene, la Giustizia, è politicamente irrappresentabile; o meglio: è Antonio Porta

RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==