pagina24 Saggi Alfa beta 102 . I Il forte sentiredi Carlo •chelstaedter e i si può chiedere se, nonostante il successo delle commemorazioni ufficiali, il moltiplicarsi delle pubblicazioni accademiche e l'acuirsi dell'attenzione giornalistica, il pensiero di Michelstaedter abbia davvero acquisito un significato essenziale per la cultura militante. Ma ha ancora un senso parlare di cultura militante? Istituzioni, università e mass-media non hanno occupato interamente il campo culturale? Il post-modernismo non ha sanzionato la fine delle avanguardie e instaurato un irenismo culturale all'interno del quale c'è posto certo per risse e connivenze, ma non per veri conflitti, né per veri legami? I due interrogativi - quello riguardante la vitalità e la fecondità del pensiero di Michelstaedter e quello riguardante la possibilità di una cultura militante - mi sembrano in effetti strettamente connessi tra loro. Ora il clima culturale e la sensibilità collettiva attuale non sono a prima vista favorevoli al radicalismo appassionato e intransigente che anima l'opera di Michelstaedter, né allo sviluppo di una cultura che faccia del presente l'oggetto di una meditazione seria ed attenta al cambiamento. Tutto sembra ridursi all'amministrazione tattica, condotta cautamente giorno per giorno, di sentimenti, di interessi, di idee che sono dati per conosciuti, ovvi, collaudati. Detto con le parole di Michelstaedter, tutto sembra adattarsi alla «sufficienza» di ciò che è dato, ali'«adulazione» generalizzata, alla «comunella dei malvagi», in una parola al trionfo della «rettorica» nella vita. Ma questa analisi, che assegna alla «rettorica» centralità e potere nel mondo e che relega la «persuasione» nel cantuccio di una moralità impotente e velleitaria, rispecchia davvero la situazione presente? oppure è la riproduzione meccanica di un luogo comune? mio avviso, è a dir poco rozzo e semplicistico considerare la «rettorica» come sinonimo di vittoria e la «persuasione» come sinonimo di sconfitta: le cose sono - o almeno sono diventate - un po' più complicate.. Troppo spesso ci dimentichiamo che il mondo della «rettorica», di cui parla Michelstaedter, non è solo falso e iniquo, ma anche noioso e melanconico: gli uomini della «rettorica - scrive Michelstaedter - poiché niente hanno e niente possono dare, s'adagiano in parole che fingono la comunicazione: poiché non possono fare che ognuno sia il mondo degli altri, fingono parole che contengono il mondo assoluto e di parole nutrono la loro noia, di parole si -fanno un empiastro al dolore» (Opere, Firenze, Sansoni, 1978, p. 61: d'ora in avanti O.). Se l'aspetto essenziale della «rettorica» è la perdita del presente, la melanconia è «il desiderio complessivo di una vita( ... ] che non è più nella vita presente, è il desiderio di quel complesso di desideri che formavano la vita di un tempo» (O., p. 796). Qui cominciamo ad avvertire la differenza tra l'epoca di Michelstaedter e la nostra: anche noi, come i contemporanei di Michelstaedter, diamo per ovvio che il mondo sia falso e iniquo; ma a differenza dei contemporanei di Michelstaedter, non siamo più tanto certi che esso debba essere necessariamente anche noioso e melanconico. Anzi la civiltà del lavoro, delineata da Michelstaedter sotto il nome di «rettorica», fondata sulla fatica, sull'ubbidienza e su una verbosità inconcludente, e diretta alla produzione di tipi ideali quali il giudice, il maestro e il boia, ci sembra singolarmente lontana dalla situazione attuale, o perlomeno dalle esigenze oggi emergenti. Del resto una civiltà del loisir non può essere per definizione né noiosa, né melanconica: ma deve cercare di diventare ad ogni costo interessante ed efficace. Si gettano così le premesse di un sorprendente e paradossale capovolgimento, non solo nei confronti dell'epoca di Michelstaedter, ma anche nei confronti della linea di tendenza culturale che ha inaugurato gli anni ottanta e che è complessivamente nota sotto il nome di «post-modernismo». Questa linea di tendenza, finora dominante, si è sviluppata su alcune premesse, nei confronti delle quali si comincia a nutrire dubbi e perplessità sempre più grandi: il post-modernismo ha surrettiziamente supposto che una civiltà del loisir sia caratterizzata da una tonalità emotiva cinico-ricreativa, da un ceto intellettuale di basso profilo e da un orientamento filosofico che privilegia il passato. Il post-modernismo è nato da una reazione al clima culturale della contestazione degli anni sessanta e settanta, la quale Mario Pernio/a invece era caratterizzata da una tonalità emotiva enfatica e soggettiva, da un ceto intellettuale che si attribuiva compiti di direzione della società, da un orientamento filosofico che privilegiava il futuro. È evidente che per motivi diversi ed opposti, né la contestazione né il post-modernismo potevano vedere in Michelstaedter un precursore. E in effetti la persuasione apre una terza strada irriducibile tanto alla contestazione, quanto al post-modernismo. Fare oggi il punto su Michelstaedter significa perciò considerarlo come il punto di partenza di una nuova tendenza culturale alternativa rispetto sia alla contestazione, sia al post-modernismo; significa entrare in un ambito che va al di là delle commemorazioni ufficiali, delle pubblicazioni accademiche e delle occasioni giornalistiche; significa riaffermare la possibilità di una cultura militante, cioè di una cultura che pretende di avere un rapporto di presa diretta con la società. Il forte sentire I caratteri fondamentali della nuova tendenza culturale che si delinea nel nome di Michelstaedter mi sembrano sostanzialmente tre: sul piano della vita emotiva, l'esperienza di un forte sentire, sul piano della vita sociale-, l'affermazione di una figura intellettuale di alto profilo, sul piano della Musica da camera meditazione filosofica, l'elaborazione di una filosofia del presente. Per quanto riguarda il primo punto, l'esperienza di un forte sentire, di un «farsi fiamma», per usare un'espressione di Michelstaedter è connesso a una insoddisfazione profonda nei confronti della Stimmung, della tonalità cinico-depressiva, melanconico-ricreativa, frivola e fatua, tipica del post-modernismo. L'iniziale carica liberatoria implicita nella leggerezza post-moderna si è completamente esaurita nel disgusto per uno stile di vita cui è preclusa per definizione l'esperienza di alcunché di differente e di sconvolgente. Il post-modernismo trasuda noia: la totale acquiescenza ed il completo assens~ nei confronti della universale inconsistenza e miseria emotiva e sensitiva finisce col generare una piattezza che presume di innalzarsi alle eccelse vette dello spirito solo perché fa capriole in tutte le direzioni. E in effetti il clima culturale post-moderno ha creato una quantità di persone spiritose, che ritengono di essere divertenti, perché - come dice Michelstaedter - rivelano «l'essenza nulla d'una cosa rispettata dagli altri» (O., p. 791).«Ma - continua: Michelstaedter - spirito è l'attività di una persona volta al bassq non all'alto [... ] Ognuno può mettere ciò che è grande nelle_forme piccole che egli può schernire». Mi sembra molto significativo che lo spirito post-moderno venga a noia proprio perché spirito, perché cioè si avverte l'~sigenza di qualcosa che sia insieme più intenso e più corposo. Come mi diceva anni fa a Bahia una mae de santo, una sacerdotessa dei culti afro-brasiliani, gli' occidentali non hanno più né anima né corpo perché li considerano opposti. Hanno solo spirito. «Il mondo è attivo: non è mai neutro - continuava questa sacerdotessa - esso è sempre o a nostro favore o contro di noi. L'importante è riconoscersi in una posizione di forza e ritrovarsi in tutte le cose». Perciò la neutralità, la fuga nel ,passato, il blando edonismo post-moderno ci consumano lentamente e impercettibilmente, lasciandoci senza difesa. Parafrasando Sofocle, Michelstaedter compendia in una sola frase estremamente efficace l'esperienza del forte sentire: «Ognuno in ogni momento della vita si trova colà dove non è più il momento di indugiare, ma è il culmine dell'opera» (O., p. 37). L'acmé, il punto culminante non costituisce perciò un istante raro e privilegiato, una dimensione di vita libera e forte che appartiene ad un lontano passato o ad un improbabile futuro, ma è un'opportunità sempre presente e disponibile per chi ha la modestia di sapersi mettere in ascolto di ciò che emerge nel presente, di ciò che sopraggiunge hic et nunc, di ciò che si manifesta nelle cose. Infatti, Michelstaedter contrappone colui che si mette avanti alle cose, cioè le considera come un mero mezzo per la realizzazione di'un progetto soggettivo, a colui che vive nelle cose: il primo ha col mondo un rapporto strumentale, il secondo invece mette il proprio amore e il proprio piacere nelle cose in quanto sono, nella loro essenza; il primo ama il mare in quanto può farci il bagno, il secondo il mare per il mare; il primo l'amico in quanto è utile, il secondo l'amico per l'amico ... Ora il forte sentire è proprio un vivere nelle cose, un lasciare che esse si manifestino, un aspettare che «quanti hanno forte la scintilla e semplice l'anima» si riconoscano tra loro. Perciò il forte sentire è qualcosa di essenzialmente differente dal vitalismo soggettivistico della contestazione. Ponendosi dal punto di vista di Michelstaedter, non mi sembra dubbio che molti aspetti della contestazione appartengano alla «rettorica», la quale è proprio definita da lui come una «inadeguata affermazione di individualità», come la pretesa illusoria di «costituire una persona», con l'affermazione di una pretesa assoluta (O., p. 60). Il forte sentire è lontano in ogni caso dall'enfasi vitalistica della contestazione tanto quanto dalla fievolità sentimentale post-moderna. Un aspetto essenziale del pensiero di Michelstaedter è proprio una critica radicale del vitalismo, il quale è incapace di vivere il presente, non raggiunge mai il possesso di se stesso, è insaziabile nel chiedere al futuro qualcosa che possa soddisfare la sua fame. La vita di cui ha esperienza il vitalismo è simile ad un peso che non riesce mai a fermarsi, che scende sempre più in basso, che manca sempre a se stesso. Il forte sentire non ha nulla che vedere nemmeno con la nozione moderna di «soggetto» e di «coscienza»: «la volontà di vivere attraverso la sua forma più alta: la coscienza, arriva alla negazione di se stessa [... ]. La coscienza non arriva mai a possedersi perché nel momento in cui è in condizione di farlo cessa di essere coscienza» (O., p. 779). Come diceva Pascal, «nous ne sommes jamais chez nous, nous sommes toujours au dela». Il forte sentire implica l'abbandono di un illusorio rapporto di padronanza nei confronti delle cose e del mondo: bisogna lasciar cadere il proprio pathos soggettivo, spogliarsi di ogni superbia, di ogni prometeismo, di ogni assurda pretesa di essere padrone del mondo, del passato come del futuro, sottrarsi alla «correlazione», lasciar essere le cose e lasciarsi essere come una cosa. La· «persuasione» è «voler avere se stesso nelle cose e nelle cose se stesso» (O., p. 80). Fintanto che prevale il bisogno, il progetto, il desiderio, l'elemento soggettivo, io non permetto che le cose siano per se stesse e si manifestino per quello che sono: le vedo sempre in funzione del mio bisogno, del mio progetto, del mio desiderio: per questa strada è impossibile arrivare ad una forte esperienza e conoscenza di esse. Il forte sentire implica dunque la scomparsa del soggetto, che riduce tutto alla piccineria e alla me_schinità dei suoi scopi e delle sue voglie, dei suoi piaceri e dei suoi dolori. Il forte sentire non è qualcosa che viene dap-interiorità dell'anima, non è l'espressione di un sentimeRto soggettivo, che io sento mio proprio, che mi appartiene, ma proprio al contrario qualcosa che viene da
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