una scelta teorica. Mobilità, dunque, degli assetti teorici, dei temi di ricerca, dei moduli espressivi. Su queste basi non ci può essere scuola, e non ha quindi mai potuto formarsi una «scolastica» foucaultiana. Una scuola ha bisogno almeno di tre grandezze invariabili: una disciplina, consacrata dall'organizzazione istituzionale dei saperi, una lingua stabile, un metodo generale. Niente di tutto questo nella genealogia foucaultiana. Rapportarsi a tale genealogia - che, come è noto, risale a Nietzsche - e portare avanti, in quest'ambito, qualche «ricerca genealogica», non vuol dire essere seguaci di Foucault, epigoni del suo «metodo». Vuol solo dire confrontarsi criticamente con la provocazione del suo insegnamento, con la varietà e la mobilità delle sue problematiche. Vuol solo dire utilizzare qualche attrezzo della sua bofte à outils, della sua scatola di arnesi, in maniera necessariamente parziale, provvisoria, senza nessun vincolo ad una ortodossia che sarebbe, oltre che derisoria, impossibile. Teoricamente impossibile. È una strada impervia, non confortata dalle mode dominanti e dalle politiche culturali egemoni. È una strada seguita da pochi, con lucidità e passione. Note (1) M. Blanchot, Miche/ Foucault te/ que je l'imagine, Paris, Fata Morgana, 1986. (2) G. Deleuze, Foucault, ~aris, Les Editions de Minuit, 1986. (3) In alcune delle osservazioni che seguono, ed in altre che concludono questo articolo, tengo presente l'intervento di Massimo Cacciari comparso all'interno di un servizio dedicato a Foucault sul numero 37 del settimanale «L'Espresso» (21 settembre 1986). Dell'intervento di Giulio Giorello, anch'esso presente in quel servizio, condivido almeno un aspetto: la sottolineatura dell'incapacità della genealogia foucaultiana di analizzare e comprendere saperi ad elevata soglia di formalizzazione, come la matematica. Il fatto è che né l'archeologia né la genealogia sono mai state un metodo generale: sono invece percorsi filosofici intrinsecamente legati alle tematiche specifiche della ricerca. Scelta del tema ed attrezzatura teorica si integrano e si definiscono reciprocamente. (4) Cfr. S. Natoli, Ermeneutica e genealogia. Filosofia e metodo in Nietzsche, Heidegger, Foucault, Milano, Feltrinelli-Bocca, 1981. (5) M. Foucault, L'ordine del discorso, Torino, Einaudi, 1972, pp. 35-40. (6) Pochi hanno compreso l'importanza di questo saggio. Cfr. C. Sini, Il problema della verità in Foucault, in «Il Pensiero», 19, 1974, pp. 20-45, e A. Fontana, Introduzione a M. Foucault, Nascita della clinica, Torino, Einaudi, 1969, pp. VII-XXXVII. Sorprendentemente, anche Deleuze non utilizza questo scritto. (7) Nella penultima pagina di Maladie mentale et personnalité Foucault, dopo aver lanciato una sorta di sfida al paradigma terapeutico della psicoanalisi - rimproverato di «irrealizzare» il rapporto tra l'individuo ed il suo «milieu» - conclude con una nota a fondo pagina, nella quale afferma che le «conseguenze pratiche» delle sue idee si ritrovano in una «riforma di struttura» dell'assistenza medico-psichiatrica, già proposta da alcuni medici. Cita, a sostegno della sua indicazione, un numero speciale della rivista «Esprit» (dicembre 1952), dedicato alla psichiatria. Già qui, anche se in forma ancora ingenua, l'analisi dei concetti e delle teorie non prescinde dalle loro poste in gioco, dai loro effetti di potere. (8) Cfr. AA.VV., Effetto Foucault, a cura di Pier Aldo Rovatti, Milano, Feltrinelli, 1986, pp. 141-152. GroHeschilOOiioèckeHia Samuel Beckett Compagnia e Worstward Ho Tr. it. e nota di Roberto Mussapi Milano, Jaca Book, 1986 pp. 94, lire 9.000 Samuel Beckett La trilogia. Molloy Malone muore, L'Innominabile Tr. it. di Piero Carpi De' Resmini e Giacomo Falco Con uno studio di Theodor W. Adorno Milano, Sugarco, 1986 pp. 442, lire 30.000 L, opera narrativa di Samuel Beckett non ha mai conosciuto, in Italia, giorni felici, sicché non meraviglia che anche quest'anno, mentre in Europa e negli Stati Uniti si sono infittiti, in occasione dell'ottantesimo genetliaco del grande irlandese, 1 convegni e le iniziative editoriali dedicati alla sua opera, gli interventi italiani, se prescindiamo dalle tardive e conformistiche articolesse pubblicate dai rotocalchi, rimangano sporadici e affidati al gusto e alla buona volontà di pochi addetti ai lavori. Ma proprio questi interventi (che, a mio giudizio, sono a modo loro sintomatici della situazione odierna dell'industria culturale italiana) possono contribuire ad allontanare il lettore dall'apprezzamento e dallo studio critico della narrativa beckettiana. Vediamo come. Da tempo s1 attendeva, per esempio, la riedizione in un unico volume della trilogia beckettiana, caso mai corredata di qualche ragguaglio storico e critico che la vast1ss1ma bibliografia permette di mettere facilmente insieme. La Sugarco ha pensato bene di affrontare il caso ripubblicando, tale e quale, la vecchia edizione del 1965, utilizzando ancora, a mo' di prefazione, una testo di Adorno certamente pregevole ma incentrato su un'opera teatrale, Finale di partita. Mi pare degno di nota che l'edizione sia stata riproposta esattamente nella vecchia versione, con gli stessi errori, talora grossolani, con le stesse omissioni e perfino con gli stessi refusi. Qualche esempio potrà illustrare di quali gemme si adorni l'infelice proposta editoriale. A p. 62 1::1 Molloy riferisce di aver accettato .s g:fl dei soldi dalla sua protettrice «doc.,., po ogni incontro» e spiega, in ben ~ diciassette righi del testo francese, -. come si verificassero tali incontri 1; amorosi: l'intero passo nella traE duzione italiana è stato abolito, ~ 5 come se un malevolo censore s:: avesse voluto castigare l'autore ~ per aver tratteggiato in termini poi::: co convenzionali i passatempi ero- ~ tici del suo personaggio. Che una l risibile intenzione censoria non sia ~ stata originariamente estranea all'impresa è suggerito dal fatto che, appena nella pagina precedente, un brano di uguale lunghezza concernente lo stesso argomento risulti ugualmente eliminato; ma è anche vero che in altri luoghi i tagli sono stati operati su contenuti del tutto inoffensivi. Sembrerà quasi un po' frivolo sottolineare, a questo punto, sempre a proposito di queste due pagine, paradigmatiche, che i passi di Edith non sono «rapidi» ma «rigidi», oppure che è mortificante accettare che il semicupio rilassasse Edith, poiché in realtà si tratta di un «rammolliva», con ovvio gioco di parole sul nome di Molloy. Eppure è arcinoto che in Beckett ogni parola dovrebbe essere soppesata tenendo conto della finezza dei rimandi (culturali, etimologici, autobiografici ... ) che costellano il testo. Senza tediare il lettore con la lunga lista di errori e imprecisioni che infestano questa edizione, vorrei ricordare, mestamente, che una revisione di queste traduzioni era già stata realizzata nella collana degli Oscar Mondadori e che il testo mondadoriano, oggi esaurito, era di gran lunga più attendibile anche perché ristabiliva l'originale nelle lacune e ovviava agli inconvenienti dei refusi che, nell'Innominabile, vanificano il fine gioco beckettiano compiuto sugli scarti da un pronome all'altro. (Ma già a p. 61, per es., dove è stampato «parlo di caso» si deve invece leggere «parla di caso» ... ) Si potrebbe sostenere che, a distanza di vent'anni dalla prima edizione della abominevole traduzione ora ristampata, altri editori affrontino Beckett con maggiore cautela, ma anche questo assunto ha un valore puramente statistico perché una certa disinvoltura nell'approccio dei traduttori sembra sopravvivere a ogni precedente catastrofe. Considero qui il caso di Compagnia per tre ordini di motivi: perché costituisce un altro curioso esempio di recidiva, essendo stata la traduzione già pubblicata, tale e quale, nel 1981, a Firenze, con testo inglese a fronte; perché la traduzione è stata gabellata per «eccellente» da Claudio Gorlier, su «Panorama»; perché, infine, Compagnia è certamente una delle opere in prosa più geniali e più acclamate tra quelle scritte da Beckett nell'ultimo ventennio. L a nuova edizione pubblicata dalla Jaca Book porta l'indicazione «romanzo», del tutto fuorviante sia perché si potrebbe, se mai, azzardare il ricorso alla definizione di «poema in prosa», come del resto si suggerisce nella quarta di copertina italiana, sia perché Compagnia è stato qm stampato insieme con Worstward Ho, un testo minore del 1983. Il Aldo Tagliaferri traduttore italiano ha ritenuto di affrontare in modo «creativo», si direbbe, lo stile molto conciso e icastico dell'ultimo Beckett, con il risultato che certe soluzioni proposte nella traduzione risultano molto opinabili e altre del tutto inaccettabili. Già nella pnma pagma, per esempio, perché «lo si può affermare» (this he can teli), quando l'originale presenta calcolatamente il soggetto mediante la terza persona maschile singolare? E perché «senza dubbio» quando l'originale dice «di gran lunga (by far)? A p. 29 «un discorso in Bantu o in Gaelico» (speech in Bantu or in Erse) diventa «una parola Bantù o Gaelica»: una modifica senza giustificazioni. A p. 29 perché tradurre You make ground in silence con l'ampolloso «Approdi nei fondali in silenzio», quando basterebbe, letteralmente, «Tu cammini [o vai avanti] in silenzio»? A p. 34 un noto episodio autobiografico viene reso irriconoscibile da una traduzione eccentrica: «In alto in cima alla murata altissima» (letteralmente e correttamente: «Ti trovi all'estremità del trampolino»). A p. 36 manca un pezzo di testo che in italiano suona: «Un giorno! Alla fine. Alla fine proferirai ancora». E c'è anche di peggio: nelle pp. 52-53, dove intervengono come voci-personaggi le lettere M e W (gli identici contrari ricorrenti in tante altre opere beckettiane), il traduttore ha pensato di usare le lettere U e D, che non trovano assolutamente una giustificazione nel contesto dell'opera beckettiana. E non basta ancora, perché D, nonostante ogni evidenza grammaticale, viene usato al femminile sicché l'opposizione tra le due lettere sembra adombrare un rapporto tra Uomo e Donna. Tutto ciò è insensato e arbitrario e non merita ulteriori commenti. Presa l'elementare precauzione di non perdere mai di vista il testo inglese, si può tentare di formulare una proposta di lettura critica di Compagnia. Compagnia discende, pur nella sua originalità, dall'impianto retorico della trilogia, dall'autointerrogazione di Malone intento a scrivere per ingannare una lunga attesa, e dalla accelerazione che tale procedimento acquista nell'Innominabile, dove ha inizio quel vertiginoso dramma della pronominalità che qui, riproposto nei termini più ':':ssenziali della sua logica e proprio per questo caratterizzato da uno sviluppo molto cogente, mantiene una funzione primaria. Inizialmente una persona sembra affidarsi a una voce che le detta il da farsi, ma lo sdoppiamento tra chi parla e chi ascolta si rivela più che mai ambiguo, col procedere della narrazione, perché nulla induce definitivamente a ritenere che la voce parlante sia esterna rispetto a chi la ascolta, e rimane pertanto valida l'ipotesi, classicamente beckettiana, per cui una terza persona ascolta la voce parlante e percepisce l'ascoltatore. L'ascoltatore-scriba, insomma, ironicamente sovrapposto anche qui alla figura del Creatore laddove viene rilevato che la data della morte di Cristo coincide con quella della nascita dell'autore, ci permette l'accesso alle altre due- personae m uno sdoppiamento che non conosce fine: il Creatore, che è anche creatura di se stesso, a rigore non parla di sé perché, per costruzione, può solo parlare dell' «altro~>.(Non altrimenti, pare lecito chiosare, all'io freudiano non è concesso parlare dei suoi padroni, il super-io e l'Es, se non assumendo nei loro confronti una distanza che, necessariamente, gli impedisce di vedersi e dirsi nella sua totalità.) Non si vede a quale finalità provvidenziale si aggrappi la nota che accompagna la traduzione italiana per liquidare «definitivamente» la criticità come un gingillo «novecentesco», se non per affidare Beckett a una «pietà» e a una «fratellanza» che sono certamente pie e consolatorie ma non beckettiane. Come scavalcare la cns1 quando tutto è sospeso nel dubbio, quando incerto è chi parli e dove la voce parli? Negazione sistematica delle cosiddette evidenze dimostrative tanto del linguaggio quanto della percezione, Compagnia è, esplicitamente, costruito con tante ipotesi e divagazioni che in qualche modo vorrebbero rispondere, smentendosi ad ogni passo, a tali quesiti: non diversamente da Malone la persona si rassegna ad alternare la registràzione della situazione attuale ai ricordi e a tenersi così compagnia. Drammaticamente solo, come evidenziano le ultime frasi del testo, il soggetto si tiene compagnia nella coscienza di non essere padrone di se stesso, misurandosi ancora con quel dissidio tra coscienza e soggettività e quell'insuperabile insufficienza del linguaggio che restano i cardini della poetica di Beckett. ' E sintomatico che chi vuole scartare l'impellenza della criticità preferisca sorvolare sul sense of humour che, anche in questo caso, permea il testo beckettiano fino a costituirne una costante filigrana. Le pretese scientifiche e oggettivistiche dell'epistemologia occidentale più classica costituiscono un ovvio bersaglio ed è evidente che per questa via Compagnia riprenda, e in un certo senso perfezioni, la sequela di riferimenti al Metodo cartesiano contenuti nella trilogia. L'ottimismo epistemologico si capovolge umoristicamente in scetticismo radicale: si veda l'invenzione della storia della mosca (p. 41), oppure, date le premesse, la battuta con la quale si chiede se sia possibile ipotizzare un odore per il «creatore» (p. 57), oppure il ritornello del «fino a un certo punto», tipicamente critico («Più basso il livello di attività mentale migliore la compagnia. Fino a un certo punto»). L'alternanza tra questi passi umoristici e i quindici ricordi relativi a un passato che grava sul presente ripropone quel moto pendolare (tra l'impossibilità di dire e la necessità di dire, tra silenzio e parola, tra innocenza e colpa) che si situa al centro dell'op~ beckettiano. Soprattutto occorre sottolineare come acquisti rilevanza, in Compagnia, la problematica della coscienza, fin dalla prima frase, che calza perfettamente con le tesi illustrate da Julian Jaynes nel suo geniale saggio sulla nascita della coscienza: «Una voce arriva a qualcuno nel buio». Come gli eroi dell'epica più antica, la persona beckettiana s1 presenta, inizialmente, assoggettata alla «voce» esterna e destinata alla passività; la perdita dell'io, come spiega Jaynes, consegue da questa situazione coscienziale arcaica e l'aspetto allucinatorio della voce causa, come corollario, disturbi dei confini dell'immagine corporea. Ma Beckett fa nascere il numen-creatore solo per poi negarlo sul versante della coscienza critica moderna, per metterlo alla berlina come «Inventore inventato che inventa tutto ciò per compagnia» (p. 53) e per evidenziare come un bisogno di compagnia nasca da una solitudine originaria. Si tratta di una tematica antica quanto le Upanisad: il Creatore crea «perché ognuno è atterrito quando è solo». Non sorprende che, per ovviare alla solitudine conclusiva ed esplicita della persona beckettiana, qualcuno insuffli nel testo una dimensione beatifica, per esempio traducendo field ( campo visivo) con «firmamento» (p. 36). Anche i traduttori, a quanto pare, odono voci e agiscono di conseguenza. Meglio ricorrere, tuttavia, in casi del genere, direttamente alla compagnia di Beckett, ed evitare quella dei suoi traduttori italiani. E di questo consiglio potrebbero valersi anche i tecnici della televisione della Svizzera Italiana che, in una interessante trasmissione dedicata recentemente a Beckett, hanno sballato la visualizzazione dell'episodio del trampolino appunto perché si sono basati sulla traduzione italiana qui sopra citata.
RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==