bro destinato ali' elzeviro di terza pagina avrà un certo giudizio e questo è in un certo modo già determinato. Sono anni che a intervalli regolari si parla della questione della stroncatura, al grido: ah che peccato questa letteratura, questa critica muore perché non ha stroncature! Io anche qui ho i miei dubbi profondi e non solo perché è già stato detto che stroncatura non è lo stesso che serio giudizio negativo e soprattutto non è lo stesso che giudizio anche negativo, ma fatto sui testi, motivato e secondo un certo criterio di procedura. Generalmente la strada delle stroncature, tanto desiderata, è solo il gesto becero dello schiacciare i piedi, del dare una gomitata nello stomaco, del capovolgere delle gerarchie, magari inattendibili, allo scopo di stabilire altre gerarchie; quindi anche la stroncatura in questo senso fa parte di una società non della scrittura, ma dello spettacolo. È il corrispondente inverso di Pippo Baudo, l'esatto opposto. Non mi unirei mai alle grida di rimpianto, anche perché se ci sono molte cose da rimproverare ai critici italiani, non sarà certo la deficienza di stroncature l'addebito più grave. Riprendo un'altra cosa che aveva detto Raboni, perché in fondo risponde a una delle domande. Raboni ha detto: parliamo della critica «militante», non invischiamoci nella critica che propone strategie o metodologie e sistemi. Ora quello che Raboni mette fuori della porta deve rientrare per forza dalla finestra; cioè l'insignificanza, che è vera, di molte delle critiche, delle scritture, così presuntamente critiche delle recensioni di libri che si leggono, è data dal fatto che chi le scrive è assolutamente o quasi totalmente sprovveduto di un sistema, di una metodologia, di una tecnica per leggere, per rendersi conto che il libro non è un'informazione che viene portata al lettore, come ci si informa degli ultimi vestiti delle sfilate di Armani o come ci si informa degli eventi di cronaca, ma è un lavoro che deve esser fatto su un oggetto di parola, sul linguaggio. Quindi se il critico (anche se fa solo le sue trenta righine in fondo alla pagina) non ha almeno un'idea di come è per lui il processo critico, il processo di ingresso e di confronto con un linguaggio, sarà perfettamente inutile leggere le pagine letterarie di un giornale; esse resteranno quelle che sono cioè superficiali, che rispondono alle attese, o non rispondono alle attese, delle case editrici. Volevo correggermi perché mi sono sbagliato nel fare un esempio. Quando dicevo un'informazione come le sfilate di moda, ho sbagliato perché una delle richieste che i direttori delle pagine culturali fanno ai critici è di scrivere più semplice, più chiaro, «perché siete complicati, la gente vuole scrittura semplicissima, esemplificata al massimo». Il che non è vero, perché una pagina letteraria di un quotidiano si dirige non a tutti i lettori, ma a quelli che hanno un interesse per la letteratura o per i libri, non dico che siano tutti laureati in semiologia o in strutturalilr) smo ma hanno degli interessi par- <::i ticolari. D'altra parte la conlraddi- -~ zione è evidente. Se leggiamo le c::t. pagine dei quotidiani sulla moda, ~ lo facciamo sempre con grande di- -. vertimento, con grande interesse, ~ perché vi si trova un linguaggio -e:, E ( quelle scritte bene naturalmente) Il) 5 anche se quelle cose io non le capii::: sco completamente. I termini tee- ~ nici nelle sfilate di moda, quando i:! li usa la mia amica e collega Adria- ~ na Mulasano, che è una compe- l tente, sono rigurgitanti di termi- ~ nologie strettamente, rigorosamente tecniche sui tessuti, sulle tecniche di lavorazione, i disegni ecc. Io non capisco tutto ma leggo con uno straordinario piacere perché mi accorgo che è un linguaggio. Non è dunque vera questa famosa diffida fatta a chi scrive, agli infelici che scrivono di libri sui giornali, per cui bisogna semplificare al massimo, non dire possibilmente nulla se non quello che si presume che il lettore si aspetti. Però il lettore qualche cosa s1 aspetta. Mario Spinella V orrei fare un'osservazione preliminare: intorno a questo tavolo sono largamente prevalenti critici che sono anche scrittori. È un fatto che mi sembra meriti una certa considerazione. Direi che una delle modificazioni rispetto a 40 o 50 anni fa è proprio questa: allora era molto più diffusa una separazione netta tra il critico e lo scrittore; a parte occasionalmente qualche critico che scriveva, il critico era critico: De Benedetti era critico, Pancrazi era critico, per non fare che due nomi tra i tanti possibili. Oggi invece è molto frequente questa natura mista, non dico che sia né male né bene, è soltanto una constatazione di un certo mutamento. Questo, secondo me, rende particolarmente pertinenti alcune domande che ha fatto Porta, per esempio la domanda: che cosa uno scrittore si aspetta dalla critica. lo come scrittore che cosa mi aspetto dalla critica? Lo dico con molta franchezza senza nessuna intenzione apologetica. Mi aspetto quello che Porta poneva come secondo interesse: che mi aiuti a capire che cosa sto facendo, mi corregga, mi emendi, se possibile sottolinei quanto di positivo ci può essere nel mio fare e contribuisca a far sì che possibilmente nel libro successivo, se vi sarà e quando_ ci sarà, io tenga conto di quanto mi è stato fatto osservare. Questa mi sembra una funzione importante e soggettiva per uno scrittore, anche se sono d'accordo con quanto è stato rilevato, che l'oggetto fondamentale del discorso critico di questo tipo militante è il lettore, al quale bisogna soprattutto guardare. Con quale intento? Non mi pento di fare uso di una formula forse banale e controcorrente: io direi etico e pedagogico. Etico appunto perché credo che il primo dovere del critico sia quello di cercare di sforzarsi, con tutti i limiti che una posizione di questo genere è consapevole di avere, di evitare, di sfuggire come la peste le sollecitazioni di tipo spettacolare, commerciale, editoriale. Se il critico usa questa modalità e se ha dei lettori che lo seguono, in un medio termine i lettori se ne accorgono e rispettano il critico. Pedagogico, perché il critico deve aiutare a selezionare le letture e possibilmente a scegliere quelle letture che il critico, a ragione o a torto, evidentemente, ritiene qualitativamente tali da elevare il livello intellettuale, culturale, morale, vitale dei suoi lettori. Ecco quindi che la problematica del critico deve essere quella di muoversi lungo un asse di questo genere; con un'altra struttura etica a monte che è quella cui or ora alludeva Giuliano Gramigna; cioè il critico non si può improvvisare critico, direi al limite che è più facile improvvisarsi scrittori che critici. So quanta fatica costi diventare scrittori ma a volte ci sono scrittori che quasi per una forza nativa e ingenua ottengono dei risultati. Il critico se non ha una sua metodologia, se non ha una sua preparazione o formazione ricca e continuamente aggiornata non può fare il suo lavoro, è un dilettante. Poi se un critico è un bravo scrittore è un'altra cosa. Il critico deve avere una cultura teorica. Non a caso, se mi è lecito esprimere un giudizio, trovo che oggi il miglior critico militante italiano è proprio Giuliano Gramigna, proprio per lo sfondo che dietro ad ogni suo articolo anche un lettore di minima cultura avverte. Conoscenza e della semiologia e della storia della letteratura e della psicoanalisi, cioè di quegli strumenti critici ben precisi, ben definiti che entrano poi in gioco nel testo che di volta in volta Gramigna ci presenta. Mi sembra un fattore non secondario IO quanto propno una preparazione di questo genere può dare una continuità al discorso critico, sottrarlo all'impressionismo della prima lettura con lo sguardo rapido, alle sollecitazioni dall 'esterno e può dare la sicurezza, ovviamente sempre attraversata dal dubbio che sempre un intellettuale non può non avere. La questione della stroncatura è secondo me minore, cioè i giudizi critici negativi di un'opera non variano la funzione critica, ma hanno un loro valore sia verso l'editoria che nei risvolti dei lettori interessati. Faccio due esempi personali. Quando è stato pubblicato per la prima volta un romanzo assai montato prima della sua uscita, Horcynus Orca, ne ho fatto una lettura critica assai negativa per il settimanale cui collaboro «Rinascita». Debbo dire che nell'ambiente della casa editrice che aveva pubblicato il libro ho avvertito un gelo che solo il tempo ha superato, ma la prima reazione è stata di considerarmi colui che aveva tradito lo sforzo che la casa editrice aveva fatto! Questo per quanto riguarda il rapporto critico-editore. Ma più mi ha intrigato il riscontro nei lettori. Ho avuto e continuo ad avere ammirazione per l'o- . pera di Elsa Morante, prima dello spartiacque de La Storia. Quando è uscita La Storia e successivamente quando è uscita Aracoeli, ho espresso giudizi fortemente negativi e li ho scritti. Ebbene, siccome mi capita di avere incontri con il pubblico popolare, questo giudizio negativo mi è stato rinfacciato molto, soprattutto per La Storia. Debbo dire che quello che mi è stato detto dal pubblico sulla mia critica non ha mutato un giudizio che mantengo, però un po' mi ha turbato perché evidentemente mi ha fatto capire i miei torti, cioè la mia incapacità di motivare in maniera sufficiente per un pubblico non specializzato, popolare, un giudizio che non corrisponde a un giudizio spontaneo del lettore che purtroppo risente di montature di tipo esteriore anche editoriale. Credo che un interrogativo di questo genere il critico deve saperlo tenere presente per stringere il più possibile i nodi che lo possono impegnare nei confronti di un lettore nell'analisi di un'informazione critica. Per quanto riguarda l'ultima questione, chiedere ai critici le loro credenziali vuol dire in sostanza· interrogarli criticamente sul loro metodo, chiedere che cosa vuol dire selezionare, scegliere. Se tutto sta sullo stesso piano la critica è inutile, ed è eticamente negativa. Aldo Tagliaferri e ~reo di riunire i pun_tiche mi mteressano maggiormente prendendo spunto dall'articolo di Alberto Arbasino che Porta ha citato e che ricordo molto bene soprattutto perché nella parte iniziale mi vedeva largamente d'accordo. In sostanza Arbasino, esprimendo un punto di vista che mi pare non solamente suo ma di tanti, lamentava una caduta della critica letteraria più recente nella burocratizzazione. E con la solita verve parlava di una cFitica diventata soprattutto un modo per formarsi delle clientele; parlava anche di esercizi di galateo universitario. Io sono largamente d'accordo nell'accogliere queste formulazioni come esatte, rispondenti alla situazione quale essa veramente è. Quando Arbasino parlava dello stridore credo volesse associare la critica all'idea di stroncatura, che in un clima di contrapposizioni di gruppo, accademiche, di schieramenti letterari ecc. anche la stroncatura diventa uno stridore proprio perché sembra la manifestazione di oscuri mandanti, come dice lui. E allora ha ragione, proprio perché la stroncatura non è la soluzione del problema, anche se può essere salutare. Ma il punto non è questo. Si direbbe che si possa partire dalla descrizione appena data come da una fotografia della famiglia italiana quale essa è. Allora le cose non sono rosee, esattamente perché non sì vede facilmente una via di uscita da questo tipo di costrizione che non nasce dalla letteratura, che la letteratura e la critica letteraria subiscono, ma che nasce altrove. Debbo dire che la critica letteraria soffre di un male che non è semplicemente suo ma che ha radici nella società, nella nostra politica, e nell'ideologia italiana, m fondo. Quindi il discorso si fa molto complicato perché non esiste un formulario, che io sappia, di consigli per un buon critico e per una buona critica: agisce la sensibilità delle persone diverse. Già le persone sedute intorno a questo tavolo scrivono e giudicano partendo da formazioni diverse e da sensibilità molto personali, come è necessario che sia e tuttavia ci sono dei pericoli che a quanto pare molti denunciano. I pericoli sono soprattutto quello della burocratizzazione e di una rinuncia all'uso di questo mettere in crisi, che è uno dei significati di critica. Si tratta dunque di un conformarsi, d'un partecipare a ragioni di gruppo, di giornale, settari, che eludono la questione del giudizio specifico. Io sono d'accordo con Spinella quando sostiene che il compito del critico è anche quello di chiarire: se non si chiarisce il limite specifico del testo non si assolve a questo compito, lo si elude. Naturalmente sappiamo tutti che non possiamo mettere sullo stesso piano il lavoro di un teorico della letteratura perfettamente a suo agio sulla lunga distanza con la terminologia che è strettamente necessaria (se non si vuole ricominciare ogni volta dalla genesi) per esprimere certi punti di vista su questioni molto problematiche e vitali; e d'aJtra parte la situazione della critica giornalistica, che ha i suoi spazi e i suoi limiti, non esclude assolutamente che il critico, in grado di fare un buon articolo giornalistico, non abbia un retroterra teorico; al contrario, è proprio la formazione teorica robusta, auspicata da alcuni di voi che permette poi, anche se con una certa insufficienza di motivazioni, di esprimere un giudizio. Voi sapete che sostanzialmente si crea un rapporto fiduciario fra il lettore e il critico. Certi critici sono seguiti più di altri, non per il profilo, per la cultura che hanno, ma perché sono riusciti a costruire questo rapporto con un certo pubblico che segue un certo discorso a un certo livello. I livelli sono tanti, non c'è motivo di insistere né su un abbassamento né su un innalzamento brusco delle questioni teoriche. Certamente non si possono affrontare le questioni teoriche in un elzeviro di un quotidiano. Altrettanto certamente chi ha una buona formazione teorica riesce a far un migliore uso degli spazi che gli sono concessi. Io credo che la critica letteraria oggi si possa giovare, se lo vuole, di due punti di forza: uno è la possibilità di esprimere un libero giudizio; intendo dire che mi sembra vitale in queste circostanze che il critico si esprima con libertà di giudizio, e quando dico libertà intendo proprio sottolineare il fatto che oggi l'industria culturale, che sta puntando molto più su esiti quantitativi che qualitativi, ha tutto l'interesse di rafforzare il clima conformistico. Ahimè, questo accade, e sono pochi a quanto pare a resistere a questa seduzione che mira alla creazione delle clientele, a mantenere dei buoni rapporti e poi casomai a perpetuare il «degrado accademico», perché anche questo avviene nelle pagine culturali dei nostri giornali. C'è una specie di odio oggi per la teoria, questa mi pare la verità più amara da mandar giù, e questo odio nasce da un sospetto nei confronti dell'intellettuale, nasce proprio dal sospetto che la sua funzione sia di mettere in crisi dei valori presunti, di smuovere il paesaggio delle idee immobili, che invece il mondo istituzionale italiano vuole conservare a tutti i costi. Ora la letteratura si gioverebbe certamente di un 'assistenza critica, quella cioè che possono fornire soprattutto i giornali, se facesse anche più largo uso di riferimenti ad altre discipline. La mia vecchia idea è che un critico letterario non deve avere soltanto interessi letterari, ma deve essere aperto agli interessi nei confronti delle scienze umane, in generale, della semiologia, della linguistica, dell'antropologia e della psicoanalisi. Oggi la convergenza dei momenti di crisi di queste scienze porta ad una coerenza di visione e di coscienza, non ad una dispersione .•Ma è sintomatico che oggi si vada a chiedere a critici che non s1 occupano di queste scienze, per esempio che cosa pensino di Lacan, con ovvi risultati che vanno dal ridicolo al mostruoso. Giovanni Raboni V orrei chiarire quello che ho detto all'inizio: non è che la critica militante sia diversa dalla cntica IO generale: è una questione non di chi la fa, ma di sedi diverse. Non si può essere buoni critici militanti se non si è buoni critici in generale, se non si hanno buone basi strumentali o tecniche o teoriche; però è importante mettere l'accento sulla sede che qualifica la critica militante oppure no. E certo molto difficile uscire dalla descrizione di una situazione sicuramente negativa - la rete delle clientele, le convenienze, le complicità ecc. - che sembrano praticamente impedire qualsiasi libertà di critica. Quello che diceva Enzo Golino: la critica è ormai solo questa cosa, è una debole, flebile amplificazione della strategia editoriale, è ben vero, però non si può stare al gioco, altrimenti. è inutile che parliamo, è inutile che ne scriviamo, è inutile che ci poniamo come possibili propositori di un modo di fare critica. Mi viene in mente Jacovitti che disegnava un maiale e scriveva: Sono un maiale per colpa della società. È vero, siamo forse tutti dei critici impediti per colpa di tutte queste cose, però c'è un margine di responsabilità; si tratta proprio di trovare il modo di forzare questa piccola apertura, questa piccola crepa che forse ancora si offre alla nostra responsabilità individuale.
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