Alfabeta - anno VIII - n. 86/87 - lug./ago. 1986

~ ~ .5 ~ I:). ~ ...... .9 ""' o ~ -- o ·- - ~ - t---. i i:: .S! c:u -Cl ~ - ~ 11 1986, rispetto alla stagione scorsa, è contrassegnato - .almeno per ora - da un notevole numero di esordi narrativi, tra cui (citando qua e là, con alcune inevitabili omissioni) La stanza chiusa di Angelo Mainardi (Carte Segrete), La ragazza col turbante di Marta Morazzoni (Longanesi), Giro di voci di Vieri Razzini (Feltrinelli), Marianna la pazza di Roberto Parpaglioni (Aelia Laelia), Si sa dov'è il cuore di Massimo D'Avack (Rusconi), Diario di un millennio che fugge di Marco Lodoli (Theoria), Salvataggio terminale di Luciano Angelino (Costa e Nolan). Potrebbe sembrare che le porte dell'editoria si schiudano finalmente (dopo le annose lamentele di chi si era visto in tutti questi anni rifiutare i propri manoscritti); in realtà il discorso è più complesso e sfumato, in realtà sono ormai in molti a capire che il romanzo, se non adulterato o mistificato, può essere una notevole sonda in una situazione - quale quella odierna, conflittuale e amaramente post-ideologica - che pur procedendo a tastoni, per successivi esperimenti notevolmente divaricati tra loro, tende, nei momenti migliori, a un'autoanalisi non banale. Anche oggi, tuttavia, anche entro uno scenario che accentua gli elementi di «montaggio» culturale, il pathos dell'assenza o dell'altrove, il testo ovviamente continua ad essere non solo insostituibile ma più sintomatico che mai, denso di risvolti che aprono spiragli sulle nuove storie stimolate dall'invenzione che, almeno ipoteticamente, pare volersi prendere delle rivincite. La stanza chiusa di Angelo Mainardi, che è della generazione di mezzo, dimostra, se non altro, che la nuova narratività non occorre che coincida con l'aggressività promozionale o l'ipotetica prosa da bestseller che in alcuni dei più 48. SapientAi /~Jordienti recenti testi proposti dalla nostra industria culturale possono aver fatto storcere la bocca ai più avvertiti. Tema di fondo del romanzo di Mainardi è l'incesto, in questo caso tra fratello e sorella, il nevropatico Emile e la contorta quanto seducente attrice Alexandra. Ad agire da catalizzatrice è un'anziana principessa che introduce uno scenario ammaliante e decadente e che si srotola infingardamente tra le due guerre, la Parigi attuale e quella occupata dai nazisti, una Spagna emblematicamente lacerata dalla guerra civile, oltre che una Berlino grondante di falsa enfasi imperiale. Cui si aggiunge un oscuro signore del Midi, anziano protettore di Alexandra. Un pot-pourri, come si vede, tra simbolico e esistenziale, che riconosce il suo nodo centrale nella trasgressione, quanto a dire uno dei massimi punti focali del romanzo novecentesco, il quale ha sempre, per l'appunto, riconosciuto come uno dei suoi padri putativi il Divino Marchese. Ma Mainardi, che ha voluto caricare il suo plot di così acute suggestioni manieristiche, è anche consapevole che la vera protagonista del labirinto di un mondo preso tra decadenza e trasgressione non può che essere la scrittura. Ed è qui, su questo dilemma, o punto d'assenza, che il puntiglio narrativo dell'autore esercita il suo potere radiografico intorno a creature torturate da un arabescato nulla, da uno spiraglio sulla conoscenza che si trasforma in vertigine degli abissi. «Non sapeva sopportare l'angoscia», dice la principessa a proposito di Alexandra. «E che serve allora stringersi nel buio se si ha terrore di tutto? Tra lenzuola disfatte quelle notti berlinesi non potevano salvarla. Ah, non era così che volevo vivere. Povera fragile dannata creatura». Ecco una voce monologante che si carica di testimonianza .,. \.,. 44 nei confronti di un'altra creatura. Che però è implicata ben al di là di una qualsivoglia pietà o anche di un amore in termini di dilemma, o di rovello. In realtà la confessione, accorata quanto si voglia, della principessa, rappresenta l'equivoca voce della scrittura, quel crudele sguardo sul reale che nel suo perforante gelo niente e nessuno può risparmiare. Per Mainardi, quindi, ma non solo per lui, la scrittura è trasgressione; non per capriccio o per sadismo, bensì per la natura intrinseca di un'espressione, quella del linguaggio, che consuma, anzi brucia, l'oggetto del suo sguardo. La stanza chiusa, quindi, è l'atroce quanto inevitabile presa di coscienza della totale chiusura dell'esistenza vissuta alla luce della scrittura, e della natura vampiresca del rapporto trascritto sulla pagina. Stanza chiusa, carcere dell'io, consunzioni di rapporti che muoiono ancora prima di nascere, traditi dal bisogno d'incesto, cioè di trasgressione, che è propria dell'esistenza al confine ultimo della consapevolezza. A nche Parpaglioni, nel suo breve romanzo Marianna la pazza, porta alle ultime conseguenze lo straniamento di una donna che, rifiutandosi di capire ciò che in effetti è puramente tautologico, cavalca il fenomenologico nel senso di una apparente razionalità che vergognosamente occulta il suo risvolto di irrazionalità globale ed anarchica. Parpaglioni, in particolare, adopera astutamente la forma del montaggio, combinando la narrativa diretta, il diario e la confessione. Vicino a un certo Pirandello, o al Moravia di Al{ostino, la matassa narrativa coinvolge nella sua lavica discesa i più diversi frammenti di una scrittura che compone un ritratto femminile della follia violenta e parricida che al fondo nascon38. , . ..fO. Antica tavola degli elementi t h de un interrogativo di coscienza, una perplessità, sia pure orgogliosa e perseverante, delle proprie azioni che sono l'oscuro riflesso di una vita sbagliata, oppure la passionalità circa una finalità tragica e perversa. Già all'inizio del racconto il fidanzato di Marianna dice: «M'inginocchiai un'ultima volta ai suoi piedi, anche se ormai avevo capito che era inutile sperare». Parpaglioni, in realtà, ha scambiato l'inizio con la fine. II suo senso del montaggio porta a una scrittura amalgamata con un senso enigmatico e rovesciato della trama. La scrittura può essere, evidentemente, alleata del coinvolgimento narrativo col lettore, in un 1986 che sta riportando in auge certi tasselli del puzzle narrativo da almeno un quindicennio in disuso, senza però far parte in nessun modo di un progetto di riflusso. 11che dimostra, a suo modo, anche Vieri Razzini che con Coro di voci ha costruito, all'interno di un ambiente di doppiaggio cinematografico, una sottile trama di suggestioni e contatti che, quasi corteggiando la forma del thriller, ne entra e ne esce, jamesianamente assottigliando e complicando la psicologia dei personaggi, fino a far vivere per proprio conto le implicazioni e i riverberi. Mentre anche il Massimo D' Avack di Si sa dov'è il cuore mutua dalla mitologia del filmwestern americano una storia secca, hemingwayanamente paratattica, e astutamente «on the road». Come a dire che il romanzo d'azione può benissimo convergere con l'ironia metaromanzesca di una coscienza europea «critica» che si lascia a bella posta sorprendere dalle trame di un avventurismo di celluloide. Marco Lodoli, appena trentenne, già col titolo Diario di un millennio che fugge mette ambiziosat 40 j"J. mente a fuoco l'obiettivo generale di fissare l'impasto del tempo che si dissipa e, più o meno catastroficamente, condizionerà un ultimo quindicennio che a detta di molti preveggenti della parola e dell'im-. magine sarà consumato tra frustrazioni e più o meno dubbi «sogni di gloria». Romanzo dichiaratamente generazionale, di consuntivo lirico e narrativamente «sfuggente», il racconto di Lodoli coglie, come forse pochi hanno saputo fare in questi anni, la terra di nessuno tra folgo-· razione lirica e banalità quotidiana. Certo, c'è in lui, nel suo intrepido e pigro io narrante, una pervicace tentazione di definire in termini di reale sopravvivenza il nulla che si spande intorno come unico credibile paesaggio. Ecco, infatti, puntuale il commento che può appartenere sia a un indefinito narratore onnisciente che all'io narrante: «In ogni naufragio, prima che sopravvenga l'atroce consapevolezza d'essere soli e in balìa del proprio destino, c'è il dono di un ultimo momento di febbrile eccitazione, in cui ci si inebria di un· inesplicabile, voiuttu~so, sentimento di potenza». Ed è, tutto sommato, innegabile che questa recentissima narrativa di esordi parte con questo «inesplicabile, voluttuoso, sentimento di potenza»; ma è altrettanto innegabile che la dialettica narratologica e post-moderna (anche se il termine non può ormai più soddisfare) di questi sapienti esordienti, arrovellati su una logica di terminazione e decadenza, dovrà ben presto fare i conti con i meandri di un paese che sta emergendo con disordinato e insindacabile affanno e che con estrema difficoltà si presterà alle affabulazioni romanzesche di una letterarietà che non sembra voler rinunciare ai suoi antichi privilegi ed arcadici furori. 47.

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