Alfabeta - anno VIII - n. 85 - giugno 1986

1985), dove corpi e oggetti del reale dickianamente collassano: lacerandosi, esplodendo, transmutando in manichini e fantocci. Quando però lo spazio della visione si apre a prospettive galattiche, diventa nuovamente possibile, per uno scienziato scrittore, predisporre una trascendenza che non equivalga ad oscene transustanziazioni. La moderna space-opera è meno sensazionalistica di quella degli anni venti; David Brin ha ideato un ciclo in cui gli umani, con delfini e scimpanzé «modificati» dall'uomo, lasciano i confini del nostro sistema per scoprire un universo davvero originale, miscela di razze tra il feudal-giapponese e il burocratico. Razze per cui vale il principio dell'elevazione: la razza più progredita (razza patrona) «adotta» uno stuolo di razze «postulanti» ( clienti) e, dopo averle sfruttate per millenni, le eleva ad un rango più alto, modificandole geneticamente e sviluppando le potenzialità del loro patrimonio. In uno scenario che non ha niente da invidiare a Dune (per la visione: un pianeta- all'opposto - interamente ricoperto d'acqua) e a Guerre Stellari (per l'esotismo: l'enorme quantità di razze aliene esibite), si sviluppa una nuova saga che vede la specie dei delfini protagonista della propria e altrui (umana) sorte. I Fini, così vengono chiamati, sono stati sottoposti ad un innesto genetico umano. Si evolveranno progressivamente, pur restando delfini, e in un prossimo futuro avranno addirittura le mani. Nei loro geni esiste un tesoro nascosto. I Progenitori, la razza delle razze che nella galassia ha elevato tutte le altre, forse non si è estinta, come affermano le razze aliene, ed ha scelto i nostri amici mammiferi per· comunicare con gli umani e le altre specie. I Fini evoluti hapno una logica più complessa e immediata di quella umana: algoritmica e allo stesso tempo analogica, cioè sintetica. Essa si esprime attraverso i versi trinari haiku della poesia giapponese, interiorizzata dal pensiero dei nostri amici marini. Inoltre il sogno delle balene, sia esso veicolato dal canto estatico dei Fini o condizione mentale alterata (di trance o contemplativa) di questi mammiferi, risulta essere l'inconscio collettivo genetico, la trama, il microprocessorè", nel quale i Progenitori hanno «registrato» informaticamente, e comunicano, le proprie intenzioni. Ancora l'equazione codice genetico-codice binario. Le capacità primordiali dell'uomo sono quasi del tutto .bloccate e solo i Fini aprono nuove frontiere, al progresso delle diverse specie galattiche, con la loro sensibilità cognitiva super cosciente, miscelando - così sembra - registrazioni e telepatia (i Progenitori sono-per così dire - nell'aria, intangibili, mutati in qualcosa - si presume - di indefinibile), attraverso una diversa capacità linguistica. Il complesso del dottor Moreau è definitivamente superato. Gli animali possono finalmente essere (parzialmente) umanizzati e coabitare con l'uomo nell'universo. L'unico grave errore è negare loro questo futuro sfruttandoli, servendosene, innestando in essi geni di altre specie animali; come nel caso del mostro-assassino che movimenterà, antagomst1camente all'uomo, gran parte della vicenda. Ibrido infelice, nato da un'innesto di geni d'Orca su un delfino elevato. Brio nel suo libro, che ha vinto il Nebula e l'Hugo nell'ottantaquattro come miglior romanzo, dipinge quasi tutti gli umani della vicenda in modo piatto e scialbo. Disegnando altresì una precisa mappa dell'immaginario, e della tradizione del giovane popolo acquatico, prefigura una transmutazione antropocentrica: uno spostamento copernicano cognitivo, il «novum» di tutto un genere letterario. Una trasmutazione che in definitiva significa anche la caduta di ogni limite e barriera tra umano, animale e alieno. Ladanzaa Giavae a Bali Giava-Bali. Rito e spettacolo a cura di Vito Di Bernardi e Adriano H. Luijdjens Roma, Bulzoni, 1985, pp. 348, lire 33.000 N ell'epoca in cui a Giava e Bali c'erano gli olandesi, alcuni scrittori lasciarono memoria dello spettacolo di quelle regioni, e lo fecero con criteri ed intenti assai diversi da quelli che guideranno, negli anni successivi, teatrologi e antropologi, per lo più di cultura americana. A differenza di questi, dediti all'osservazione e all'apprendimento,. i primi furono artisti ed intellettuali che collaborarono dall'interno, vivaci e spregiudicati: anche quando il loro interesse fu puramente descrittivo, contenne sempre il gusto della contaminatio. Furono Louis Couperus, De Kat Angelina, Theodor B. Lelyveld, il tedesco Hans Neuhaus e soprattutto l'altro tedesco, ma apolide e ramingo, Walter Spies. Ad essi si aggiungono personaggi come Mangkoe Nagara VII e Gedé Raka Soekawati, che ai nostri occhi possono ormai apparire come puri rappresentanti della tradizione, ma che nel loro tempo furono insieme occidentalizzanti ed innamorati del proprio paese ed usarono influenza e potere, come sovrani e governatori, per immettere elementi nuovi nel corpo della cultura tradizionale. Vito Di Bernardi e Adriano H. Luijdjens hanno composto un'antologia dei loro scirtti: siamo in gran parte negli anni Venti e Trenta, spesso nell'area della rivista olandese Djawa. Sono scritti che fino ad oggi erano rimasti fuori dalle normali bibliografie sul teatro giovanese e balinese, ma che costituiscono una documentazione basilare intorno ad un «classico»della cultura teatrale moderna. Perché, bisogna sottolinearlo, nell'odierna cultura sullo spettacolo le rappresentazioni balinesi (co- °' sì come il No o il Kabuki, l'Opera ("\'I c::s di Pekino o il Kathakali) sono luo- .s ghi frequentati e presenti quanto la ~ sceha prospettica o la drammatur- ~ gia del melodramma. È solo igno- ~ ranza continuare a considerarli a ~ parte, come prodotti indissolubili ~ dal loro contesto, meno vicini a noi ·bo di quanto non lo siano, poniamo, la ~ poesia di Omar Khayyàm o la mut:1 sica di Monteverdi, che apparten- ~ gono, come quasi ogni altra opera -c d'arte lontana, a contesti culturali ~ ~ -lontanissimi dal nostro e per noi sostanzialmente quasi incomprensibili. Eppure, nell'opinione vulgata, gli spettacoli orientali restano come eccellenze estranee, come qualcosa che è lecito non capire con la scusa dei paesi lontani. Era imbarazzante leggere, sui giornali italiani, gli articoli in occasione della grande tournée di Kabuki organizzata dalla Biennaleffeatro nei primi giorni del maggio 1985: non tanto gli articoli dei critici più francamente inesperti, ma quelli ampi, apparentemente informati ed entusiasti. Con la sola eccezione dello scritto di Volli (la Repubblica, 7/7/'85) e di qualche foglio provinciale dove però hanno accesso dei veri cultori di teatro, negli altri casi sembrava d'essere ai primi anni del secolo: lo stesso stupore privo di supporti culturali, come se decenni e decenni di studi, di esperienze, di visioni non avessero lasciato traccia. Si ricomincia sempre daccapo, nell'ingenua credenza che i teatri orientali siano teatralmente esotici. I n opposizione a questa mentalità, il libro Giava-Bali trova tutta la sua importanza: fornisce documenti nuovi, approfondite ricostruzioni che permettono una conoscenza meno svagata di spettacoli (danze, teatri d'ombre, rappresentazioni drammatiche, farse e rituali) che ormai fanno da anni Ferdinando Taviani parte del repertorio teatrale internazionale. Particolarmente importante, da questo punto di vista, la traduzione (quasi) completa di una antica redazione in giavanese del mito di Calonarang, che costituisce il testo (non scritto) di riferimento per gli spettacoli balinesi basati sul conflitto fra una Rangda ed un Barong. In un libro di questo tipo, che non è un'antologia compilativa, ed è spesso il frutto di scelte personali, manca stranamente ogni notizia sugli interessi e le competenze dei curatori. Supplirò brevemente: l'originale antologia è frutto della collaborazione fra un giovane studioso ed un ottuagenario scrittore. Il primo, Di Bernardi, studia da vari anni - in loco e sui libri - gli spettacoli di Bali. Il secondo, Luijdjens, è stato a lungo corrispondente per l'Olanda dall'Italia, appassionato di balletto, conoscitore delle cultuF. Calceolari, Museum Calceolarium, 1622 re indonesiane, era fra coloro che videro all'Esposizione Coloniale di Parigi, nel 1931, gli spettacoli balinesi e giavanesi da cui Artaud trasse uno dei manifesti del pensiero teatrale moderno. Anni fa, Luijdjens fu intervistato su questo avvenimento per un numero di rivista interamente· dedicato ad Artaud (Il Dramma, maggio 1979, pp. 28-29): i ricordi erano vaghi, ma era interessante l'ossessione, dimostrata anche in quel caso, per il concetto di auten-' ticità o genuinità degli spettacoli tradizionali. Un concetto che. può essere il tarlo segreto degli studi sugli spettacoli di lunga tradizione, e che dietro il mito della purezza non riesce poi a nascondere che la pratica dell'imbalsamazione e della riproduzione accademica. S e questo libro, al di là di tutti i suoi pregi, ha un difetto, è quello di aderire solo ad una delle facce degli scritti che traduce e antologizza; la faccia che guarda gli spettacoli come opere fisse, dove la tradizione sembra sostituire il regista o l'autore, e lascia quindi immaginare una maggiore o minore aderenza all'«autore» originario. Un atteggiamento che negli anni Venti e Trenta era usuale, quasi un riflesso mentale condizionato dalla normale produzione artistica e intellettuale, ma che non era molto più d'un riflesso, se poi si guarda al lavorio culturale di cui quegli scritti erano parte, anche se non sempre espressfone. ·D'altronde, l'antropologo americano Clifford C. Geertz, nello scrivere una prefazione all'edizione francese dei suoi scrittisu Bali, composti fra il 1959 ed il '73 (Bali, Gallimard, 1983), ricorda come tratto caratteristico non solo dei visitatori, ma dei balinesi stessi, il rimpianto, in ogni epoca, per una cultura che sembra ogni volta aver appena perso la sua autenticità. Ho parlato del gusto per la contaminatio o per l'intreccio culturale: non è la stessa cosa del degrado, dell'omologazione. La contaminatio non è il segno .d'una cultura contaminata. Tracce di questo gusto si trovano persino negli artifici retorici dei cronisti: Couperus, romanziere celeberrimo agli inizi del secolo, racconta, nel '23, le danze di corte a Surakarta ·come danze d'eroi shakespeariani, vi vede delle Desdemone, delle Giuliette, delle Ofelie, forse dei Falstaff (p. 49). Similmente, fra i documenti sull'Esposizione Coloniale del '31 raccolti da Nicola Savarese (e che è sperabile si decida presto a pubblicare) vi è una davvero curiosa cronaca giornalistica di Marius Richard (Liberté, 15/8/'31), che si definisce uno «spettatore senza programma di sala» e che racconta uno spettacolo balinese come se riguardasse l'incontro fra Ofelia e Amleto. Ho citato Savarese (autore del bellissimo Il Teatro al di là del mare, pubblicato dalla Studio Forma di Torino nel 1980) perché è il miglior esponente di quel modo di studiare i teatri orientali basato sugli intrecci, sulle trasformazioni, sugli incontri fra aree culturali e tradizioni diverse. La tendenza che segue le metamorfosi, i connubi impensati, i viaggi delle persone e delle forme; e l'altra (rappresentata, nel nostro caso, da questo importante GiavaBali) · che cerca di astrarre forme spettacolari fisseper studiarle in un contesto culturale anch'esso immobilizzato per comodità d'analisi sono due tendenze ugualmente necessarie allo sviluppo degli studi teatrali. Così come la prima degenererebbe passando dalla spregiudicatezza al nichilismoculturale, la seconda degenera se confonde una necessità dell'analisi con un bene culturale. Un'esile nota, a p. 37 di çJiavaBali, ricorda che le grandi rappresentazioni del Ramayana, accanto ai templi di Prambanan, presso Yogyakarta, furono suggerite a Sukarno da «un americano, un magnate di Hollywood». In un'ottica complementare, questa nota diventerebbe il nuclet, di un ampio capitolo: Luijdjens si chiede: cosa c'è di davvero giavanese in queste rappresentazioni? Potremmo anche chiederci: c'è forse qualcosa di davvero hollywoodiano? O non è proprio tipico d'una cultura viva saper tornare a Giava anche passando per Hollywood?

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