Alfabeta - anno VIII - n. 85 - giugno 1986

quello si diceva per la Radio, ciò che i Nuovi Futuristi non sono. Dato che l'idea nuovo-futurista trasforma radicalmente la scena dell'arte contemporanea svuotando nuovamente i contenitori della noia museale dei loro rispettivi ed asfittici prodotti, è sintomatico, in tale luogo, voler riprogettare la realtà per·nuovi versi. Prima regola di tale ricostruzione è quella di negare il quadro, di fuggire il cavalletto come la peste, per anteporgli invece una sorta di «replica» di qualcuno degli oggetti appartenenti all'immane congerie di cose utili-inutili che la macchina della neoindustria sforna quotidianamente· per ·il nostro insopprimibile desiderio tir effimera allucinazione. La loro politica è quindi, ancora una volta, ·.quella di esautorare la superficie dipinta, non tanto per punire se stessi o gli spettatori di chissa quali colpe «originali» (all 'uso dei «concettuali-flagellati»), ma per consacrare l'oggetto· che è protagonista e idolo indiscusso della nuova cultura artistica. Oggetto sempre meno irriso e sbeffeggiato, come succedeva col Pop, oggetto invece amato, vezzeggiato, coccolato, lusingato, reso celebre. Oggetto come status symbol di una società diversa, scafata, raffinata e compiaciuta dèi propri peccati di vanità e di benessere.· I Nuovi Futuristi sono un po' gli Yuppies dell'arte: amano divertirsi, vivere alla grande imponendo al pubblico il loro estro dissacratorio eppur piacevole. Hanno le mani in pasta, peèèano di collusione consapevole. Per questo non si sognano nemmeno di elaborare una poetica, ma al suo posto mettono insieme col l<yo mefistofelico gallerista una «stra\egia», fanno di tutto jJer giustificare l'ostentazione e l'esibizione del prodotto. Sono Y!1 po' come certe soubrettes televi~jve che di romantico hanno poco. olniente, pur apparendoci accattivimti e zuccherose. Seconda regola del gruppo è infatti questa: evitare qualsiasi cedimento al mito dell'artista, esaltare piuttosto l'artigiano, confondere i prodotti dell'arte con quelli dell'industria e del design, spacciare le opere per arredi, perseguire tenacemente la formula del successo. Si potrebbe anche gridare allo scandalo, a questo punto, chiedersi retoricamente dov'è finita l'arte, ma non è il caso. Non viviamo in un'epoca in cui i migliori romanzi vengono scritti col computer? Se la penna è un accessorio obsoleto tanto più dev'esserlo il pennello. Terza e squi~itamente salutare régola nella produzione delle «similcose» (denominazione conferita dai N.F. ai loro oggetti) è di «caricarle» di ironia. Ma anche qui non c'è niente di aspro, nessuna voglia di incenerire; è pure questo un chiaro esempio di «edonismo reaganiano» fatto arte, l'uso della fascinazione, del divertissement per invogliare il pubblico all'acquisto, un po' come succede coi bambini davanti ai negozi di giocattoli. Certo, mi accorgo, nel descrivere, di mutuare anch'io termini da altri linguaggi, di fare come il mixer in discoteca, di andare in prestito dalla televisione, ma in effetti sarebbe bene che mille critici di carta stampata si rendessero conto finalmente oggi, di quanto la televisione, regina dei linguaggi, può su di loro e su tutti, artisti compresi. Quarta massima dei Nuovi Futuristi è infatti quella di non adottare critici nè di essere da loro adottati. A differenza della Transavanguardia questo gruppo non riconosce la paternità di nessuno, né di Bari.Ui, né la mia, né quella di altri e senza dubbio preferisce tenersi, come unico talent scout, il gallerista, un·tipo che, per quanto mirisuita, non ha mai ricoperto d'oro nessun lavoratore della carta stampata. Certamente non si fanno scrupoli di accettare al volo, se una firma del Gotha estetico vuole ricamare di loro. Conforme alla loro moraleimmorale le occasioni non si rifiutano mai, ed è pur vero che dei Nuovi Futuristi si sono occupati svariatissimi freelance nella cui schiera io stessa mi annovero pur con un pizzico di amore in più (anche se mi accorgo che la cosa, del tutto Ok ai tempi della Pivano, adesso è totalmente in disuso nel mondo feroce e lottizzatore della critica d'arte italiana». Quinta ed ultima regola del decalogo (ma sarebbe forse il caso di chiamarlo quintalogo) è quella di concedersi o meglio di «darsi in pasto» a tutti, dalla rivista specializzata al fumetto, al quotidiano, al rotocalco, al giornale femminile e certamente ci si aspetta di vederli da un giorno all'altro, magari sul divano di «Pronto chi gioca?» in Tv. Molti hanno scritto di loro, me compresa, inventando titoli curiosi, trafiletti reclamistici, formule stuzzicanti e divertendosi nel farlo, con un senso quasi di gratitudine verso le sagome luccicanti delle motorette, dei missili, dei cantanti, dei dancers, dei costumi da bagno, opere- di quasi tutte, almeno sino a questi ultimi anni - è l'accecamento dell'artista, che non può sopportare la sua stessa luce, il lampo che metaforicamente lo illumina. Quasi tutto, nel lavoro di Calzo.lari, è l'indicazione di un'impossibilità (il flauto dolce ricoperto di ghiaccio, la scala a chiocciola, anch'essa ghiacciata), dell'impossibilità di agire (Mangiafuoco), addirittura di guardare, Guardare, vedere, capire è insopportabile: il cane albino dagli occhi rosa ultrasensibili alla luce impazzi~ce - come Impazza angelo artista, altro titolo di un'opera ghiacciata dell'artista bolognese - perché la luce è troppa, e dissolve le cose - i due blocchi di ghiaccio che lentamentè si sciolgono-, anziché rivelarle. Così l'artista; così Calzo.lari, che ha vissuto questa situazione sempre tentando di sfuggire alla propria luce. Poi vengono le alchimie dei materiali: il piombo, il ghiaccio, il neon, lo stagno, rientrano nella norma po.verista, così come il telegramma, le azioni, certi, suoi video pertengono più ad un filone concettualista, se si fosse in vena di catalogazioni, e tuttavia tutto questo è mezzo e non fine dell'opera di Calzo.lari. Allora l'ostensione della cosa, la presentazione tout court della materia, l'individuazione di un ritmo naturale delle azioni e P. Pasca/i, Dinosauri, 1966 delle automobiline da vignetta, dei coccodrilli Lacoste, dei marchi di fabbrica inventati. E se è la prima volta per chi scrive, non lo è mai stato invece per tutti quei padri che, di nascosto, hanno passato i pomeriggi del sabato a giocare coi video-computers dei figli e, prima ancora, coi loro trenini. Nuovo Futurismo a cura di Renato Barilli Milano, Rotonda di via Besana màrzo-aprile 1986 GrandeCuisine Marco Meneguzzo Anche ciò che per auto.definizione intende rompere con ogni regola, di fatto si costituisce in-regola assai ben definita: forse per questo il lavoro di Pier Paolo Calzo.lari ha sempre trovato collocazione scomoda all'interno dell'Arte Povera. Una vocazione trasgressiva anche nei confronti della trasgressione ne ha fatto un artista concettualmente eclettico, ma ·di quell'eclettismo che non assomiglia agli oggetti disparati, ma ideologicamente dichiarati come tali, di Pistoletto, quanto piuttosto a un continuo scarto, ad una fuga in avanti che ha molto di autodistruttivo. Del resto, il sènso finale di molte delle cose, che sono tra le caratteristiche topiche dell'Arte Povera, passano in secondo piano, e ciò che emerge è la schizofrenia oracolare dell'artista. Per questo, il passaggio alla pittura di Calzo.lari, che data ormai da sei-sette anni, non è il tradimento di quell'assunto, ma un'altra fuga e un'altra autoaffermazione di sè, che non pone l'accento sulla rappresentazione. E tuttavia non si può negare che questa fuga nella pittura- l'ultima, probabilmente - sia anche la ricerca di un rifugio, una Grande Cuisine (altro titolo, di quadri questa volta) entro cui nascondersi e rifo-_ cillarsi, tra uno sguardo limitato e basso alla propria stanza, al proprio· 1uogo dell'esserci, e una sapiente sciabolata iperdecorativa. Pier PaoloCalzolari Opere: 1968-1986 a cura di Denys Zacharopoulos Galleria Civica di Modena catalogo edizioni Cooptip Maria FerreroG~o Carlo Romano ·sulla base delle notizie biografiche si_èportati.a minimizzare l'influenza delle prove aeropoetiche di Ma-· ria Ferrero Gussago sulle successive scelte artistiche, e piuttosto che_ dalle personalità carismatiche del Futurismo ligure - . specialmente Mazzotti e Farfa - sembrerebbe corretto farle dipendere da-un nuovo clima albisolese che negli anni quaranta-cinquanta vive gli ormai anziani futuristi come màcchiette e ostenta nuove e prestigiose presenze. Non sono pochi, infatti, gli ele- · menti che avvicinano la Gussago all'estetica spazialista di Lucio Fontana, ospite di Albisola fin da- . gli anni trenta. I lavori su reti me~ talliche sovrapposte volte a·dare un senso di inedita profondità alla pittura e, più tardi, quelli in plexiglas: le aperture a numero, le scatole;•· preparano, a-volte fin dal titolo, . l'accostamento. Di Fontana la critica si è comunque abituata ad aggirare le più mal~ , destre ingenuità culturali e dello «spazialismo» quale teoria evince solo la' parte recondita, pulsionale, di modo che del pittore si salva l'originalità in linee di volta in volta chiamate astrattismo, informale, barocco. Dovendo fare altrettanto con la pittura della Gussago, è nel Futurismo - e nel Futurismo ligure, con lo humor particolare che lo scorreggeva («patafisico» è il caso di dire)- che va ricercata gran parte della loro forza, benché futuriste non vogliano essere nemmeno quando ritraggono Marinetti e Farfa. Nata a Cellatica (Brescia) nel 1893, la Ferrero Gussago fu a Savona dal 1931, ed è qui -·dunque tardivamente - che cominciò a dipingere. L'iniziale componente paesistica (che non mancò di colpire Guido Pio.vene per il colorismo; ne fa fede la recensione, giocata su metafore geografiche, stesa in occasione della mostra, la prima, alla galleria Gian Ferrari) si affievolisce proprio a contatto col Futurismo savonese; per quanto sia da dire che non furono, così almeno sembra, le esortazioni di Farfa a scuoterla. Riesce tuttavia difficile districare la partecipazione dall'amicizia e ancor più difficile è dire quale partecipazione ci fosse nell'amicizia. In questa elusività - che possiamo scorgere in alcuni esercizi che paiono suggerire una qualche frequentazione teosofica - ci sembra vada percepito il posto della Gussago. La stessa elusività, in fondo, dei suoi quadri a rete, ben più ricca della francamente comica concretezza di un brevetto cercato per gli stessi presso il ministero dell'Industria. La scoperta, fuori dall'ambito locale, di quest'artista senz'altro peculiare si deve principalmente a Mirella Bentivoglio che la invitò a diverse mostre, fra le quali quella sulla «materializzazione del lin- . guaggio» tenuta nell'ambito della Biennal~ veneziana del '78. È la stessa Bentivoglio a far da ordinatrice, per il Comune di Savona, della mostra allestita al Palazzo Gavotti con l'intento di restituirci il più completo possibile l'itinerario della pittrice. Il ricco _catalogo che l'affianca reca i saggi della Bentivoglio e di Steli o Rescio (col quale concordiamo quando scrive che «non c'è da stupirsi se in queste· opere le concezioni dello spazialismo vengono a coesistere, in una felice contaminazione, con le "compenetrazioni" di Balla»). Alle note introduttive e redazionali (sempre di Rescio), alle riproduzioni, alla crestomazia critica, ad alcuni interessanti documenti si aggiunge l'inserto, curato da Claudia Salaris (la quale fece emblematicamente finire con lei la sua importante ricognizione delle donne futuriste) sull'opera poetica della Gussago. · MariaFerreroG~o Savona, Palazzo Gavotti febbraio 1986

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