Alfabeta - anno VIII - n. 81 - febbraio 1986

PAGINEDIPAGINEDIPAGINEDIPAGINEDIPAGINEDIPAGINEDIPAGINEDIP Era, la sua, la solitudine di chi riconosceva la «città dell'anima» in una Roma irreale, visionaria, mentale (un-«conclavedei sogni») e insomma scipioniana, o belliana, ma d'un Belli letto, come avvertiva Vigolo, attraverso Rimbaud: le capitali elettive cui guardava erano però europee, Vienna e Berlino piuttosto che Parigi. Lì trovava consonanze la sua poesia onirica e ossessiva, un traum ch'era insieme sogno e ferita. Me ne scriveva il 29 giugno 1977, in risposta a un saggio in cui discorrevo dello stilus tragicus dominante nella sua poesia: «Non temo l'appunto di 'mancata evoluzione' - perché le stimmate non evolvono. E la mia poesia ha la sua radice più tragica in un trauma; e, più ancora di critici e filologi, vorrei che mi esplorassero - in una patologia indubbiamente autentica, quanto diversa e allergica - psichiatri e neurologi. La mia poesia è sempre un test psichico da analizzare, il diagramma delle curve di una febbre (visioni, sogni, inc1_1btie, r- • rori) che dalla mia prima adolescenza mi martirizza. Poesia pagt;1ta cara - eppure portata fino a questa età, acquistando [... ] un senso della sua identità inebbriante, un accento che da solo, ora, alla senectus è consentito - 'coraggio di pensiero non timido di fronte ai mali supremi'» .. D ue nodi essenziali mi sembravano, e mi sembrano tuttora, alla radice dell'eccentricità di Vigolo rispetto alla linea prevalente nella lirica novecentesca (una linea che diremo per brevità gozzaniana e montaliana): lo stilus tragicus, restìo alle cadenze ironiche e èolloquiali delle nuove corone, e il rifiuto di concepire una poesia che prescinda dallo «scordato strumento cuore». Ne trovo conferma in molte lettere vigoliane; per esempio in quella appena citata: «E qui lei ha benissimo colto - mi scriveva - la patologia del cuore, strumento fondamentale e straziato di una poesia che è sempre una georg-passion». E il 20 maggio '76: «Mi colpisce quanto scrive sul mio stilus tragicus. Le dirò che io stesso ho spesso scritto le mie poesie come monologhi di tragedia. 'Malinconia d1esiste_re.. .' - 'Essere· o non essere'>~.. Altre sono le sue corone; rimontano ai grandi di fine-ottocento, come scrive il 16 gennaio· '77 a commento d'un mio lavoro dannunziano: «Anche Carducci vi cresce, come quel grande (oggi così poco studiato e riconosciuto) poeta che è infine un Pasco-· li, senza dire dello stesso Gabriele che qui si rivela davvero un monstrum miracoloso, di una tale ricchezza di doni poetici - che non so quali altri abbiano superato. E oggi, noi ... ». Ma i suoi maestri vengono di lontano: «La poesia di Vigolo :_ scrive il 29 giugno '77 - mi pare che lei la veda da molti suoi lati, specie nella sua 'condizione isolata e appartata' - comunque singolare e diversa dall"orizzonte letterario del '900' - non 'in sordina', ma in piena musica di versi che, discesi da Michelangelo, Dante, Petrarca - i miei numi- non poteva restare sorda anche alla lezione, allo stupendo unico dono delle Laudi. Una delle più grandi viltà di oggi, è stata di vergognarsene, quasi, e ignorarla!». Vengono, i suoi maestri, dal passato o dal fuori, come Baudelai- . re, coine Hofmannsthal, i nomi che trovo ricordati: «D'accordo anche sulfa vie antérieure ('con questo volto remoto che ci esprime l'anima / e le sue storie e i giorni alti e perduti'). Per Hofmannsthal si è parlato di 'preesistenza'. Anche la mia poesia non è spesso preesistenziale?». Altrove definendo sé, come spesso fa, dolorosamente, un «dannato innocente», parla delle «saisons en enfer di tutta una vita»: la sua. Ma forse Holderlin è l'autore che più intimamente gli è congeniale (e Frattini non manca di rammentare le versioni delle sue poesie come nodo cruciale della vicenda vigoliana). Come il poeta tedesco rapito dalla nostalgia della Grecia e devastato alfine dalla cheta follìa, chiuso in una solitudine impenetrabile, la parola vigoliana può dirsi insieme neoclassica e neoromantica: d'una modernità insomma non novecentesca, non del Novecento italiano. Sono •i due corni da cui muove Frattini, da cui muove Vigolo stesso, critico di se medesimo, scrivendomi 1'8maggio per un mio studio sulle varianti d'una sua lirica: «Fra le diverse varianti c'è il continuo conflitto di due poetiche, l'una diastolica di espansione, l'altra sistolica di concentrazione. La concentrazione potenzia, ma impone esclusioni cui il poeta non si rassegna». (Ancora l'immagine del cuore, non scordato strumento: «Cuore, sei tu che batti / questi colpi al mio petto: e sempre mi risvegli al folle· palpito ... »). Neoclassica e neoromantica, è dunque la sua parola: onirica e ossessiva, e insieme votata alla chiarezza, alla forma alta. A epigrafe delle sue Notti romane Vigolo poneva l'emistichio virgiliano «facilis descensus Averno»; ma consentiva con l'evocazione degli esametri seguenti che m'era parsa opportuna, «specie con 'sed revocare gradus, superasque evadere ad auras - hic opus, hic labor est' - poiché è questa veramente la chiave (l'opus e il labor) dell'altro mio versante di 'evasione' dal solo 'Averno, che non dovrebbe essere . per la mia poesia unicamente considerato». Nel cielo della nostra poesia vola ancora un'upupa, ma è !'«ilare uccello calunniato dai poeti». L'Upu- . pa della poesia vigoliana è come -l'uccello del\'incubo che scende, ·,~ei:suoi F_antàsmidi pietra, con ali •moli}e grige, a:turbare il s·onn9del poeta («Ora sei-mio»):_vola nell'Avèn:io di una segreta clandestinità. PAGINEDIPAGINEDIPAGINEDIPAGINEDIPAGINEDIPAGINEDIPAGINEDIPA Controindicazioni Antonio Porta A tlante occidentale di Daniele del Giudice (nato a Roma nel 1949)è un racconto destinato a suscitare reazioni opposte. Si viene catturati e sedotti dal fascino di molte sue pagine e come da un'idea di «calar bianco» che nasce dall'insieme, ma si è anche allontanati e respinti da tutta una serie di informazioni superflue, perciò false, che incrinano fortemente il tessuto narrativo, tanto da far dubitare anche dei momenti di vera intelligenza che pure il testo offre, quasi convivessero due autori di cui uno non riesce mai a mettere l'altro sulla strada giusta. Qualche esempio, e mi esento dal riassumere la trama o lo sviluppo dell'opera che a questo punto devo dare per noti dal momento che sono stati descritti in numerose recensioni. Bellissime le pagine del volo a due, del fisicoe dello scrittore, e altrettanto belle quelle dedicate al racconto della gita innamorata di Brahe e Gilda. Ma in mezzo alcuni passaggi perfino insopportabili per,la loro opacità da kitsch, come questo: «.. .la cosa più sorprendente per Gilda era che quando Brahe parlava le parole venivano in superficie come staccate dalla persona e appoggiate lì, e questo faceva sentire l'interlocutore troppo convinto, troppo aderente a sé, come lei che per tutto il pranzo cerca di intuire il punto interno di quello stacco, e la concentrazione le disegna due piccole linee ai lati delle labbra, le dilata le iridi azzurre in improvvisi colpi di trasparenza». Francamente occorre dire che così si sçrive nei romanzi per signorine, tanto è ridondante quindi inesistente l'informazione narrativa (il kitsch e la ridondanza sono, come è noto, le tecniche dei romanzi summenzionati). A riprova, solo poche pagine oltre: «Aveva le iridi degli occhi di un colore compatto, I giovanni arratori senza pagliuzze, e questo rendeva il di_scopiù carta da zucchero che azzurro; sembrava che assorbissero tutto l'esterno per restituirlo concentrato nel fuoco della pupilla. Brahe ne era così attratto che dovette escluderli dal suo sguardo, passando sopra o sotto, come nei segni che legano ad arco due note musicali». La sensazione di meraviglia nasce dal fatto che simili espedienti da vecchia prosa d'arte arrivano come tradimenti improvvisi della narrazione, come prove di falsa «bravura», che sarebbero, credo, spiegabili solo s~ tutto il romanzo fosse un guscio vuoto da mascherare come pieno. Il che non è. Atlante occidentale affronta una tematica notevole, quella. dell'espressione di un sentimento in una situazione di percezioni e linguaggi irreversibilmente modificati dalle scoperte della fisica subatomica, dove le dimensioni dell'universo dello spazio-tempo appaiono vertiginosamente moltiplicabili. Dice Epstein, il famoso scrittore: «Sì, piacerebbe anche a me parlare di un sentimento e del modo di produrlo come lei parla dell'anello di una trentina di chilometri. Potrei invitarla a visitare dei tempi verbali, dei giunti per incastrare le frasi in modo che si tengano una contro l'altra, come per controspinta? [... ) Potrei dirle: una storia è fatta di avvenimenti, un avvenimento è fatto di frasi, una frase è fatta di parole, una parola è fatta di lettere? E la lettera è irriducibile? È l"ultimo'? No, dietro la lettera c'è un'energia, una tensione che non è ancora forma, ma non è già più sentimento, ma chissà quale potenza occorrerebbe per sconnettere quel sentimento dalla parola che lo rende visibile, dal pensiero che lo pensa istantaneamente, e capire il mistero per cui le lettere si dispongono in un modo e non in un altro e si riesce a dire: 'Lei mi piace', e il miracolo per cui questo corrisponde a qualcosa». A me pare un altro esempio chiaro di come si possa mescolare una problematica fondamentale, come l'espressione di un sentimento, con il polverone che necessariamente nasce dall'uso di parole come «mistero» e «miracolo», che ci rimandano ancora una volta all'ineffabilità, al non poter dire. Si tratta allora di questo? Dell'ineffabilità dell'esperienza, mistica o quotidiana che sia? Ma allora perché colpire il benintenzionato lettore con questa finta sapienza da involucri per cioccolatini? Dice Epstein: «Dovevo farlo suicidare, era il finale; eppure pensavo che il suicida è forse il cieco più cieco alle Tickets, 1922 -Acquerellosu carta, 75x56 cose, se le vedesse, se si vedesse in quell'istante con le cose che ha in mano, rinuncerebbe. Ma del resto il suicidio è un'improvvisa impennata dell'io, un'inspiegabile uscita dalla relazione». Appunto, se è «inspiegabile» perché fornirne una così accurata falsa spiegazione? Risulta meno deludente, al confronto, il punto in cui il fisicoBrahe si decide finalmente a parlare, durante il volo. Chissà cosa sta per dire, s'immagina l'ingenuo lettore. Nulla, è la risposta, tra le righe, del narratore, nulla che io sappia o sia in grado capire, dal momento che Brahe e Epstein, «erano così raccolti uno verso l'altro, e del resto il rumore del motore era così continuo e avvolgente, come l'aria, che nessuno, dietro di loro, avrebbe potuto sentire nulla.» Anche per evidenti ragioni di spazio sembra megho saltare alla domanda finale e radicale. Perché mai affrontare tematiche così impegnative, anche se non nuove, come il cambiamento delle dimensioni spazio-temporali, se l'incontro diretto tra linguaggi tanto distanti è preventivato come impossibile? La risposta ce la dà, o tenta di darla, il narratore nelle ultime righe: «E adesso?» - «Adesso dovrebbe cominciare una storia nuova.» - «E questa?»- «Questa è finita.» - «Finita finita?» - «Finita finita.»- «La scriverà qualcuno?».- «Non so, penso di no. L'importante non era scriverla, l'importante era provarne un sentimento». Direi che si rasenta la civetteria letteraria, quando nelle ultime righe si annuncia che il sentimento rimane comunque inesprimibile. Da questo programmato scacco finale mi pare si possa arguire che le frontiere della letteratura, che si volevano spostare verso territori inesplorati, risultino invece arretrate. Ma l'autore pare voglia consolarsi con·la vanità del Premio Nobel che il famoso scrittore Epstein puntualmente riceve nel finale, forse con una punta di ironia. Almeno si spera, dal momento che Epstein è semplicemente l'alter ego del narratore di Atlante occidentale. Il buon livello Renato Barilli 11 buon livello raggiunto dalla nostra giovane narrativa è testimoniato, oltre che dai contributi recenti di Tondelli e di Tabucchi, di cui mi sono occupato in un articolo precedente, anche da Daniele Del Giudice e da Aldo Bu- . si, approdati entrambi al loro secondo romanzo. E beninteso, nel vivaio più che promettente è da porre anche Andrea De Carlo, il cui ultimo prodotto, Macno, risale ad appena un anno fa. Del Giudice, con Atlante occidentale, conferma la volontà di frequentare un filone litteratissimo, come già con Lo stadio di Wimbledon. Gli si potrebbe attribuire addirittura una corda «paradisiaca», ma non nell'accezione dannunziana del termine, bensì in quella dantesca, assai più impegnativa. Infatti egli si aggira nei territori difficili della scienza, o addirittura della metafisica, presa questa almeno nel senso etimologico della parola, alludente ai misteri di una fisicaposta molto al limite. Con lui, insomma, siamo all'arduo tema dei rapJ?Ortitra la letteratura e la scienza. E possibile, a uno scrittore, stare al passo degli sviluppi dell'altra cultura, far sì che la sensibilità si adegui alle nuove scoperte provenienti dai laboratori più sofisticati? Direi che Del Giudice vince l'ardua sfida, pagando il giusto prezzo, consistente in una estenuazione dei mezzi, degna appunto della poesia del Paradiso dantesco, almeno nell'intento di spingersi al limite della rarefazione. Nel romanzo, le «due culture» sono rappresentate rispettivamente da un giovane scienziato, Pietro Brahe, e da un anziano scrittore portatore di un nome cosmopolita, Ira Epstein. Del Giudice, per fortuna, evita la trappola che starebbe nel far dire a ciascuno dei due le rispettive ragioni, in una serie di colloqui astratti; va invece alla ricerca degli opportuni motivi di trama cui il dibattito si possa appog- "'" t::! giare senza perdere un sufficiente .E; grado di concretezza. Si parte così ~ da un incontro-scontro tra i due, ~ occasionato dalla comune passione ~ ....... per lo sport aereo: Pietro sta per .si innalzarsi da una pista svizzera, l:: con un piccolo velivolo da turismo, i quando è gravemente minacciato ~ da un'errata manovra dell'altro, 0b che tradisce già in ciò una mancan- i::: za di competenza degna appunto di ~ un fine umanista. E tuttavia, è im- Ì portante che lo scrittore, Epstein, 11

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