no l'esistenza individuale e sociale, rappresentavano per Dilthey il luogo su cui concentrare gli sforzi teorici. Vita e storia ritrovavano un destino parallelo, analogo a quello invocato dal conte Yorck in una lettera allo stesso Dilthey: «Perché il filosofare è un vivere, per questo c'è, secondo me, una filosofia della storia. Ma chi la saprà scrivere?» Il tentativo diltheyano di pensare il contesto storico-vitale è forse la migliore risposta all'interrogativo di Yorck e al tempo stesso sembra essere l'agglomerato teorico che offre i maggiori spunti di riflessione. Il contributo di O. Marquard, intitolato «Dilthey e l'antropologia», ne è un esempio: Dilthey avrebbe sviluppato una filosofia della vita le cui implicazioni investirebbero temi filosofici, antropologici e politici, raggiungendo una posizione centrale «in una tradizione che difende la vita non solo • contro ciò che è morto, ma anche contro la morte» (ibid., p. 163). Contro le «guerre civili ed ermeneutiche», a favore del «parlare e Frank Lentricchia Mter the New Criticism London, Methuen, 1983 pp. XIV-384, f. 7,95 Richard Rorty Consequences of Pragmatism Minneapolis, University of Minnesota Press, 1982 Maurizio Ferraris La svolta testuale Pavia, Cooperativa librari~ universitaria pp. 145, lire 16.000, 1984 Allan Megill Phrofets of Extremity. Nietzsche, Heidegger, Foucault, Derrida Berkeley, Los Angeles, London Univ. of California Press, 1985 pp. XVII-399, $ 24,95 S i sono spesso manifestate nella cultura americana, come reazione al dominio quasi incontrastato della Linguistic Analysis e in risposta alla sua pretesa di configurarsi come la modalità pressoché esclusiva del filosofare, tendenze di ricerca maggiormente interessate a porsi all'ascolto della filosofia «continentale» e dei suoi problemi. In tal modo esse hanno cercato di far acclimatare tutta una serie di pratiche filosofiche che l'ascetismo teorico della filosofia analitica aveva portato a svalutare, e che si erano così trovate nella condizione di dover emigrare nei dipartimenti di letteratura. Questa disponibilità nei confronti delle più significative manifestazioni culturali europee non è un fenomeno limitato ai nostri giorni (anche se è reso particolarmente evidente dall'uso, non sempre perspicuo, del decostruzionismo fatto dalla critica letteraria americana), ma può essere datato almeno a partire dagli anni Cinquanta. Il libro di Frank Lentricchia, che documenta l'impatto esercitato dalla fenomenologia, dallo strutturalismo, dalla teoria critica e dall'esistenzialismo dal 1957 in avanti, testimonia come questo atteggiamento di apertura ad esperienze filosofiche eterogenee rispetto a quelle dominanti possieda radici sufficientemente profonde e consistenti. Ma è stato Richard Rorty a superare un approccio prevalentemente descrittivo e ad offrire un orizzonte di riferimento teoricadel lasciar parlare, che permette di vivere e di lasciar vivere». (p. 166). Questo aspetto poliedrico della filosofia diltheyana della vita riemerge, sia pure differenziandosi, lungo tutto il percorso del volume in questione. L'idea di vita sarebbe dunque un contenitore da cui trarre risposte e suggerimenti, nell'ambito dell'ermeneutica o della critica dell'ideologia, della storiografia e della politica, dell'etica e della pragmatica: lo confermano gli interventi di G. Schmidt, K.~o. Apel, G. Calabrò. Un'ermeneutica della vita che nella costellazione diltheyana assumerebbe il ruolo di filo conduttore: «Non la vita che distrugge la vita, ma la vita che permette di vivere» (Marquard, p. 166). Lf attualità di Dilthey sembra risiedere nella sua apertura alla complessità vitale, nel rifiuto di idealizzarla e nell'individuarne il éarattere ambiguo, non univoco: la vita come Sfinge. Del resto la nozione diltheyana di vita era già stata ripresa prima da Husserl e poi da Heidegger proprio per rafforzare le tesi dei fenomeni come testimonianze dell'esperienza vissuta (Husserl) e dell'ermeneuticità dell'esistenza (Heidegger). Ad alcuni aspetti delle relazioni con questi due filosofi sono dedicati i saggi di E. W. Orth, O. Poggeler, M. Perniola, H. Boeder e A. Marini. Quest'ultimo in particolare ha proposto un contributo che è successivamente confluito nel volume Alle origini della filosofia contemporanea: W. Dilthey, ulteriore segnale di questa rinascita critica, in . cui vengono sviluppate analisi che si riallacciano all'intenzione programmatica enunciata da Bianco: il tessuto culturale contemporaneo deve calcolare l'entità del proprio debito nei confronti di Dilthey. Ciò che Marini scopre e focalizza è un incrocio di ampie proporzioni, dal quale scaturiscono questioni come la «psicologia individuale», il «rapporto tra storia della filosofia e scienze umane», e, ancora, i legami che «la riduzione [diltheyana] del mondo spirituale alle strutture del tempo interno mostra con le ontologie fenomenologiche ed ermeneutiche delle generazioni entranti» (pp. XVI-XVII). Un problema in particolare si presenterebbe come intersezione tra Dilthey, Nietzsche, Husserl e Heidegger: quello della temporalità, del tempo «vissuto». Secondo Marini, la critica del presente, che coinvolge la critica del ce>ncettodi tempo, è il carrefour attorno al quale ruotano le meditazioni di tutti e quattro i filosofi citati. Tra la «connessione strutturale» diltheyana; l'«in-essere o schiusura del ci» tematizzata da Heidegger, la «sfera attuale-potenziale della coscienza pura» di Husserl e lo «spazio teorico della volontà di potenza di Nietzsche» (p. 172) sussistono elementi di analogia che delineano una tradizione filosofica e al tempo stesso le coordinate dell'attuale sentimento del tempo. In Dilthey la temporalità è contenuta nella vita, dove l'articolazione temporale trova una collocaIronicoe irenico mente fondato. Egli ha individuato, accanto a una lignée filosofica kantiana (ad impronta epistemologica e che trova sbocco nella Linguistic Analysis), una lignée hegeliana, che comprende pensatori come Nietzsche, Heidegger, Gadamer e Derrida e che si pone in un rapporto di parassitarietà con la tradizione opposta - nel senso che concepisce come proprio compito specifico quello di liberare la tradizione epistemologica («metafisica») da una tendenza immanente che la conduce «a irrigidirsi in metodiche positive» (La svolta testuale, p. 15). L'opera di Allan Megill, che non nasconde i debiti contratti con la tipizzazione proposta da Rorty, avanza una prospettiva che è tuttavia sensibilmente diversa. Non solo nel senso che l'arco degli autori preso in esame non coincide esattamente con quello tracciato da quest'ultimo: la sequenza è costituita da Nietzsche, Heidegger, Foucault e Derrida. Anzitutto perché tende a restare in ombra la relazione di complementarità con la lignée kantiana. Per Megill lo sfondo di contrasto è rappresentato piuttosto, oltre che dal pensiero di Kant, dalla filosofia di Hegel, dal romanticismo e dallo storicismo post-romantico. Inoltre «la dialettica fra i quattro» (che .egli pone in termini di posizione, negazione, negazione della negazione e decostruzione) ha una sua propria unità e una coerenza quasi sistematica, e proprio per questo ci aiuta a comprendere una larga parte della storia intellettuale dell'Occidente. La caratteristica che accomuna i «quattro» non consiste quindi nel fatto di porsi in un rapporto più o· Ed ardo Greblo meno esplicito di dipendenza nei confronti della lignée kantiana; il tratto unificante è offerto invece dal loro porre il fenomeno estetico come motivo teorico unificatore dell'intera realtà. Bisogna però intendersi sull'accezione che Megill attribuisce al termine di estetica, che non è per lui un settore delimitato e circoscritto della ricerca filosofica; essa piuttosto rimanda all'inafferrabilità della «cosa stessa», ovvero al tramonto di una tradizione di pensiero ancora fiduciosa:nella possibilità di trovare una via d'accesso alla «vera» realtà. La linea filosofica che scorre da Nietzsche a Heidegger è sostenuta dalla rinuncia alla rappresentazione dei contenuti del mondo nella loro datità essenziale: l'arte, il linguaggio, il discorso o il testo vengono a costituire l'unico ambito possibile entro il quale può aver luogo l'esperienza umana. Siamo irreparabilmente tagliati fuori da ogni contatto con le cose e ci troviamo confinati in un mondo di parole (Prophets of Extremity, p. 2); la nostra vita si svolge in un'atmosfera di insuperabile secondarietà. A ll'origine di questo orientamento filosoficovi è naturalmente Nietzsche. A tale proposito Megill assume in realtà una posizione piuttosto sfumata. L'estetismo è solamente una delle possibilità suggerite dalla sua opera, anche se è quella prevalente. È in effetti nel. secondo Heidegger che questa tendenza (anticipata dal saggio su L'origine dell'opera d'ar- .. Copertina per 391 n. 6, New York, 1917. A sinistra: Turbine, 1917. Matita a china su carta. A destra: manifesto della mostra alla galleria Dalmau, Barcellona, 1932 te, che vedeva nell'opera non la rappresentazione di un mondo esterno sussistente per conto proprio e in modo del tutto indip·endente, ma la sua stessa fondazione) giunge ad imporsi. L'essere si dà nel linguaggio. Come diceva Gadamer, «l'essere che può venir compreso è linguaggio». Foucault, che procede nella direzione di pensiero inaugurata da Nietzsche e radicalizzata da Heidegger, opera uno spostamento di prospettiva: la relazione tra opera e mondo diviene tesa e conflittuale - all'interno però di uno sfondo comune, quello dell'estetica post-romantica. La EX POSI CIO r GALF.RIE:S DA.LMAU IIARCELONA quale intendeva l'opera d'arte come quella dimensione dell'esperienza umana che produce da se stessa il proprio mondo, appunto come accade con il linguaggio e il discorso. E come accade anche nel caso del prospett1v1smo nietzscheano, che impone al pensiero di autolimitarsi alla sfera dell'interpretazione arretrando dinanzi all'inaccessibilità dei fatti. L'arte diviene così il termine originario che prosegue in una sequenza di sinonimi, di «traduzioni senza traduzione»: linguaggio, discorso e interpretazione. Il ruolo che gioca Derrida in questa catena di corrispondenze non è altrettanto lineare. Perché, se da un lato «iln'y a que du texte», e quindi noi siamo prigionieri del sistema delle pratiche significanti senza che si possa mai pervenire al significato puro, al possesso in totale immediatezza della cosa stessa, è anche vero, dall'altro, che «il n'y a que du hors-texte» (J. Derrida, La dissémination, Paris, Seui!, 1972, p. 50). Il testo non si pone quindi in un rapporto di derivaziozione individuale e insieme intersoggettiva: questa intuizione rappresenterebbe il punto di massima prossimità del pensiero diltheyano con la coscienza del tempo caratteristica della nostra epoca, legata indissolubilmente all'idea, sviluppata nel Novecento da Husserl e da Heidegger, della connessione tra soggetto e tempo. Ancora una volta dunque la presenza soffusa d1 Dilthey, lo scorrere sotterrl!-neo delle sue riflessioni come linfa della situazione spirituale contemporanea: la sua modernità. Forse la sua eredità è racchiusa nell'indicazione di ricerca sintetizzata da Marini: «La prima cosa di cui bisogna prendere atto [... ] è appunto "la vita stessa": porsi il problema di che cosa prenda "il posto" della metafisica equivale allora a chiedersi se questo posto esiste ancora e a mettere in questione che cosa significhi "direzione pratica della vita", "trasformazione della società", intervento sulla "prassi della vita"» (p. 84). ne lineare rispetto alle elaborazioni sul concetto di opera d'arte promosse dall'estetica post-romantica. Se la scrittura diviene un'operazione originaria che non implica la scoperta della verità ma la sua invenzione (Profets of Extremity, p. 269), è chiaro che Derrida viene a collocarsi in una prospettiva differente rispetto a quella dei suoi «precursori». La scrittura acquisisce una dimensione in certo modo fabulizzante, che tronca ogni rapporto con il problema stesso della ricerca della Verità come di qualcosa che può esserci dato, sia pure soltanto in via trascendentale e regolativa. E questo perché l'estetica che sta alle spalle di questa posizione non è più quella post-romantica, ma quella delle avanguardie. Di fronte a un reale derealizzato non restano che l'invenzione e la sperimentazione. Megill non lo afferma esplicitamente, ma l'operazione condotta da Derrida nei confronti della metafisica sembra ispirata, o comunque affine, a quella di Deleuze: immaginare un «Hegel filosoficamente barbuto», così come Duchamp aveva appiccicato i baffi a Monna Lisa. S i delinea in questo modo la caratteristica saliente del pensiero di Derrida, e che lo distingue nettamente da Nietzsche, Heidegger e Foucault: l'aspetto ironico (e anche, in fondo, irenico), che contraddistingue il decostruzionismo. Derrida non si limita a fare la parodia dei suoi interlocutori, come facevano ad esempio Nietzsche con il cristianesimo o Foucault con il cartesianesimo. La parodia non risparmia n€ppure se stessa, si fa auto-parodia. Egli porta così a conclusione la linea di pensiero inaugurata da Nietzsche ma, in questo modo, «decostruisce la stessa profezia dell'estremo» (Prophets of Extremity, p. ~ 298): decostruisce l'estetismo («il .5 n'y a pas de hors-texte») nel mo- ~ mento stesso in cui sembra affer- c::i.. ~ marlo. Ora, se l'opera d'arte non offre ...... .S/ la testimonianza di un mondo dive- ~ ...C) ...C) ~ nuto sempre meno «reàle», ma lo porta in se stessafondandolo e istituendolo, ciò significa che la realtà ~ si trova abbandonata a una condi- i.: zione di derelizione e di insussi- ~ stenza. L'arte può manifestarsi co- ;g, me creazione t;x nihìlo proprio <:::s
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