L'invenziondei Leiris Michel Leiris Langage tangage ou ce que les mots me disent Paris, Gallimard, 1985 pp. 188, f. 69 , E nel primo volume della Règle du Jeu (Biffures, 1949; Fourbis, 1955; Fibrilles 1966; Frele bruit, 1976)che, in una lucidissima mise en abfme del suo fare poetico, Leiris interrogò per la prima volta il suo rapporto da sempre problematico, nella sua ambivalente attrazione con il linguaggio: «Il ressort de la manière meme dont je conduis cet écru que j'ai toujours attaché une importance extreme à ce qui relève du langage» (Biffures). Nel 1948, Leiris aveva alle spalle più di venti anni di attività letteraria: aveva concluso da un bel po' la felice esperienza surrealista (Simulacre, 1925, Point cardinal, 1927, Aurora, 1927e, sulla Révolution Surréaliste, 1925-1927, i racconti di sogno e le prime voci del futuro Glossaire j'y serre mes gloses); si avviava ad una lunga carriera etnografica iniziata con la partecipazione alla missione etnolinguistica Dakar-Gibuti nel corso della quale scrisse il rivoluzionario diario L'Afrique fantome (1934) e dette inizio agli studi sui linguaggi segreti (La langue secrète des Dogons de Sanga, 1948) e la possessione (La possession et ses aspects théatraux, 1958); con la stesura de L'age d'homme (1939)e la messa a fuoco della metafora tauromachica (Miroir de la tauromachie, 1938, De la littératureconsidérée comme une tauromachie, 1946)aveva inoltre aperto la più esemplare avventura autobiografica del secolo, momentaneamente conclusa nel 1981 con Le Ruban au cou d'Olympia. Eppure, molto probabilmente, Leiris •non sospettava allora che per ancora quasi mezzo secolo egli non avrebbe cessato di rafforzare il patto con il «mondo delle parole» che aveva stretto fin da quando il linguaggio s'impose a lui nella sua «immense nudité abrupte». Non sospettava inoltre che, al di là dei tradimenti, reticenze, incertezze che avrebbero puntellato una vita «dans et par l'écriture» non sarebbe mai uscito dal «long et feuilletonesque roman d'amour avec les mots» (p. 127). Poiché d'amore si tratta - innanzitutto. Basta per verificarlo, se mai ce ne fosse ancora bisogno, il recentissimo Langage tangage ou ce que les mots me disent nel quale Leiris si accanisce sulla sua passione di sempre con la violenza di chi ama perdutamente, pur conoscendo tutti i limiti del suo oggetto d'amore. Infatti, mai come in questo ultimo libro del quale Barthes avrebbe amato le vibrazioni affettive e schive ad ogni forma di presa del «terzo senso», Leiris ha cercato di smontare i meccanismi seduttivi di fronte ai quali ha sempre sperimentato una debolezza vissuta il più delle volte sul registro della colpa, pur rifiutando di arrendersi, di optare per una via (la realtà) o per l'altra (le parole): «J'ai beau les [leparole] mal juger, voir en eux des abstractions qui n'ont ni le poids ni le sérieux des choses, faire tinter les mots - abracadavrement promus coupes de cristal, cloches, monnaie jetée sur un comptoir, voire hochets qu'on secoue - aura toujours été l'un de mes plaisirs les plus grands» (p. 102). In queste pagine, animate da un sapiente uso della palinodia, si verifica quanto sia vero che non è l'oggetto perduto (la parola piena, efficace, delle origini) a mettere in moto la quete verso la parola ultima (le maftre-mot etico-poetico) ma la tensione della quete ad assicurare il prolungamento della perdita dell'oggetto. Sul vuoto aperto da questa assenza, sorretta da una spericolata sperimentazione delle risorse diaboliche della metascrittura, galleggia l'intera opera dello scrittore costretto a manovrare tra i ristretti margini che delimitano da una parte l'indicibile (del linguaggio) e dall'altra l'innominabile (della morte). «Peut-etre est-ce quand la mort - ou quelque chose qui lui ressemble - est en jeu que les mots jouent de la façon la plus vivante?» (p. 126). E ciò mai come in questo ultimo libro scritto ai confini della morte e che da questa precaria posizione trae la sua straordinaria forza inventiva. Concepito inizialmente come un supplemento al lontano Glossaire j'y serre mes gloses (ora in Mots sans mémoire, 1969) Langage tangage trova il suo equilibro nell'accostamento di due scritture apparentemente opposte ma di fatto complementari, essendo l'una (la parola folgorante dell'attimo poetico) il rovescio speculare dell'altra (la parola sinuosa del labirinto autobiografico). La prima, Souple mantique et simples tics de glotte «en supplément» (pp. 9-68), propone una serie di glosse che si iscrivono, senza Catherine Maubon soluzione di continuità, nel prolungamento del Glossaire in una prospettiva ludica che fa eco non tanto alla professione di fede che accompagnava le prime glosse sulla Révolution surréaliste: «En disséquant les mots que nous aimons, sans nous soucier de suivre ni l'étymologie, ni la signification admise, nous découvrons leurs vertus les plus chachées et les ramifications secrètes qui se propagent à travers tout le langage, canalisées par les associations de sons, de formes et d'idées. Alors le langage se transforme en oracle [... ]» (ora in Brisées, 1966) quanto piuttosto alla già distanziata Prière d'insérer della prima pubblicazione in volume: «Laisser les mots s'animer, se dénuder et nous montrer par chance, le temps d'un éclair osseux de dés, quelque unes de nos raisons de vivre et de mourir, telle est la convention du jeu. A mi-chemin des sols trop sales et des voutes trop sublimes, à niveaù d'air, entrant dans la peau du ròle, la poésie joue son role» (ora in Brisées). Poiché se da molto tempo il poeta non finge più di credere ad un cratilismo delle origini non per tanto ha rinunciato ad una rimotivazione del segno linguistico in grado di riattivarne la forza semantica attraverso uno smembramento del significante. Contrariamente al Narratore proustiano che rinnegò la sua fede nominalista dopo averne sperimentato gli inganni, Leiris l'ha invece confinata nello spazio-per lui sacro - del gioco, spogliandola dei suoi orpelli salvificisenza per tanto privarsi delle sue virtù euristiche. Di natura anagrammatica, i giochi linguistici di Souple mantique non si distaccano dai precedenti se non in un leggero spostamento dell'area semantica più vicina agli interessi dello scrittore ottantenne: «age- agite puis assagit?», «désir - rides - inversé», «destinée ( si tòt dessinée)», «littérature- ton rite et ton rut, ton raie et ta lutte ... », «mort - me met hors». Nella loro doppia veste di etimologie e di definizioni, le glosse si presentano come un analogon fonico o grafico delle voci delle quali offrono, tramite il loro smembramento, un equivalente semantico indirettamente motivato: «comique: qui moque», «Dieux hideux ... », «droite froide, gauche chaude». Presentate in ordine alfabetico, il più arbitrario ma anche quello di più facile consultazione, esse sospendono la relazione di denotazione tra il segno e il referente e quella di significazione tra il significante e il significato. Spingendo all'estremo l'arbitrarietà del segno linguistico, Leiris lo sottrae all'uso collettivo e contrattuale della quotidianità: totalmente individualista - «ce que les mots me disent» -, la sua posizione richiede il consenso dei pochi fedeli ai quali da tempo egli ha accettato di limitare la ricezione della sua opera. Anche se è vero che, in questo tipo di gioco, si finisce sempre per stabilire una relazione di senso tra la parola e la sua glossa (basti pensare ai giochi mai innocenti dei surrealisti), da buon giocatore e da buon freudiano, in tutte le occasioni, Leiris sceglie la glossa che meglio unisce il piacere del riconoscimento a quello della sorpresa, recuperando da una parte quanto perde dall'altra. A titolo d'esempio, particolarmente significativo nella sua felice evocazione dell'esperienza, in questo· campo molto travagliata, dello scrittore: «engagement - englué, encagé, je me mange et je me mens ... » (p. 25). ' E a Firenze, dopo l'ascolto di una magistrale rappresentazione del Falstaff, che Leiris iniziò la redazione di Musique en texte et musique antitexte, un centinaio di pagine (pp. 73-188) nelle quali, in una stupefacente panoramica, interroga un'ultima volta la propria esistenza di scrittore. Le domande sono quelle di sempre: perché e come scrivere? Cambia solo il tono (o la tonalità) della voce che raggiunge una forza fino ad ora mai sfiorata nella prosa. Per lo scrittore che non a caso invoca l'ultimo Verdi e il Finnegan's wake di Joyce, non si tratta più di dire (nulla da aggiungere quando si è giunti alla conclusione che «tutto nel mondo è burla!») ma di dire bene, di trovare la lingua giusta che meglio riesca a mimare e dunque ad ingannare la morte- l'unica verità. Una lingua dell'altrove dunque, una lingua altra che non ha precedenti nel suo inusitato equilibrio di giochi fonici e di precisione semantica: «Dur ou doux, ce qui se doit avant tout, c'est dire différent. D'où - que l'on n'en doute pas - mon langage d'ici, où les jeux phoniques ont pour ròle essentiel - eau, sei, sang, ciel - non d'ajouter à la teneur du texte une forme inédite de tralala allègre ou tradéridéra déridant, mais d'introduire-doping pour moi et cloche d'éveil pour l'autre - une dissonance détournant le discours de son cours qui, trop liquide et trop droit dessiné, ne serait ou'un délayeur ou défibreur d'idées» (pp. 89-90). Ancora una volta lo spaesamento appare come l'unico modo di sottrarsi. Ma ormai non si tratta più di sfuggire nello spazio per meglio sfuggire nel tempo. La presenza della morte impone un'altra forma di spostamento, più vicinaall'estetica tauromachica del gauchissement, nel suo inoltrarsi nelle zone sconosciute della lingua sottratta, fino al limite della rottura, al . suo uso transitivo. Giocare con i fonemi per vedere fin dove si può manipolarli senza rompere la catena verbale sulla quale si regge la ..parola; dilatare il periodo per sperimentare fin dove si può sincoparlo (Leiris è sempre stato grande intenditore di jazz) senza fare crollare le fondamenta sintattiche che sorreggono la rete verbale: lì sta la dimensione propriamente avventurosa di questo libro nel quale Leiris, che non ha più nulla da perdere, gioca con brio le sue ultime carte. Infatti mai lingua della morte (o lingua che si vuole tale nella sua mimetica disarticolazione) sarà stata così vitale nella sua felice sperimentazione di un nuovo modo di dire ciò che sempre si è detto perché nient'altro si può dire - se non dicendolo diversamente. Che la letteratura sia anzitutto affaire de mots Leiris non ha mai cessato di esserne convinto, anche nei momenti di maggior impegno. Langage tangage, libro nel quale si può quasi toccare con mano ciò che Barthes chiamava «le grain de la voix», lo dimostra con la forza d'impatto della sua giusta intonazione. «Finire in bellezza» è stato per Leiris un sogno di sempre. Niente affatto per il successo, ai condizionamenti del quale ha rinunciato fin dall'inizio. Ma piuttosto nella speranza di lasciare ai suoi lettori qualcosa che fosse in grado di sottrarli, anche momentaneamente, all'angoscia di vivere e di morire. Nulla di più poteva lasciarci di queste pagine nelle quali si percepisce il suono di una voce, la sua voce, veicolo della sua stessa vita: «[... ] parler d'une voix qui, sans appareil pesant, donne à entendre ce qu'elle veut qu'on entende et, par ses inflexions plutòt que par les arguments mis en avant, amène à croire aux vérités humaines - nécessairement personnelles - qu'elle énonce [... ]» (p. 115). I pugni~iin•~elacroix Juri Lotman La semiosfera Venezia, Marsilio, 1985 pp. 311, lire 30.000 Harold Bloom r---. L'angoscia dell'influenza .s Milano, Feltrinelli, 1983 ~ pp. 168, lire 19.000 t::I, ~ Stefano Zecchi ....., La magia dei saggi ,9 i:::s Milano, Jaca Book, 1984 [ pp. 199, lire 15.000 ~ 1. Il re nel bosco Nel luglio del 1830,mentre a Parigi ~ infuriava la lotta sulle barricate, un Ì gruppo di artisti svolgevaal Louvre è:s uno speciale servizio di protezione alle opere d'arte: ma tra essi scoppiavano sovente furiose liti che finivano anche a pugni. Ironicamente sottolineando il movente di tali risse, in cui era coinvolto Delacroix, autore di La liberté guidant le peuple, Italo Calvino rileva come esse avvenissero non per motivi politici, ma a favore delle «rispettive tendenze artistiche o del modo di valutare Raffaello». 1 I pugni tra artisti, più o meno metaforici, sembrano presiedere alla mutazione estetica sia nella prospettiva freudiana e nietzschiana di uno dei più noti saggi di Harolq Bloom, L'angoscia dell'influenza, che nell'ottica fenomenologica husserliana con cui Stefano Zecchi, nel recente La magia dei ~aggi, legge le scelte di Goethe, Blake o Lawrence. Ma la lotta per la selezione dell'identità estetica, comun denominatore delle due analisi così diverse per provenienza filosofica, sembra a sua volta giustificarsi nella recente riflessione teorica di Juri Lotman in La semiosf era. Impenetrabile alle gioie dell'intertestualità, così presenti ad esempio in Calvino o Joyce, Harold Bloom vede operare il poeta postilluminista2 secondo un angoscioso confronto, un misurarsi, come nel rito del re nel bosco, descritto da Frazer, con il predecessore o padre poetico, modello da negare e insieme iterare, termine di un duello nel quale verificare le proprie forze, nel tentativo di liberarsi dell'infanzia estetica. L'inevitabile ritorno del padre rimosso, riconosciuto o denegato, domina la ricerca estetica e limita la soglia dell'innovazione. Solo nello scarto (clinamen) di un fraintendimento, o nel compimento (téssera) del modello avvertito come incompleto, o nella «ripetizione discontinua» dei predecessori (askesis), il nuovo artista o efebo può trovare, nel rischio di una progressiva degradazione rispetto al suo modello, lo spazio della sua specificità e forza poetica. La teoria di Bloom propone così una nuova storia della letteratura come «evoluzione regressiva», dipendenza dell'efebo dal passato quanto la psicologia dell'adulto dipende, nella concezione freudiana, dal romanzo familiare della sua infanzia. I poeti del passato, morti che tornano, impongono un'esigenza di purgazione e frustrano il narcisimo dell'efebo, il cui successo paradossalmente comporta che sia la sua poesia a trasparire nei predecessori e non viceversa. La tensione per il dominio tra padre poetico e nuovo artista rivela pertanto un carattere eroico, un rituale di sopraffazione che lo stesso Bloom salda alla concezione nietzschiana: il temibile test, che solo i più forti superano, comporta aspn costi (l'angoscia) e esiti intrinsecamente «perversi». La teoria dell'influenza si fa in
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